domenica 3 gennaio 2016

il manifesto 3.1.16
Palazzo Chigi
Il plebiscito che stravolge la Costituzione
di Francesco Pallante


L’intenzione di Renzi di chiedere il referendum sulla revisione costituzionale, alloL’scopo dichiarato di trasformarlo in un voto su se stesso e sulla sua azione di governo, disvela il plebiscitarismo insito nella cultura costituzionale del presidente del Consiglio.
Nell’impianto della Costituzione, il referendum regolato dall’articolo 138 è «oppositivo». Era uno strumento nelle mani di chi non voleva la revisione, l’ultima risorsa di chi, sconfitto in parlamento, si rivolgeva direttamente al popolo scommettendo sull’esistenza di uno scollamento tra la maggioranza parlamentare e il sentimento costituzionale diffuso presso gli elettori. Nel momento della scelta parlamentare più grave, quella sulle regole comuni, la Costituzione aveva voluto introdurre la possibilità di sottoporre a verifica l’effettiva rappresentatività del parlamento.
La trasformazione, nel 1993, della legge elettorale da proporzionale a maggioritaria ha creato le condizioni per lo stravolgimento dell’istituto. Il sistema maggioritario, infatti, produce per definizione una maggioranza assoluta in capo a un partito o a una coalizione. Ne consegue che tale maggioranza, indicata sempre dall’articolo 138 come limite minimo per la seconda deliberazione della revisione costituzionale, non è più una quota di garanzia, ma diventa una soglia nella piena disponibilità della parte politica che ha vinto le elezioni. Ciò rende superflua la ricerca di intese con le minoranze parlamentari (ciò a cui, in effetti, stiamo assistendo), in contrasto con quanto era stato invece previsto dai costituenti, che avevano immaginato, per ogni revisione, il prodursi di un compromesso ampio, sul modello di quello con cui si erano conclusi i lavori dell’Assemblea costituente.
Di qui, l’avvio della stagione delle riforme «a colpi di maggioranza». E a seguire come per controbilanciare la forzatura parlamentare compiuta da una maggioranza che in realtà è minoranza nella società l’affermarsi dell’idea che il referendum costituzionale possa essere richiesto, in funzione «confermativa», dagli stessi promotori della revisione, per ottenere a posteriori, dal corpo elettorale, il consenso non conseguito in parlamento. In tal modo, però, il significato dell’istituto referendario si inverte: da strumento di sovrana decisione popolare (sia pure in negativo), a mezzo attraverso cui il popolo è sollecitato, assai più banalmente, a fornire la propria passiva adesione a quanto già deciso da altri.
È ciò che è avvenuto, per la prima volta, nel 2001, quando la maggioranza di centrosinistra approvò, per un pugno di voti, la pasticciata modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione (le disposizioni sulle Regioni), trovando poi nelle urne conferma della forzatura compiuta. Com’era facile aspettarsi, il precedente venne fatto proprio, e in forma potenziata, da Berlusconi, che ne approfittò per ritenere unilateralmente modificabile l’intera Parte II della Costituzione. Quella volta ne seguì un referendum realmente oppositivo, che riuscì a bloccare la trasformazione della forma di governo in un premierato assoluto (secondo la definizione che ne diede Leopoldo Elia).
Oggi Renzi prende il peggio delle due esperienze precedenti la revisione unilaterale e il premierato assoluto e, in più, carica il referendum, evocato in funzione «confermativa», di un ulteriore significato, improntato a un personalismo leaderistico che non ha precedenti nelle democrazie mature. Siamo ormai oltre la stagione del referendum «confermativo». Siamo al plebiscito costituzionale. Siamo al capo che si pone in relazione immediata con il «suo» popolo e, al di là di tutti e tutto, persino al di là del proprio partito, va a costruirsi un’autonoma risorsa di legittimità direttamente alla fonte.

Repubblica 3.1.16
Pd, sinistra in allarme “Dietro al referendum c’è il rischio centrista”
Speranza a Renzi: “Non sia la prova generale del partito della Nazione”. Guerini: “Guai a un tifo contro la Ditta”
Zoggia: “Parte del centrosinistra sarà per il no, Verdini e Ncd per il sì. Ma non si può costruire su questo l’alleanza per le politiche”
di Tommaso Ciriaco


