Corriere La Lettura 7.2.16
Corpo come le pietre, psiche come l’animale, l’uomo è anche spirito
di Piero Stefani
Che
cosa avvenga a un essere umano quando i suoi occhi si chiudono
all’esistenza terrena è domanda che non trova risposta nell’esperienza
di alcun vivente. Si tratta di un’affermazione talmente scontata da
risultare dicibile solo se sostenuta da qualche richiamo culturale
evocando «il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun
viaggiatore ritorna»; forse, per essere più amletici di Amleto, perché
quel paese semplicemente non c’è. Tuttavia quando, sgombrate le
impalcature psicologiche e le convenzioni sociali, si è assaliti nel
proprio intimo da «questo problema», esso è posto pensando a se stessi o
a chi ci è caro, e non a Shakespeare.
Per qualcuno
l’interrogativo trova risposta certa; per altri invece l’aldilà resta,
per dirla con Rabelais, il «grande forse». Si tratta di un pensiero non
estraneo neppure alla Bibbia. Anche nel libro sacro qualche volta le
domande prevalgono sulle risposte. Per il Qohelet (3,21) è certo che
tutti ci incamminiamo verso la polvere, mentre è problematico se la
ruach (come tradurre? «spirito», «alito vitale», «soffio»?) dell’uomo
salga verso l’alto e se quella delle bestie sprofondi verso il basso.
«Forse», «chissà». La prospettiva, per qualcuno, può suonare anomala e
consegnabile soltanto a un libro strano come il Qohelet . Un’eccezione, o
forse una concessione che dice allo scettico: guarda che nella Bibbia
c’è un angolino anche per te. In effetti nella Scrittura ci si imbatte
anche in risposte, tuttavia esse non sono univoche. Una prospettiva però
è certa: la domanda sul «dopo» si collega con quella relativa
all’«origine».
In una delle prime pagine della Bibbia si legge che
«il Signore Dio, dopo aver plasmato l’uomo con la polvere del suolo,
gli soffiò nelle narici un alito di vita ( nishmat chayyim ) e l’uomo
divenne vivente ( nefesh chayiah )» ( Genesi 2,7). In Occidente c’è una
memoria lunga del fatto che il «biologico» non trovi in se stesso la
spiegazione della propria origine e debba, quindi, rimandare a un alito
di vita primordiale che viene dal di fuori. Tracce di simili convinzioni
si riscontrano persino nelle righe finali dell’ Origine delle specie di
Charles Darwin.
L’antropologia biblica non conosce il dualismo
anima-corpo. In essa non c’è spazio per la visione del neoplatonico
Celso, secondo la quale l’anima è opera di Dio mentre in base alla
natura non c’è differenza tra la nostra corporeità e quella di un
pipistrello, di un verme o di una rana. Di norma nella Bibbia ci si
riferisce a una concezione tripartita e relazionale dell’essere umano
articolata in tre dimensioni: carne (ebraico, basàr; greco sarx ), anima
(ebraico, nefesh ; greco, psyche ), spirito (ebraico, ruach ; greco,
pneuma ). Altrettanto consueto è affermare che l’essere umano è (non ha)
carne, anima e spirito. Visto nella prospettiva della sua caducità è
«carne», colto nel suo affermarsi come essere vitale è «anima», scorto
nella sua dimensione relazionale con l’altro da sé — a iniziare da Dio —
è ruach (in questo caso intesa come spirito e non come respirazione). È
dunque solo lo spirito a distinguere gli esseri umani dagli altri
animali?
Nella cultura occidentale la comunanza genetica tra
uomini e animali è letta, ormai da quasi due secoli, eminentemente in
chiave evolutiva: noi deriviamo da loro. Questa precedenza oggi viene a
volte interpretata come indice di un cammino ancora da percorrere per
gli uni e per gli altri. Di quest’ultimo parere è il teologo e analista
junghiano Eugen Drewermann il quale, nel suo piccolo saggio
Sull’immortalità degli animali (Castelvecchi, 2013), sostiene che, in
base ai risultati raggiunti dalla psicoanalisi e dall’etologia, non è
possibile respingere l’idea che uno solo sia il flusso vitale che
dapprima ha reso possibile il nostro diventar uomini a partire dal mondo
animale e che ora continua a svilupparci come esseri umani. Quella
comune appartenenza, che in altre culture si esplica nella generale
partecipazione al ciclo senza fine delle reincarnazioni, qui viene
riferita a una forza evolutiva spirituale destinata a dar luogo a una
universale quanto immediata immortalità. A lungo la fede nata dalla
Bibbia è stata, però, vissuta secondo parametri diversi da quelli
prospettati da Drewermann.
La morte individuale intesa come evento
unico e irripetibile è una eredità biblica passata alla civiltà
occidentale; ciò non equivale affatto a sostenere che questo solco sia
indelebile; al giorno d’oggi ci sono anzi molti segni che vanno in
direzione opposta. In ogni caso, fino a quando si tiene ferma l’unicità
della morte, la riacquisizione vitale della pienezza umana è obbligata a
presentarsi come una riappropriazione del sé compiuta in virtù della
forza esterna dello spirito. Esso però deve trovare una corrispondenza
interna capace di recepirlo. Lo snodo è tutto qua. Occorre una forza che
viene dal di fuori capace di relazionarsi con noi e noi con essa. A
tutto ciò il lessico biblico diede il nome di ruach o di pneuma .
Vito
Mancuso, in un suo libro intitolato Questa vita (Garzanti, 2015),
afferma che, come tutti gli altri corpi fisici, anche il nostro
organismo è energia+informazione. A differenza di tutti gli altri
esseri, quelli umani si articolano però su tre livelli: corpo, psiche e
spirito. Siamo corpi al pari delle pietre, siamo anima al pari degli
animali (l’etimo qui non è ingannevole); tuttavia la vita umana,
allorché energia e informazione producono un’ulteriore crescita, attinge
a un terzo livello tradizionalmente denominato «spirito».
Il
grande displuvio tra la concezione biblica e quella evolutiva sta nel
fatto che per la Scrittura la ruach è non già un potenziamento interno,
ma una forza che viene al vivente dall’esterno. Essa, lungi dall’essere
un prodotto potenziato di energia+informazione, va piuttosto paragonata
all’alito di vita insufflato all’inizio. Lo spirito è una realtà posta
al principio e alla fine dell’esistenza terrena. Quando parla dell’«uomo
vivente» la Bibbia parla di una creazione diretta non mediata da alcuna
evoluzione (affermazione, quest’ultima, che solo i fondamentalisti
ritengono risolutiva del tema teologico incentrato sui rapporti tra fede
e scienza).