martedì 5 gennaio 2016

Repubblica 5.1.16
Usa, Russia ed Europa: così i sauditi mobilitano ex avversari e vecchi amici
ORA che il conflitto con l’Iran si fa ancora più aspro, Riad cerca di mobilitare vecchi e nuovi alleati.
di Renzo Guolo


La crisi con Teheran, volutamente alimentata con la decisione di giustiziare il leader sciita Al Nimr, diventa,nelle intenzioni della nuova, muscolare, leadership saudita, l’occasione per uscire dall’isolamento nel quale sia l’accordo sul nucleare iraniano, che ha sdoganato l’Iran come potenza regionale, sia l’ambigua politica verso l’islamismo radicale in Siria, avevano gettato il Regno. Lo scontro aperto con gli iraniani consente di evitare scelte sgradite, magari effetto di imperativi e pressioni legate ai diversi livelli del sistema di alleanze, sia di andare sino in fondo a operazioni, come quella in Yemen, ritenuta strategica per la dinastia saudita e sulla quale la nuova generazione dei principi regnanti si gioca la futura legittimità a governare.
A Riad, si cominciano, così, a contare e misurare gli alleati, quelli veri, quelli di circostanza, quelli solo formalmente tali. A partire dagli Stati Uniti. Non è un mistero che la decisione americana di dare il via libera all’accordo di Vienna sul nucleare iraniano sia stata percepita dai sauditi come un cambio di paradigma. Come prova della decisione degli Usa, ormai lontani dalla dipendenza energetica del passato dal petrolio del Golfo, non solo di allontanarsi dalla regione ma di dare riconoscimento alle ambizioni iraniane nell’area. E, per incompatibilità di interessi strategici e di identità religiosa, non vi è posto , in Medioriente, per due potenze regionali egemoni. Il gioco che le contrappone non è a somma zero: una delle due è destinata a perdere. A lungo dominante nel Great Game mediorientale ora l’Arabia Saudita si agita davanti al fantasma di un Iran nuovamente in scena, sorretto dalla Russia di Putin, pronto a rientrare nella comunità internazionale anche come partner economico affidabile, in particolare sul terreno energetico.
Ignorare l’America, nell’attesa di un cambio al vertice della Casa Bianca, che porti nello Studio Ovale non Hillary Clinton , invisa per i suoi giudizi negativi sul ruolo del wahhabismo radicale saudita nella genesi dello jihadismo, ma un repubblicano duro e puro, tradizionalmente ostile all’Iran e in sintonia con le posizioni saudite e israeliane, è la linea attuale. Contando sul fatto che se la Casa Bianca non può mandare in soffitta il tanto sofferto e desiderato accordo atomico con l’Iran deve, comunque, mantenere i legami con i paesi sunniti. Per ovvie ragioni geopolitiche e economiche, dal momento che gli Usa hanno in Medioriente basi militari e devono tenere conto dell’azione sui mercati dei fondi sovrani, compresi quelli che detengono quote del debito americano. I paesi sunniti, poi, tanto più ora che sono parte dell’alleanza antiterrorismo voluta da Riad, sono decisivi, politicamente ma anche ideologicamente, nel contrastare l’Is. Uno scenario che costringe Obama, sopratutto nell’anno delle elezioni, a evitare decisioni che possono incidere sulla corsa elettorale.
L’altro corno del problema sul versante delle potenze globali, o che ambiscono tornare a esserlo, è quello russo. Mosca è alleata di Teheran, in particolare in Siria, dove i Pasdaran e i loro alleati, Hezbollah hanno avuto un ruolo decisivo nel contrastare gli jihadisti ma anche in Iraq, dove le milizie sciite, vero nerbo del regime, restano ostili ai sunniti locali. Ma se il Cremlino vuole essere influente nella regione, la lotta all’Is non basta. Chi vuole contare deve poter parlare con tutti, anche con le potenze sunnite e con Israele, ovvero con i nemici dell’Iran. Da qui la scelta di tenere aperto un canale con Putin, nonostante le divergenze su questo o quel dossier. Inoltre Riad dispone di un altra arma di pressione: non solo l’influenza nell’opposizione islamista sunnita in Siria, terreno su cui si muovono ormai anche le truppe russe, ma anche quella sul wahhabismo, più o meno radicale. E, dunque, anche sulle sue appendici in Caucaso o nei paesi confinanti con la Russia. Un’arma che i sauditi non mancheranno di giocare, quando faranno presenti al Cremlino le loro opinioni sul caso iraniano.
Sul fronte vasto delle potenze non regionali, vi sono poi gli stati europei, condizionati da bisogni energetici, alleanze storiche, avversione per i nemici dichiarati di Israele. Dalla Gran Bretagna alla Francia passando per l’Italia, divisa tra la sua naturale aspirazione a riprendere i rapporti , soprattutto economici, con l’Iran e la necessità di non irritare i già esasperati sauditi. Per Roma a queste ragioni, si sommano ora anche quelle legate alla missione in Libia, paese nel quale Arabia Saudita, Turchia e Egitto, pesi massimi del fronte sunnita antiraniano, più il Qatar, giocano un ruolo rilevante.
Infine, i paesi sunniti. Il Bahrein e il Sudan del militar-fondamentalista Al Bashir hanno seguito i sauditi sulla strada dell’immediata rottura delle relazioni diplomatiche con Teheran. Ma Riad conta anche sull’Egitto di Al Sisi, il cui governo è sostenuto dai petrodollari del Golfo e, paradossalemente ma non troppo, sulla Turchia. Nonostante i rapporti con Erdogan siano stati pessimi, sopratutto dopo il golpe egiziano contro Morsi, i sauditi contano sul timore di Ankara di vedersi precludere le ambizioni neottomane da Teheran. Tanto che i turchi sembrano pronti a far parte di un eterogeneo schieramento che includa anche Israele pur di sbarrare la strada ai “persiani”.