L’assalto della sinistra dem è pronto, l’obiettivo già chiaro: frenare il progetto di un partitone a trazione renziana, contendere al premier la guida del Pd. «Renzi non trasformi il referendum nella prova generale del partito della Nazione - avverte Roberto Speranza - Pensi piuttosto alle amministrative, puntando su un’alleanza di centrosinistra ». Ecco il duplice terreno su cui si giocherà la sfida interna: il voto nei comuni e la consultazione popolare sulle riforme. La prima resa dei conti si consumerà durante la direzione nazionale, che si terrà quasi certamente il prossimo 18 gennaio, e in una successiva riunione dell’assemblea nazionale a febbraio. «Però una cosa va messa in chiaro: scandisce il vicesegretario Lorenzo Guerini - occorre un impegno comune, perché è inimmaginabile che qualcuno faccia il tifo contro la Ditta». Sarà un 2016 lunghissimo al largo del Nazareno.
È un paziente braccio di ferro, quello immaginato dalla minoranza. Un duello con due passaggi cruciali, già cerchiati di rosso: «Consiglio a Renzi di pensare soprattutto alle amministrative mette in chiaro Davide Zoggia - e di non personalizzare il referendum. Anche perché la situazione non è proprio il massimo, visto che una parte della sinistra sarà impegnata per il “no”, mentre Ncd e Verdini saranno schierati con il “sì”». Ecco il nodo: evitare che il fronte referendario a favore del ddl Boschi si trasformi nella coalizione di governo anche nella prossima legislatura: «Se si pensa di costruire così l’alleanza per le Politiche, abbiamo un grosso problema...». Tutto, naturalmente, può essere osservato in controluce. Prova a farlo Guerini, mentre rispedisce al mittente i timori della minoranza: «A chi si preoccupa del Pd rispondo che piuttosto sarà divertente vedere un comitato per il “no” composto da Forza Italia, grillini, Sel, Lega e Fratelli d’Italia....».
La partita interna si giocherà in due tempi, ma è soprattutto dal primo, le amministrative, che dipenderanno i rapporti di forza. Mantenere in vita l’alleanza con la galassia di sinistra, riequilibrando il baricentro della coalizione, è il primo obiettivo dei bersaniani. A questo lavorano da tempo Nicola Zingaretti e altri pezzi da novanta della minoranza, pronti a intervenire in blocco alla prossima direzione nazionale. E su questo puntano gli ambasciatori che hanno riaperto un canale di comunicazione tra Nichi Vendola e il premier, cercando di favorire un patto con Sel. «Da anni governiamo assieme ovunque - ragiona Nico Stumpo - perché non continuare a farlo? Discutiamone assieme. Perché decidere tutto in qualche discussione tra amici in trattoria diventa controproducente, oltre che sgradito ai dirigenti locali... E senza di loro le comunali le perdiamo ».
E Renzi? Il premier conosce i rischi di una sconfitta nella sfida referendaria, per questo ha già puntato tutto sulla consultazione d’autunno. «Ma quale personalizzazione - si inalbera il renziano Ernesto Carbone - la minoranza la smetta di polemizzare. Matteo è andato a Palazzo Chigi per contrastare la crisi economica, ma anche per approvare le riforme costituzionali. Ed è ovvio, oltre che giusto, cercare di portarle a termine».
Per riuscire nell’impresa occorre sfruttare tutte le risorse a disposizione. Non a caso a dicembre il Pd ha organizzato banchetti in tutta Italia. Ufficialmente per il tesseramento, ma in realtà soprattutto per testare la capacità di mobilitazione del partito in vista del referendum.

Corriere 3.1.16
Fratoianni: alleanze? Il Pd è un avversario
intervista di Alessandro Trocino


ROMA A Roma, Matteo Orfini. A Torino, Piero Fassino. Si moltiplicano gli appelli di illustri esponenti del Pd affinché Sel scelga di stare in coalizione alle prossime Amministrative. Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, risponde picche.
Per Fassino il vostro no sarebbe «una scelta divisiva», buona per far vincere destra o 5 Stelle. Non ha ragione?
«Fassino, come altri, riscopre il valore del centrosinistra alla vigilia delle urne. Se ne dimenticano tutto l’anno, quando fanno leggi di destra con la destra. Ma non eravamo un’accolita di gufi conservatori, un rimasuglio nostalgico della stagione delle coalizioni? Sono appelli ipocriti. Forse si rendono conto della vocazione autoreferenziale del partito della nazione».
Fassino, però, spiega che queste sono elezioni amministrative, non politiche.
«Non si può dire che non abbiano anche una valenza politica. Inoltre Fassino è a capo dei sindaci: ha un ruolo politico e da quella postazione ha avallato senza battere ciglio le scelte centralistiche, invece di difendere l’autonomia dei Comuni. Peraltro, l’Italicum è stato presentato dal Pd come la liberazione dalla gabbia delle coalizioni. Un po’ di coerenza ci vorrebbe. Vedremo, per esempio, se il Pd cederà alle destre sulle unioni civili».
Ma quindi dite no in generale all’appello del Pd?
«Noi stiamo nel merito. Torino, per esempio, non è stata la Milano di Pisapia. Molte cose non hanno funzionato, dal rapporto con le periferie al lavoro. Così a Bologna».
A Milano, quindi, un accordo si può trovare?
«A Milano siamo impegnati per dare continuità alla giunta di Pisapia, ma non so se sarà possibile. La candidatura di Sala rischia di disperdere quell’esperienza».
E a Roma?
«Beh, è difficile pensare di allearci con un partito che un autorevole esponente del Pd ha definito “cattivo e pericoloso”. E poi qui siamo stati estromessi per un commissariamento tutto interno al Pd».
Resta il fatto che rischiate di far vincere destra e M5S.
«Ma è un argomento vecchio e sbagliato. Non si può gridare al lupo al lupo il giorno prima delle elezioni. L’allarme contro le destre, poi, è paradossale, mentre ancora si vota con Verdini o Alfano. Ma neanche un po’ di autocritica?».
Per voi i 5 Stelle sono meglio del Pd?
«Sono diversi dalla destra. Ma sono avversari, come il Pd. Noi siamo alternativi».

il manifesto 3.1.16
Dieci mesi in campagna
Riforme. Parte lunedì prossimo la lunga corsa al referendum costituzionale. Il percorso parlamentare si chiuderà ad aprile, dopo due anni. È già in campo il comitato per il No. Dal primo febbraio cominceranno a pronunciarsi oltre dieci tribunali sul ricorso civile contro l’Italicum
di Andrea Fabozzi


