Corriere 21.2.16
Liberata l’ultima Pantera Nera, dopo 43 anni in cella d’isolamento
Esce l’ultimo degli «Angola Three»: nessuno ha mai trascorso tanto tempo in solitudine
Sotto
il sole del pomeriggio i primi passi da uomo libero, uomo non più
isolato dal mondo, li ha fatti abbracciato al fratello. I giornalisti
davanti alla prigione della Louisiana chiamata Angola gli hanno chiesto
se avesse piani per il futuro: «Andare a trovare mia madre al cimitero».
Un
futuro a corto raggio, come il recinto del suo passato: per quasi 44
anni Albert Woodfox ha vissuto in una cella di due metri per tre, senza
incontrare nessuno a parte il secondino di turno, unica finestra un
piccolo televisore. Quando entrò nel «buco», com’è chiamata in gergo la
cella del «solitary confinement» («una soluzione abitativa» che tocca a
decine di migliaia di detenuti in America), era l’epoca in cui il
presidente Nixon andava a Pechino e nei cinema usciva «Il Padrino».
Woodfox aveva 26 anni ed era dentro per rapina. Era in quel carcere, ex
piantagione di schiavi provenienti dall’attuale Angola, quando con altri
due detenuti fu condannato per l’uccisione dell’agente Brent Miller,
trovato morto in un dormitorio un giorno di aprile del 1972. Ad accusare
i tre — appartenenti al gruppo delle Pantere Nere che preferivano
l’autodifesa alla nonviolenza — solo testimonianze di altri prigionieri:
raccontarono che Albert teneva la guardia per le spalle, mentre gli
altri lo uccidevano.
Ogni 90 giorni, Woodfox ha visto rinnovato
l’ordine di isolamento. Un’ora d’aria al giorno, con mani e piedi
incatenati. Sono passati i decenni. I testimoni oculari sono morti. Il
Procuratore Generale della Louisiana James Caldwell, secondo il quale
Woodfox «era l’uomo più pericoloso della Terra», lo scorso autunno ha
perso le elezioni e il suo pulpito. Giudici federali, in epoche diverse,
avevano già riscritto la storia degli «Angola Three». Cancellando le
vecchie sentenze, riconoscendo che Woodfox aveva vissuto nel «buco» per
un delitto che probabilmente non aveva commesso. In un groviglio di
ricorsi altri giudici, e in particolare le autorità della Louisiana, ne
hanno impedito la scarcerazione, a lungo invocata anche da Amnesty
International. Fino a questa settimana. Dei «Tre dell’Angola», Albert
era l’unico dentro. Un uomo e la sua vita a corto raggio. A 69 anni c’è
chi, come Donald Trump, si candida a presidente. E chi esce dal carcere
portando nelle ossa il suo record di resistenza.
Nessuno ha mai
vissuto così tanto in isolamento. Non è facile, uscire. Ci sono ex
detenuti che una volta liberi hanno vissuto mesi in un bagno, perché la
casa era così grande da fare paura. Woodfox è uscito il giorno del suo
compleanno. A passi corti ha lasciato l’Angola con un sorriso, senza
voltarsi, alzando timidamente il pugno della mano destra. Una pantera
ingrigita, fiaccata dall’epatite e dall’ipertensione, seduta sul sedile
anteriore di una berlina azzurra, con il fratello Michael al volante.
Lui che si è sempre proclamato innocente, si preparava a sostenere un
terzo processo. Ma alla fine ha accettato un compromesso, un
patteggiamento (su imputazioni minori) che permette all’accusa di
gridare vittoria e a Woodfox di insistere sulla propria innocenza.
Venerdì
sera la prima apparizione pubblica, con il Black Panther Party a New
Orleans. Un sopravvissuto sorridente, stranito, silenzioso, vestito di
nero. Accanto a Robert King, un altro degli Angola Three, che ha visto
annullare la sentenza nel 2001. Era anche lui al cancello, ad aspettare
Albert. Il terzo, Herman Wallace, no. È morto nel 2013. Quando il cancro
stava per portarselo via, un giudice l’ha fatto uscire di prigione.
Poche ore dopo il rilascio, lo Stato della Louisiana ha chiesto un nuovo
arresto. Ma lui li ha fregati il giorno dopo, morendo da uomo libero,
non più solo .