lunedì 29 febbraio 2016

Corriere 29.2.16
Le elezioni americane Non sono le nostre
risponde Sergio Romano

Sono un elettore di centrodestra e perciò, a rigor di schieramento, dovrei sperare in un presidente Usa repubblicano. Ciononostante non riesco a condividere il sostegno di molti editorialisti della mia parte politica in favore di un personaggio come Trump che potrebbe vincere le primarie. Mi chiedo come si possa «tifare» perché le leve del comando del più potente Stato della terra vengano manovrate da un simile personaggio. Non mi resta che fare un’amara riflessione: se «politica» significa che, pur di far perdere l’avversario, siamo disposti a parteggiare per un megalomane ignorante e decisionista al limite dell’incoscienza a capo della più potente nazione mondiale, allora «politica» diventa sinonimo, anzi sintesi, di invidia, ipocrisia, malafede, disprezzo per le persone, rinuncia alla propria dignità e prostituzione dei principi. Parole forti? No, inequivocabili.
Roberto Bellia

Caro Bellia,
Credo che le sue riflessioni sulla campagna elettorale americana siano un retaggio della guerra fredda: un periodo della nostra storia in cui la propaganda ci aveva abituato a credere nella unità dell’Occidente democratico contro l’universo comunista guidato dalla Unione Sovietica. Guardavamo agli Stati Uniti come a un Paese guida, autorizzato dalle sue dimensioni e dalle sue virtù a fissare per tutti i tempi del progresso, a decidere quali fossero le grandi tendenze della modernità.
Questa sudditanza culturale ebbe l’effetto di trasformare i cittadini europei in altrettanti cittadini americani senza diritto di voto. A seconda delle nostre preferenze ideologiche facevamo il tifo per l’uno o l’altro dei due principali candidati alla Casa Bianca come se l’esito del voto fosse destinato ad avere una influenza decisiva sulla nostra politica nazionale. I progressisti erano felici quando gli americani eleggevano un presidente democratico, i conservatori quando eleggevano un presidente repubblicano. Indipendentemente dalle nostre preferenze, fummo quasi sempre delusi. Kennedy non era il presidente modernizzatore e coraggioso in cui i democratici europei avevano riposto le loro speranze. Il vero riformatore della società americana fu il suo successore, Lyndon Johnson; ma agli occhi degli europei Johnson era l’uomo del Vietnam e quindi, a priori, detestabile.
I liberal europei fecero festa quando gli americani mandarono alla Casa Bianca il democratico Bill Clinton invece del repubblicano George Bush senior. Ma Clinton abbandonò la Somalia nel caos, scatenò una guerra alla Serbia, incrinò i rapporti con la Russia promuovendo l’allargamento della Nato ad alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale e fece a Wall Street uno straordinario regalo: la sostituzione del Glass-Steagall Act (la legge sulle banche voluta da Franklin D. Roosevelt nel 1933) con le norme più permissive che sono in buona parte responsabili della grande crisi del 2008. Con George W. Bush è accaduto esattamente il contrario. La sua vittoria è stata salutata entusiasticamente dai partiti conservatori. Ma le sue guerre hanno creato sulle frontiere meridionali dell’Europa un’area di instabilità molto più minacciosa di quanto fosse il sistema sovietico negli anni della Guerra fredda.
Sono queste, a mio avviso, caro Bellia, le ragioni per cui dovremmo contemplare le elezioni americane da una certa distanza, senza preferenze. Il presidente è eletto dai suoi connazionali e cercherà sempre di fare i loro interessi, non i nostri.