ROMA Lunedì 11 gennaio, nella prima vera seduta della camera dei deputati dopo lunghe ferie invernali, la legge di revisione costituzionale sarà approvata in votazione finale e chiuderà un’altra tappa del suo percorso iniziato nell’aprile del 2014. Una prima lettura che è passata per due «navette» tra senato e camera segnate dalle polemiche sulla conduzione dei lavori — «canguri» per saltare la mole degli emendamenti, sedute «fiume» per stroncare l’ostruzionismo — ma da poche modifiche sostanziali. Nell’ultimo passaggio al senato il testo è stato addirittura blindato (facendo prevalere il regolamento parlamentare sull’articolo 138 della Costituzione); in quest’ultimo alla camera non si è toccata una virgola. Il passaggio di lunedì prossimo non prevede sorprese e si esaurirà in un pomeriggio, dichiarazioni di voto comprese. Due giorni dopo scadrà la «pausa di riflessione» di tre mesi prevista dalla procedura di revisione costituzionale, il senato ha infatti detto il suo ultimo sì il 13 ottobre dell’anno scorso. Da allora in teoria ogni momento potrebbe essere quello buono per chiudere anche la seconda lettura a palazzo Madama: un voto secco senza emendamenti. In pratica Renzi cercherà di posizionare quel passaggio nel momento più conveniente per il Pd (al riparo per esempio dalle polemiche sul disegno di legge sulle unioni civili, atteso a palazzo Madama a fine gennaio) visto che la Costituzione impone il raggiungimento della maggioranza assoluta. La soglia è a portata di mano per l’alleanza allargata ai verdiniani, ma non si può dare mai per scontata nell’aula del senato. L’ultimo sì della camera a metà aprile chiuderà — dopo due anni esatti — il percorso parlamentare della riforma costituzionale e aprirà quello referendario.
Il referendum costituzionale — che Renzi ha cominciato a trasformare in un plebiscito sul governo quando non direttamente su se stesso — è regolato da una legge del 1970 che prevede tempi di sei-sette mesi dall’ultima votazione delle camere. Si terrà al più presto nella seconda metà di ottobre. Si terrà sicuramente, perché il governo non ha la maggioranza dei due terzi che potrebbe evitarlo, né alla camera né al senato. L’unica incertezza riguarda chi chiederà il referendum (non è automatico), se lo faranno cioè i senatori e i deputati renziani in omaggio alla strategia di palazzo Chigi che cerca l’imprimatur popolare o i parlamentari di minoranza (non si parla della minoranza interna al Pd che, lo volesse davvero, potrebbe ancora far crollare tutto il castello sfilandosi nell’ultimo voto al senato) magari per conto del Comitato del No che si è già costituito in associazione (presidenti effettivo e onorario i due costituzionalisti Alessandro Pace e Gustavo Zagrebelsky) ma che dovrebbe altrimenti affrontare la fatica della raccolta di 500mila firme. Proprio lunedì 11, nello stesso pomeriggio in cui la camera approverà il disegno di legge Renzi-Boschi, i giuristi del comitato illustreranno a Montecitorio nella sala della Regina «le gravi violazioni apportate dalla riforma ai principi supremi della Costituzione» (prevista la presenza anche di Carlassare, Azzariti, Besostri, Ferrara, Rodotà e Villone).
Ma il 2016 si apre anche all’insegna della battaglia contro l’altra riforma renziana che integra e completa il progetto di revisione costituzionale, la nuova legge elettorale. Dei tre fronti aperti contro l’Italicum — due referendum abrogativi per i quali andranno raccolte le firme, il coinvolgimento della corte Costituzionale da parte di una minoranza parlamentare previsto proprio dalle norme transitorie della riforma e i ricorsi nei tribunali civili sul modello di quanto sperimentato contro il Porcellum — è l’ultimo il più avanzato. Il 21 gennaio ci sarà la prima udienza utile davanti al giudice di Milano in meito a un ricorso presentato dagli avvocati Bozzi e Tani. E se non arriverà allora la decisione di coinvolgere i giudici costituzionali (a causa della particolare procedura proposta) potrebbe arrivare a febbraio, quando sono previste tre udienza del «processo» all’Italicum nei tribunali di Genova, Potenza e Trieste, o a marzo (Bari e Torino) o ad aprile (L’Aquila e Catanzaro).

Repubblica 3.1.15
Marchini cita Gramsci, rabbia e ironia sui social
La frase contro gli indifferenti sugli autobus di Roma. il candidato sindaco: “non lo lascio alla Le Pen”. Scontro tra studiosi
di Giovanna Vitale


