Corriere 1.2.16
Leadership
Dalla democrazia parlamentare a quella plebiscitaria
In Italia come in tutto l’Occidente la rappresentanza è in crisi e può condurci a un nuovo modello
di Paolo Franchi
D
avvero sta mutando «la geografia del potere italiano e dei suoi
rapporti interni»? E, dietro questi mutamenti, non ci sarà forse
qualcosa di più, e cioè «l’avvento di una gente nova e del suo comando
al posto delle élite di un tempo e delle loro istituzioni»? Il tema c’è
tutto, e ha fatto benissimo Ernesto Galli della Loggia ( sul Corriere ) a
enunciarlo senza giri di parole. L’ambizione di leadership politiche di
sfidare le élite tradizionali, per ridimensionarne assai il peso e le
prerogative, si ripresenta, in forme ovviamente diverse, lungo tutta la
nostra storia.
Per restare a quella recente, la lotta degli
homines novi (non solo della politica) contro i poteri forti e i salotti
buoni, in una parola contro l’establishment tradizionale, negli anni
Ottanta fu un aspetto fondamentale dell’ideologia non tanto di Bettino
Craxi, un politico in verità sin troppo realista, quanto del cosiddetto
craxismo e dei suoi ideologi d’assalto. Nel ventennio successivo, su
basi diverse e con maggior successo, questa lotta, non solo ideologica
ma condotta anche in nome di un’ideologia («la religione del
maggioritario», il premier unto, se non proprio dal Signore, dal mandato
popolare), fu condotta sin dall’inizio da Silvio Berlusconi e dal
berlusconismo: qualcuno ricorderà le polemiche di Giuseppe Tatarella, il
«ministro dell’Armonia» di Alleanza nazionale, contro la Banca d’Italia
e, in tutti gli anni successivi, i ricorrenti, durissimi attacchi a
tutte le istituzioni di garanzia, dal Quirinale a scendere.
Ma
tutto questo non significa che Matteo Renzi sia l’epigono, o il
figliastro di successo, di Berlusconi o addirittura di Craxi, come
suggerisce l’abborracciato albero genealogico proposto da conservatori
di destra e di sinistra. Per la diversità della sua formazione e della
sua cultura politica e anche per evidenti motivi generazionali,
naturalmente. E poi, si capisce, perché — lo dice bene Galli della
Loggia — partiti e tradizioni politiche, di fatto, non ce ne sono più da
un pezzo, e Renzi e la sua «gente nova», rottamato quel che restava
della classe dirigente postcomunista del Pd, possono proporsi di
allargare la rottamazione ben oltre la porta di casa, mettendo certo in
conto forti resistenze, soprattutto passive, ma avendosene in cambio il
consenso di una parte vasta del Paese, slegata esattamente come loro da
qualsiasi rapporto con il passato, prossimo e meno prossimo, e ben poco
affezionata alle élite . A differenza di Craxi, che aveva a che fare con
la Dc e con il Pci, e non raggiunse mai il 15 per cento, e di
Berlusconi, che dalle urne usciva vincitore persino quando, in termini
di seggi, il centrodestra perdeva le elezioni, Renzi, fin qui, la prova
del voto non la ha mai passata, se non in ormai lontane elezioni europee
che valgono, come è noto, quello che valgono. Renzi non è De Gaulle,
Rignano sull’Arno non è Colombey-les-deux-Eglises. Ma non è certo un
caso se il presidente del Consiglio ha scelto come momento della verità
il referendum sulla riforma del Senato, annunciando che, in caso di
sconfitta, se ne tornerà a casa. È altamente probabile, e Renzi è
ovviamente il primo a saperlo, che il sì vinca, e anche di larga misura.
Non è certo il superamento del bicameralismo perfetto la posta in
gioco: a quel punto, sempre che le cose vadano effettivamente così, i
segnali di oggi (in termini calcistici: un galoppo infrasettimanale
particolarmente ricco di indicazioni per il mister) potranno cominciare a
trasformarsi in fatti concreti, grazie anche al combinato disposto con
la nuova legge elettorale. La «gente nova» di cui dice Galli della
Loggia rappresenta di per sé poco o nulla. Ha bisogno, per affermarsi,
di un capo indiscusso e indiscutibile, simile a lei ma migliore di lei,
cui la leghino vincoli scritti e non scritti di fedeltà assoluta, e che
la trascini al centro della scena, promuovendola sul campo come l’unica
classe dirigente di cui il Paese dispone. Perché tutto questo sia
possibile, non bastano un premier giovane e forte, e neanche regole per
garantire la governabilità. Serve un cambiamento di sistema, il
passaggio cioè, da quel poco o nulla che resta della nostra democrazia
parlamentare a qualcosa che ha molto da spartire, se non ci spaventiamo
delle parole, con una democrazia plebiscitaria, seppure all’italiana.
Può darsi che sia questo l’unico esito possibile, e magari anche l’unico
esito realisticamente auspicabile, per una crisi democratica che
travaglia tutto l’Occidente, spesso in forme più acute di quelle
italiane. Può darsi. Ma prima di tutto sarebbe bene stabilire che di
questo, non di altro, stiamo parlando.