Corriere 1.2.16
L’urlo vincente degli schiavi
Al Sundance
si impone l’attore-regista Nate Parker con il film choc su una rivolta
nera del 1831: da campione di wrestling a stella del cinema Usa
di Giovanna Grassi
park
city L’attore afroamericano Nate Parker, un passato di campione di
wrestling e di programmatore di computer, prende le distanze da
qualsiasi diatriba sugli Oscar «troppo bianchi» stringendo le due targhe
di vetro come vincitore al Sundance Film Festival del premio della
giuria e di quello del pubblico per The Birth of a Nation del quale è
protagonista, co-produttore, regista e sceneggiatore.
Dice: «Ho
lavorato per sette anni al progetto di questo film su Nat Turner, lo
schiavo e predicatore nato in Virginia, che nel 1831 fu il leader di una
rivolta. Da allora, da sempre gli afroamericani cercano una identità
completa come americani che, con orgoglio, sono anche afro. Ritengo
discriminatori i concetti di minoranza afro e di maggioranza bianca. Il
film spinge a capire a fondo la storia e il problema profondo
dell’integrazione di molte etnie negli Usa. Mi auguro che nessuno
affermi: “Ecco, pensando al box office, un’altra storia di schiavitù
dopo 12 anni schiavo e Django Unchained” ».
Accolto a ogni
proiezione da una standing ovation, il film ha iniziato una strada che
si preannuncia lunga perché acquistato a peso d’oro dalla Fox
Searchlight (oltre 17 milioni di dollari) per una distribuzione
mondiale, concorrerà nel 2017 a ogni premio possibile.
«Non penso a
quello che potrebbe accadere tra tredici mesi — ride Nate — e sono
felice di essere a Park City dove il mio film è stato aiutato dal
Sundance Institute. Ci sono nel copione temi complessi che toccano e
affrontano la religione, da quella tribale a quella cristiana; la
condizione quotidiana di tanti uomini, donne e bambini nel Sud
dell’America, la ribellione che porta alla trasformazione degli animi e a
conflitti sanguinari».
Artista eclettico, lasciatosi alle spalle
il ragazzo ribelle che aveva trovato nello sport e nella recitazione la
possibilità di scaricare la sua rabbia e le sue difficoltà
temperamentali dovute anche a una adolescenza non facile con una madre
che lo aveva messo al mondo a 17 anni e mai aveva sposato il suo padre
biologico, Nate è oggi un uomo e un padre di famiglia sereno, impegnato
anche in attività filantropiche.
«Ho alle spalle — afferma — una
filmografia d’attore quanto mai varia. Questo film così fortemente
voluto non è mai stato per me solo una biografia, ma un soggetto carico
di una energia spirituale unica, speciale, che va al di là di ogni
brutalità anche del Ku Klux Klan. C’è una violenza a volte ardua da
guardare in The Birth of a Nation , ma le sue radici vanno cercate nella
storia, nelle immagini delle mani di donne, uomini e bambini piagate
dal lavoro di raccoglitori di fiocchi di cotone, dai soprusi di chi era
capace di mettere corde al loro collo come se fossero cani da
passeggio».
Spiega: «Nat impara a leggere la Bibbia, il suo
proprietario bianco (Armie Hammer) commercializza le sue qualità di
predicatore. Poi le violenze subite dalla sua amatissima moglie Cherry
(Aja Naomi King) lo spingono a una reazione durissima. Persino la Bibbia
diventa per lui uno strumento non certo di pace, ma di battaglie
intellettuali. Ho lasciato volutamente lo stesso titolo del dramma del
cinema muto ed epico, diretto da D.W. Griffith nel 1915. Sono cresciuto
nel Sud, ho sempre avuto un grande rispetto per la storia di Nat che
avevo studiato da ragazzo al college. Non tutti i ruoli da me
interpretati hanno avuto sino a oggi una integrità morale».
«Sono
orgoglioso — conclude — di essere americano e di aver raccontato come
questa Nazione, costruita su tante ribellioni, deve non poco a Nat, che
ha fronteggiato non solo per se stesso ogni forza oppressiva. Offro alle
nuove generazioni il mio film con un atteggiamento quanto mai sano da
allenatore e atleta sportivo passato dietro la cinepresa e sempre alla
ricerca delle migliori qualità degli esseri umani».