ROMA. C’è maretta tra gli studiosi gramsciani. Pietra dello scandalo: lo slogan della campagna che da un paio di settimane campeggia su tutti gli autobus e le pensiline di Roma. “Odio chi non parteggia. Odio gli indifferenti”. Solo che, al posto della firma del filosofo sardo fondatore del Pci, compare il ben più prosaico motto: «Io amo Roma. E tu?».
Ovvero il claim con cui Alfio Marchini, imprenditore a capo di un movimento civico, per la seconda volta in tre anni proverà a scalare il colle capitolino. Orgoglioso della scelta, che rivendica: «È una mia idea, non vedo proprio perché dobbiamo lasciare Gramsci ostaggio della Le Pen, che dice di avere i suoi libri sul comodino ». E per nulla imbarazzato dall’evidente contraddizione, visto che la sua corsa potrebbe essere sostenuta — ma ancora non è certo — da alcuni pezzi del centrodestra: «È giunto il tempo di raccontarci senza finzioni che la capitale d’Italia è stata uccisa dall’indifferenza, che ha lasciato campo libero a tutti i poteri marci che l’hanno depredata», taglia corto Marchini. «Roma non ne può più! Anche di chi, da sinistra, ha chiuso gli occhi davanti al saccheggio morale, culturale e civile della città. O vogliamo prenderci in giro e sostenere che sia tutta colpa della destra? Basta con ipocrisie e stucchevoli buonismi».
Sia come sia, l’utilizzo del brano tratto da La città futura, il numero unico del giornale pubblicato nel febbraio 1917 con lo scopo di ”educare e formare” i giovani socialisti alla “disciplina politica”, non è piaciuto affatto a Guido Liguori, docente di Storia all’università della Calabria e presidente della International Gramsci Society Italia. «Marchini nella sua campagna per le comunali cita pure Gramsci (senza nominarlo). Il comunista sardo ridotto a pubblicità subliminale. Schifo profondo», ha tuonato il professore su Facebook.
Una condanna senza appello, per il candidato sindaco. Accusato di sfruttare per bieche ragioni elettorali il padre della sinistra italiana. «Che però è citato, piccolo, in basso a destra, come prevede la legge», precisa Marchini. In soccorso del quale arriva Beppe Vacca, uno dei maggiori studiosi del marxismo contemporaneo nonché presidente della Fondazione Gramsci: «Non vedo cosa ci sia di male», dice. «È un grande slogan, chiunque lo usi, che citi o no l’autore, è legittimo che lo faccia ed è auspicabile che ne tragga vantaggio. A parte il fatto che è lo stesso concetto utilizzato pure da Papa Francesco». Il dibattito è aperto.

Il Sole 3.1.16
Quattro test per l’anno nuovo
di Luca Ricolfi

C’è chi dice che la svolta non c’è ancora stata, c’è chi dice che invece sì, l’Italia con il 2015 ha voltato pagina. Naturalmente la risposta alla domanda sulla svolta dipende da quel che si intende per svolta o, se vogliamo essere cattivelli, dal modo in cui si manipolano i dati per ottenere la risposta che si desidera.
E allora vorrei fare una proposta in vista del Natale 2016, quando ci ritoccherà sentire amici e nemici del governo appassionarsi sulla “svolta”: mettiamoci d’accordo sin d'ora, a carte coperte, su che cosa possa ragionevolmente essere considerato una svolta per l’economia italiana. E poi aspettiamo, tranquilli, senza pregiudizi positivi o negativi, di vedere come saranno andate le cose alla fine dell’anno che ora inizia. Così eviteremo lo stucchevole spettacolo messo in scena in questi giorni, con (presunti) gufi e instancabili laudatori del governo inchiodati alle rispettive parti in commedia.
Stabilire che cosa possa essere considerato segnale non equivoco di una svolta non è facile per due ragioni distinte. La prima è che alcuni cambiamenti, ad esempio una drastica riduzione della spesa pubblica, possono essere giudicati positivamente da alcuni, negativamente da altri. La seconda è che altri cambiamenti, pur essendo auspicati da tutti, sono difficili da valutare in modo accurato ed obiettivo (è il caso dell’efficientamento della Pubblica Amministrazione). Quello di cui avremmo bisogno è un piccolo numero di test che vertano su questioni importanti, e al tempo stesso non abbiano né il difetto di essere ambivalenti (come la riduzione della spesa pubblica) né il difetto di essere poco obiettivi.
Ed ecco una modesta proposta.
Per me, alla fine del 2016, di svolta potremo legittimamente parlare se e solo se l’economia italiana avrà superato i quattro test seguenti.
Test numero 1. Un ritmo di aumento dell’occupazione superiore a quello, decisamente modesto, fatto registrare nel 2015.
Test numero 2. Una diminuzione del tasso di occupazione precaria, ossia della percentuale di lavoratori a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti (uno degli obiettivi perseguiti con il Jobs Act).
Test numero 3. Un aumento del Pil non inferiore a quello medio dell’Eurozona.
Test numero 4. Una diminuzione del rapporto debito/Pil che, lo ricordiamo, è il grande tallone d’Achille dell’Italia sui mercati finanziari, ovvero ciò che rende il nostro Paese vulnerabile agli attacchi della speculazione.
Credo che, pur non essendo gli unici test concepibili, sia difficile negare la ragionevolezza di questi quattro obiettivi. Se venissero tutti o quasi tutti raggiunti, sarebbe difficile negare la svolta. E se venissero tutti o quasi tutti mancati, sarebbe difficile negare il sostanziale fallimento della politica economica messa in atto.
Ma si tratta di obiettivi facili o difficili?
A mio parere si tratta di obiettivi tanto ovvi quanto di non facile conseguimento, e provo a spiegare perché. Tanto per cominciare, val forse la pena notare che, nel corso dell’anno appena concluso, nessuno di essi è stato raggiunto. Se, in altre parole, proviamo ad applicarli al 2015 in rapporto al 2014 otteniamo i seguenti risultati.
Test 1. Secondo i dati ufficiali Istat a oggi disponibili (gennaio-ottobre 2015) il ritmo medio di incremento dell’occupazione nel 2015 è stato di appena 8.300 unità al mese, contro le 13.800 del 2014, e questo nonostante la spinta della decontribuzione e del Jobs Act; c’è da chiedersi che cosa possa accadere nel nuovo anno, con la drastica riduzione della decontribuzione prevista dalla Legge di stabilità.
Test 2. Secondo l’ultima indagine trimestrale dell’Istat (3° trimestre 2015) nel corso del 2015 il tasso di occupazione precaria non è affatto diminuito, ma è anzi un po’ aumentato (dal 13,4% al 14,0% su base annua), e nell’ultima rilevazione trimestrale ha toccato il massimo storico (14,9%) da quando il dato viene rilevato, ossia dal 1992.
Test 3. Da oltre vent’anni, il tasso di crescita dell’Italia è di circa 0,7-0,8 punti percentuali più basso di quello dei Paesi dell’Eurozona, e l’anno appena trascorso non ha fatto eccezione: nel 2015 noi siamo cresciuti dello 0,8%, l’Eurozona dell’1,6%, ossia dei soliti 0,7 o 0,8 punti percentuali più di noi.
Test 4. Nel 2015 il rapporto debito/Pil dell’Italia è aumentato rispetto al livello dell’anno precedente, passando dal 132,1 al 132,8%. Anche qui siamo a un massimo storico, questa volta dal 1925, visto che è disponibile la serie dall’Unità d’Italia a oggi.
Fra tutti e quattro i test, quest’ultimo a me pare il più difficile da superare. Il governo ha annunciato, e più volte ripetuto, che nel 2016 il rapporto debito/Pil dell’Italia “finalmente” comincerà a scendere. Non occorre essere particolarmente scettici (qual io sono per natura) per rendersi conto che non sarà facile. Per capire come mai, basta ricordare che la condizione contabile perché il rapporto debito/Pil si abbassi è che il tasso di crescita del Pil nominale sia maggiore del tasso di crescita dello stock del debito pubblico. Nulla, al momento, suggerisce che tale condizione sia in procinto di realizzarsi. Il tasso di crescita del Pil nominale è minacciato dall’indebolimento della ripresa mondiale e dal livello ancora bassissimo dell’inflazione attesa nel 2016. Il contenimento del tasso di crescita del debito pubblico (che in questo momento sta ancora viaggiando più in fretta del Pil nominale) è minacciato dalla scelta del governo di coprire in deficit le nuove spese e il mancato aumento dell’Iva, un azzardo che ci potrebbe costare caro ove una nuova tempesta finanziaria dovesse abbattersi sull’Eurozona.
Ma possiamo forse escludere che le imprese più ardite possano avere successo?
Certo che no, quindi felice 2016 a tutti!

