Repubblica 7.1.1
Quale lavoro per i giovani
di Nadia Urbinati
SCRIVEVA Gramsci il primo gennaio di cento anni fa di odiare i capodanni «a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione»; che fanno perdere «il senso della continuità della vita », facendo credere che tra anno e anno incominci una nuova storia con “propositi” di cambiamento e correzione di vecchi errori. Ma poi, ogni nuovo anno si rivela essere sempre un vecchio anno. Questa rappresentazione si adatta bene a chi, nonostante si sforzi di non cadere nel gufismo, si imbatte nei dati Eurostat da poco resi noti, e si accorge di una realtà effettuale che non consola e, soprattutto, non consente evasioni.
I dati confermano la invariabilmente sconfortante condizione (non)lavorativa giovanile. Il trend negativo persiste e riguarda soprattutto coloro che hanno già concluso gli studi universitari (dai 25 ai 34 anni), per i quali l’inattività continua ad essere alta e, anzi, ad aumentare: il livello cresce costantemente da dieci anni, passando dal 21,9% nel 2004 al 27% nel 2014 e al 27,6% nel 2015. Alla fine della formazione universitaria, dunque, i giovani non trovano lavoro per un lungo periodo di tempo (uno su tre lo trova dopo tre anni) neppure, a quanto pare, se adottano l’espediente suggerito dal Ministro Poletti e si accontentano di voti bassi o mediocri. La condizione per le giovani donne è perfino peggiore: lo è in tutti i paesi europei in generale, dove i tassi dell’occupazione maschile sono stati sempre costantemente superiori a quelli dell’occupazione femminile, ma lo è soprattutto in tre paesi, Malta, l’Italia e la Grecia che registrano la più alta percentuale di disoccupazione giovanile di genere.
Per i giovani al di sotto dei trent’anni si prospettano tre scenari possibili: inattività forzata, lavori atipici o emigrazione. Raramente un lavoro ben retribuito; generalmente un lavoro mal pagato; lavoro per gli uomini più che per le donne; e infine prospettive di carriera insoddisfacenti: ci sono tutti gli ingredienti per una vita infelice.
Come dare torto a chi lascia? A chi decide di impiegare al meglio gli anni più creativi e pieni di futuro fuori del proprio Paese? Chi se ne va, non ha gettato la spugna e non è un disfattista. Se poi è l’Europa la meta dell’andare, è ragionevole pensare che più che di emigrazione si debba parlare di trasferimento di residenza. È del resto un fatto che l’Europa a partire dal Trattato di Roma è nata sul principio della libertà di movimento per ragioni di lavoro. E nel corso degli ultimi decenni, la mobilità dei giovani verso gli atenei stranieri è stata stimolata anche per facilitare il processo di integrazione europea. Sugli effetti virtuosi dei programmi Erasmus c’è pieno consenso. Se tutto questo è vero, ha senso preoccuparsi di questi dati?
Ha senso preoccuparsi per la concatenazione con la quale i dati sono inanellati: inazione, lavori atipici o emigrazione. Questo induce a pensare che si emigra non semplicemente per trovare un lavoro qualsiasi — del quale probabilmente si può sperare, almeno a tre anni dalla laurea, anche in Italia. Si emigra perché non si vuole accettare un lavoro qualsiasi. Si esce per trovare un lavoro che sia soddisfacente poiché, evidentemente, né l’inazione né il lavoro per un pugno di soldi è sufficiente a far sentire soddisfatti. È questa narrativa suggerita dai dati Eurostat che non può non preoccupare e rattristare. Essa fotografa non solo un Paese che ha molte porte chiuse ma anche che apre porte che non lasciano presagire un futuro (e un presente) soddisfacente. Se i giovani se ne vanno, quindi, è perché non si accontentano del lavoro atipico e vogliono provare se stessi al meglio, un’opzione che le esistenti porte aperte non lasciano molto probabilmente intravedere.
È questa ricerca non soddisfatta della buona condizione lavorativa che deve far impensierire. Perché denuncia una realtà ingessata e a quanto pare resistente al mutamento. Perché propone una lettura che va nella direzione opposta a quella del lavoro pur che sia, anche a costo di voti bassi. Perché esige una prospettiva di vita, e non una qualche occupazione. È questa lettura dei dati Eurostat che deve fare riflettere perché mette in luce una realtà insoddisfacente dal punto di vista psicologico ed esistenziale, prima ancora che economica. Non è solo per la mancanza di lavoro che i giovani emigrano, ma anche perché le condizioni lavorative prospettate sono probabilmente poco attraenti, poco elastiche all’inventiva personale, poco disposte a ben vedere l’intrapredenza individuale e molto preoccupate a preservare un modus operandi inossidabile, equilibri consolidati spesso conformisti e gerarchici. Sono anche queste le ragioni che inducono i giovani ad andarsene. A non accettare l’inazione o il lavoro atipico o un’occupazione qualsiasi.