mercoledì 6 gennaio 2016

Repubblica 6.1.16
Bruxelles, incubo da effetto domino “La fine di Schengen è un rischio reale”
Il timore è che la Germania possa seguire l’esempio scandinavo
“Roma e Atene non filtrano profughi” Via l’italiano dalla squadra Juncker
di Alberto D’Argenio


UN impegno politico a coordinarsi, a consultarci evitando iniziative unilaterali sarebbe già un risultato positivo, altrimenti rischiamo l’effetto domino». Sotto il quale Schengen crollerebbe mettendo fine a sessant’anni di sogno europeo.
Queste parole arrivano dagli uffici del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker alla vigilia del vertice tra il responsabile dell’Unione europea, Avramopoulos e i ministri degli Interni di Svezia e Danimarca, che hanno ripristinato i controlli alle frontiere, e Germania, coinvolta perché il blocco si ripercuote sui suoi confini. E il fatto che un sempice impegno verbale ad evitare altre fughe in avanti rappresenterebbe un successo, la dice lunga sul clima di preoccupazione che si respira a Bruxelles.
Nessuno si fa illusioni sul fatto che Stoccolma e Copenaghen rinuncino al ripristino dei controlli, peraltro legali per due mesi se legati a ragioni di sicurezza, nessuno spera che finalmente i governi dei Ventotto finalmente trovino la volontà comune di fare un passo avanti nella gestione della crisi rifugiati. Al contrario, a prevalere sono i timori.
Come quello che il prossimo passo lo faccia la Germania. Al termine di una serie di contatti informali tra i vertici delle istituzioni Ue e i governi coinvolti dalla crisi è emerso che gli svedesi avevano informato Berlino, ma non Bruxelles, che avrebbero stretto su Schengen.
E ora, a valle delle telefonate riservate, si teme che anche il governo di Angela Merkel, pressata dall’ala destra della Cdu e dai fatti di Colonia, possa chiudere Schengen. A quel punto l’effetto domino rischierebbe di trasformarsi in una valanga sotto la quale di fatto potrebbe spirare Schengen, quella libertà di movimento pilastro e simbolo dell’Europa unita. E non è un caso che tra le istituzioni europee c’è chi teme che il passo successivo sarebbe la richiesta di alcuni governi di rivedere in senso restrittivo le regole di Schengen a sigillo della fine di un’epoca.
Juncker è impegnato perché ciò non avvenga, ma il clima è teso visto che oggi i protagonisti della crisi sono paesi storicamente solidali come la Svezia, che fino ad oggi ha concesso asilo politico a tutti i siriani che hanno varcato i suoi confini ma che ora vacilla sotto il peso di 160mila migtanti accolti in un anno (per non parlare del milione abbracciati dalla Germania).
Così si arriva al capitolo responsabilità: a Bruxelles e in altre capitali non si nasconde che parte del problema è rappresentato da Italia, Grecia e Turchia.
Roma ed Atene, è l’atto di accusa, non filtrano i migranti, non stanno facendo lavorare a dovere gli hotspot, non registrano i nuovi arrivati lasciandoli partire per il Nord Europa.
Quanto ad Ankara, dopo l’accordo che impegna l’Unione a versarle tre miliardi per gestire i quattro milioni di siriani sul suo territorio, gli europei si aspettavano la chiusura totale delle frontiere della Mezzaluna, mentre l’ennesima tragedia di ieri, 39 morti nel Mediterraneo, dimostra che Erdogan non ha dato quel giro di vito alle partenze che gli era stato richiesto. Tanto che ieri la Csu, alleato bavarese della Merkel, ha denunciato l’arrivo nel Land di 33mila migranti da Natale.
Che fare, dunque? La Commissione doveva varare entro dicembre le nuove regole di Dublino rendendo permanente registrazione negli hotspot, redistribuzione tra i Ventotto dei rifugiati e il rimpatrio automatico di chi non ha diritto all’asilo. Ma visto il flop del sistema provvisorio e i litigi tra governi, il dossier slitta a marzo e si teme che la proposta possa essere annacquata. Rischio del quale è consapevole il governo italiano. Per questo motivo ieri il sottosegretario Sandro Gozi garantiva che Roma «non ha preso in considerazione e non lo farà nemmeno in futuro » l’ipotesi di chiudere le frontiere con la Slovenia.
E il governo a fine gennaio presenterà a Bruxelles una serie di proposte di alto profilo su Dublino e Schengen in modo da rinforzare politicamente Juncker in vista della presentazione delle nuove regole ai leader europei. Ma Renzi con i collaboratori non nasconde l’irritazione verso la Commissione, «che avrebbe dovuto fare di più per imporre la distribuzione dei rifugiati e i rimpatri ai governi riottosi», a partire da quelli dell’Est Europa.
Ma in queste ore tra Roma e Bruxelles sono scintille anche per via della decisione, definita «inaccettabile», di sostituire l’unico italiano nel gabinetto Juncker, Carlo Zadra, con un britannico.
Il governo ha chiesto per vie informali di ripristinare una presenza italiana negli uffici della presidenza (per opportunità politica, non c’è l’obbligo di avere un funzionario per nazione). Zadra si è dimesso a causa del deteriorarsi dei rapporti con il capo di gabinetto di Juncker, il tedesco Martin Selmayr, che peraltro lo aveva personalmente scelto.
Dal Team Juncker negano che i fatti siano conseguenza dello scontro Renzi-Merkel, che ha colpito di striscio anche Juncker, del 17 dicembre, ma per «considerazioni di merito, competenze ed esperienza, non di nazionalità ». «Inoltre — ricordano — per cinque anni Barroso non ha avuto alcun italiano nella sua squadra. E nessuno aveva sollevato il problema».