Il Fatto 3.1.16
L’associazione sindacale
Anief, scuola ancora nel caos: “Troppe questioni irrisolte”


IL 2016 inizia nella confusione totale: la ‘Buona scuola’ rimane un’opera incompiuta, il concorso a cattedra è stato organizzato senza riserve per i precari e chiuso ai giovani laureati, la selezione per nuovi presidi rimane in alto mare, il concorso per direttori dei servizi generali e amministrativi che gestiscono il personale Ata, è caduto nel dimenticatoio, mobilità e alternanza scuola-lavoro rimangono provvedimenti sulla carta, con i decreti attuativi di cui non c'è traccia, anche l’organico potenziato rimane parcheggiato in attesa del nuovo Piano triennale dell’offerta formativa, con i neo immessi in ruolo utilizzati su progetti improvvisati. E le assunzioni, che dovevano abolire la ‘supplentite’, alla fine sono state poco più di quelle dell’ultimo Governo Berlusconi”: è un lunghissimo elenco quello lanciato ieri dall’Anief, l’associazione professionale sindacale. Per il presidente Marcello Pacifico, i nuovi provvedimenti su assunzioni, ricostruzione di carriera e precariato presto finiranno sotto la lente dei tribunali. “Secondo noi, sono illegittimi – dice –. Il Miur costringe lo Stato a pagare risarcimenti milionari al personale di ruolo, a seguito degli errori continui dovuti alle distrazioni del legislatore”.

Repubblica 3.1.16
Rincari da 104 euro per autovie e treni Il caso Lombardia
di Barbara Ardù


ROMA Centoquattro euro. E’ quanto spenderà in più ogni famiglia italiana per spostarsi in Italia e nel mondo. Una cifra superiore a quanto già previsto, dicono Federconsumari e Adusbef. Con il nuovo anno aumentano infatti i pedaggi autostradali, i biglietti dei treni Frecciarossa e l’imposta d’imbarco per chi vola, 2,5 euro in più.
Una media, quei 104 euro, perché al Nord gli aumenti saranno maggiori. C’è un caso “Lombardia”. Sei tratte autostradali, per la maggior parte al Nord, hanno aumentato i pedaggi in media dello 0,9 per cento, ma nella tratta Torino-Milano il rincaro vola al 6,5 per cento. E non va meglio a chi viaggia in treno: se l’aumento dei Frecciarossa sarà in media del 2,7 per cento, la “Freccia” Roma-Milano subirà un rincaro del 3,5 per cento, escluse però le offerte e gli abbonamenti, precisa Trenitalia. Una stangatina per i pendolari del Nord, sia che viaggino in auto che in treno, è comunque assicurata. Così il governo tenta di arginare i danni. Il ministero dei Trasporti ha chiesto alle concessionare autostradali di prorogare fino al 2016 gli sconti per i pendolari, precisa il dicastero di Del Rio. Che sull’aumento del 6,5 per cento della tratta Torino- Milano, alza le mani. L’aumento «è dovuto agli investimenti sulla terza e quarta corsia ». Unprincipio che vale anche per le altre società. Ognuna ha il suo “contratto” con lo Stato e dunque «le variazioni dipendono dalla specifica convenzione di ciascuna impresa ». E i contratti prevedono una sorta di “diritto” a incrementare le tariffe per quelle società che investono, rendendo sicuro e agevole il percorso.
Sarà, ma per Rosario Trefiletti di Federeconsumatori, l’aumento è «scandaloso» e «non giustificato», e non solo per la Torino- Milano, ma anche per altre tratte. «Le concessionarie hanno guadagnato bene. Di questo siamo sicuri. Hanno investito? Non tanto, credo, da giustificare aumenti simili». E poi chi controlla? «Dovrebbe farlo l’Anas - spiega Carlo Rienzi, presidente del Codacons - che però mi sembra non sia in grado di controllare».
A pagare di più, nel 2016, saranno poi tutti i passeggeri dei voli aerei, visto l’aumento di due euro e mezzo dell’addizionale comunale sui diritti d’imbarco, che dal 2007 alimenta il fondo speciale dei lavoratori aeroportuali. Un balzello che sale così a 9 euro a passeggero, 10 se si parte da Ciampino o Fiumicino.
«Una imposta che andava cancellata, non incrementata. E’ una follia», commenta Rosario Trefiletti, «che costa a italiani e turisti ben 380 milioni di euro e che certo non dà nessuna mano al turismo».
Stangata di fine anno sui trasporti che, a bocce ferme, costerà 1,4 miliardi agli italiani, destinati a lievitare a 2,4, considerando anche le ricadute indirette. E’ il calcolo di Adusbef e Federconsumatori, preoccupati degli aumenti che, a cascata, saranno inevitabili su tutti i settori. Un artigiano che produce a Torino e vende a Milano avrà costi di trasporto aumentati. Ma vale per tutti, a cominciare dai pendolari.
Scattano i nuovi pedaggi che colpiscono soprattutto le autostrade del Nord-Ovest. Da ieri più costoso anche viaggiare sull’alta velocità

La Stampa 3.1.16
Ius soli, sarà battaglia al Senato
C’è un nuovo fronte del no
Anche Forza Italia si radicalizza. E i Cinque stelle non sanno cosa fare
di Amedeo La Mattina


Il fronte del No alla legge sullo ius soli è convinto di avere molte frecce da scagliare. «I nuovi boia sono anche figli della Francia», ricordano quelli della Lega. Terroristi con passaporto francese o belga, comunque figli di immigrati musulmani di seconda generazione che hanno ottenuto la cittadinanza del Paese dove sono nati o sono andati a vivere con le loro famiglie. Giovani cresciuti nelle nostre città e scuole che partono per arruolarsi nell’esercito del Califfato nero. Tutti potenziali kamikaze? Nessuno del fronte del No arriva a sostenere una tesi tanto banale, ma la tentazione di confondere i due piani è forte anche dentro Fi, un partito che ha al suo interno molte singole posizioni a favore del riconoscimento del diritto di cittadinanza. Tuttavia in questa fase prevale nelle urne e nei partiti d’opposizione (non solo italiani) il vento freddo della caccia al musulmano che vuole rimandare indietro i banconi dei disperati. Allora anche il centrodestra affila le armi per bloccare al Senato la legge approvata alla Camera a ottobre.
Dentro la maggioranza (dove Ncd comincia a fare dei distinguo) l’accordo a Montecitorio ha prodotto il cosiddetto ius soli «temperato» che permetterà ai bambini nati in Italia da genitori immigrati di acquisire la cittadinanza se almeno uno dei due genitori è in possesso di un permesso di soggiorno Ue di lungo periodo (residenza legale da cinque anni). L’altra possibilità è quella per i ragazzi che arrivano in Italia entro i 12 anni e risultino residenti al compimento dei 18: in questo caso bisognerà aver frequentato per almeno cinque anni un ciclo di istruzione. Per chi ha più di 12 anni nel momento in cui i genitori richiedono la cittadinanza, serviranno sei anni di residenza e un ciclo scolastico. La presidente della Camera Laura Boldrini aveva salutato la nuova legge come «una conquista di civiltà»; Matteo Salvini come «una schifezza». I 5 Stelle si sono astenuti non sapendo che pesci prendere e ancora oggi non lo sanno. A metà gennaio in commissione Affari costituzionali del Senato riprenderà la discussione del provvedimento e ancora i grillini non hanno una posizione univoca. Alla Camera avevano spiegato che si astenevano perché si tratta di una legge «aggrovigliata», «una scatola vuota». La verità è che tra i 5S non c’è una condivisione di idee. Alla domanda - siete favorevoli o contrari al principio dello ius soli? - Nicola Morra, vicepresidente 5S in questa commissione risponde che deve sentire l’ufficio di comunicazione del movimento. Ma una risposta non arriva neanche a Morra: «Questo tema, come i temi etici, è divisivo». Ma se quella domanda la fate a Grillo e Casaleggio la risposta è secca: No. Non vogliono lasciare campo libero a Salvini. Il quale cavalca alla grande il tema: «Con tutti i problemi che abbiamo, l’incapace Renzi ha deciso che dare la priorità alle adozioni gay e lo ius soli». Spiega Gian Marco Centinaio, capogruppo del Carroccio al Senato: «Hollande sta ripensando al diritto di cittadinanza e che facciamo noi andiamo in direzione opposta? Daremo battaglia e gli italiani potranno giudicare».
Nel fronte del No ci sono anche i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e per certi versi anche Fi. Parola a Maurizio Gasparri. «Presenteremo molti emendamenti, ma non milioni. Non vogliano dare alla maggioranza il pretesto di andare direttamente in aula. Anche il presidente Mattarella ha detto che gli immigrati devono rispettare i nostri principi e allora dovranno comunque essere sottoposti ad esami sulla cultura, la lingua e i principi italiani».

La Stampa 3.1.16
Tra i primi nuovi italiani del 2016 un picco di figli di immigrati
Nati da coppie marocchine, peruviane, keniote: se la legge fosse realtà, avrebbero già la cittadinanza
di Flavia Amabile


Isis o non Isis, il primo bambino nato in Liguria nel 2016 si chiama Amir Salih, figlio di una coppia di marocchini da tempo residente a La Spezia. Salvini o non Salvini, il primo bambino nato a Roma si chiama Marco Filippo ed è figlio di una coppia di origine peruviana che da tempo vive in Italia. Paure o no, la prima nata in Calabria si chiama Gemma ed è figlia di una coppia formata da un padre kenyota e una madre italiana
Se la legge sullo ius soli fosse stata approvata in via definitiva sarebbero questi tre neonati i primi nuovi cittadini italiani del 2016 di Roma, della Liguria e della Calabria. La legge però si è fermata in Senato dopo il via libera della Camera, la discussione riprenderà in commissione Affari Costituzionali in una data ancora da precisare a gennaio tra l’opposizione di Lega Nord e Forza Italia che hanno provato a fermarla con due questioni pregiudiziali sull’allarme terrorismo e la pressione migratoria. E quindi Amir Salih, Marco Filippo e Gemma dovranno aspettare per ottenere la cittadinanza, come hanno atteso in tanti prima di loro in questi anni.
È vero che in altre città il record del primo nato è andato a bambini di famiglie italiane ma è anche vero che, dove gli stranieri sono in maggior numero e integrati, è senza dubbio più probabile che riescano a strappare il primato. Secondo le ultime cifre pubblicate nei giorni scorsi dall’Istat all’1 gennaio del 2015 gli stranieri rappresentano l’8,2% dei residenti in Italia, numero in aumento dell’1,9%. Vuol dire che rispetto all’inizio del 2014 nei mesi seguenti in Italia sono stati registrati quasi 100 mila residenti in più di origine straniera. Ma, soprattutto, mentre le madri italiane in media hanno 1,29 figli, le straniere ne hanno 2,1, quasi il doppio. Sempre nel 2014 all’anagrafe sono stati iscritti 502.596 bambini, quasi 12 mila in meno rispetto al 2013 e 74 mila in meno rispetto al 2008. È la cifra più bassa degli ultimi 155 anni, dall’Unità d’Italia.
Questo calo che in futuro porrà forti condizionamenti al mercato del lavoro e e al sistema previdenziale, è dovuto alle coppie formate da genitori italiani che negli ultimi sei anni hanno fatto nascere 82 mila bambini in meno portando per la prima volta i nati da coppie italiane sotto quota 400 mila.
Si mantiene stabile, invece, il numero dei nati con almeno un genitore straniero: rappresentano quasi un neonato su 3 al nord e meno di uno su 10 nel Mezzogiorno. Ormai le famiglie con almeno uno straniero rappresentano il 7,4% del totale e gli studenti sono il 9% degli iscritti.
Ma dietro questa stabilità si nascondono le prime avvisaglie di un calo delle nascita anche dei bambini nati da genitori stranieri: sono scesi a 75.067, quasi 5m ila in meno in due anni. Secondo gli esperti i motivi vanno ricercati nel fatto che anche le straniere residenti, che finora sono state le uniche a compensare l’allontanamento sempre più evidente delle donne italiane dalla maternità, stanno a loro volta invecchiando: la quota di straniere 35-49enni sul totale delle cittadine straniere in età feconda è aumentata di 9 punti percentuali dal 2005 al 2013, passando dal 41% al 49,6%.
A scommettere ancora sul futuro in Italia sono innanzitutto le donne romene (19.730 nati nel 2014), seguite da marocchine (12.217), albanesi (9.606) e cinesi (5.039). I loro figli rappresentano quasi la metà dei bambini nati da madri straniere (il 47,2%). Paure o no, il futuro dell’Italia non può non tenerne conto.

La Stampa 3.1.16
I figli degli immigrati italiani per nascita stranieri per la legge
di Gianni Riotta


I cronisti raccontano ora se il primo bebè, o la prima bebè, siano nati o no da genitori italiani, ma, nel mondo globale queste distinzioni hanno poco senso. I dati della natalità nel nostro Paese sono sconfortanti, e la crisi economica che ci affligge da una generazione mette in fuga le cicogne tricolori. Il Sud ha solo 1,32 nascite per donna, peggio di Centro 1,36 e Nord 1,46 (la popolazione non cresce se la natalità per donna non è almeno di 2,1). La regione più prolifica è il Trentino-Alto Adige, 1,65 figli per donna, davanti la Valle d’Aosta 1,55, e con l’eccezione della Liguria, il Nord affluente fa più bimbi del Mezzogiorno impoverito.
I bambini nati da genitori arrivati in Italia alleviano il nostro deficit di natalità che, assicura l’Istat, tocca nel 2014 solo 509 mila nastri rosa o azzurri, 5.000 in meno del 2013, record negativo dall’Unità d’Italia. I nostri antenati, malgrado fame, emigrazione, guerre ed epidemie facevano bambini con coraggio e fede. Noi li consideriamo antiquati, o legati all’economia agricola, ma siamo qui grazie alla loro forza.
Sarebbe dunque un bene che anche in Italia, azzittite le petulanti polemiche di una politica dimentica di valori e numeri, si ragionasse di ius soli, la concessione della cittadinanza ai nati nel Paese, senza penose lungaggini che aumentano il risentimento tra gli immigrati.
Negli Stati Uniti, secondo il Census Bureau, sotto i 18 anni un cittadino su 4 ha almeno un genitore nato all’estero. Anche gli Usa hanno un saldo di natalità negativo, 1,86 per donna per un totale di 4 milioni di nascite nel 2013, ma le autorità non se ne preoccupano «le emigrazioni legali possono pareggiare i conti». L’obiezione centrale allo ius soli cita la necessità di non diluire il nostro patrimonio culturale, antropologico, religioso davanti a troppe identità straniere. Con grande acume politico la leader del Fronte Nazionale francese, Marine Le Pen, ricorda che «Destra e sinistra non esistono più e la frontiera della politica del XXI secolo è globalizzatori contro patrioti». Le Pen ha ragione su destra-sinistra, ma la vera, radicale, divisione è tra chi accetta di vivere nel mondo globale – «Global» si chiamava un fortunato supplemento di questo giornale, fondato in collaborazione con la rivista americana Foreign-Policy – e chi invece vuol rinchiudersi nel protezionismo economico, nell’intolleranza razziale e religiosa, uno strapaese bigotto che il mercato mondiale presto costringerebbe all’isolamento e all’irrilevanza.
Tocca quindi a chi ha davvero a cuore il futuro dell’Italia e dell’Europa, impossessarsi dell’analisi di Le Pen, rovesciandola. Morta la dialettica destra-sinistra, il duello è tra nazionalisti e internazionalisti, e tocca a questi ultimi spiegare all’opinione pubblica, senza snobismi saccenti, che il vero patriota, italiano, europeo, americano del presente, sa guardare al mondo senza paura. Il nostro inno nazionale ricorda nei suoi versi popoli lontani che ci furono fratelli nel Risorgimento, quando Garibaldi combatteva in Sicilia con gli ungheresi Tukory e Turr.
Festeggiamo serenamente i bimbi nati a Capodanno in Italia da genitori stranieri. Averli tra di noi, ragionare di come renderli cittadini non significa perdere la nostra identità nazionale. Al contrario, tutto ciò che di prezioso ha l’essere «italiani», lingua, tradizioni religiose cattolica, protestante, ebraica, la cultura, lo sport, la cucina, la famiglia, il saper essere eleganti con poco, l’adattarsi alle difficoltà, l’allegria spavalda, tutto può essere, e deve essere, insegnato, preservato e tramandato a nuovi cittadini. Si ha invece l’impressione che proprio i più stentorei nemici dell’accoglienza siano in verità pessimisti sui nostri profondi valori. Vogliono chiuderli nei confini angusti dell’intolleranza perché non credono più, spaventati, che libertà, democrazia, uguaglianza, fratellanza, cultura occidentale siano in grado di farsi amare nel mondo e conquistare, alla fine, anche i nostri nemici, sconfiggendone l’avanguardia fondamentalista armata. Sbagliano e i bambini nati in libertà a Capodanno ne sono la prova. Auguri. «italiani», lingua, tradizioni religiose cattolica,

La Stampa 3.1.16
Unioni civili, il piano di Renzi: portare a casa la legge e non scontentare nessuno
Vuole votarle col M5S, ma senza provocare le ire della Curia o del Ncd
di Fabio Martini


Matteo Renzi fa capire che sulle unioni civili si sta preparando qualcosa di diverso dal solito: «La questione va depurata dalle tensioni di politica stretta...». Parole sfumate, “naturali” in un Paese come l’Italia, che ospita il Papa e dove esiste ancora un significativo retroterra cattolico. Non a caso governi e Parlamenti discutono di unioni civili oramai da anni e senza sbocco. Ma oramai ci siamo e in vista dell’approdo in Parlamento dell’apposito ddl, previsto per il 26 gennaio al Senato, dietro le quinte sta maturando un punto di caduta che potrebbe garantire una via d’uscita per tutti i contendenti. Una “quadratura del cerchio” di cui tutti parlano, per ora sottovoce. Il Pd di Renzi e il Cinque Stelle sono oramai d’accordo - alla luce del sole e non è poco - su un testo che preveda riconoscimento dei diritti individuali e personali alle coppie omosessuali e anche il diritto all’adozione, limitandolo al figlio di uno dei due partner. Se il Pd deciderà effettivamente di andare avanti fino in fondo assieme ai Cinque Stelle, by-passando il Nuovo Centro destra (contrarissimo alle adozioni), a quel punto l’Ncd sarebbe pronto a votare no alla nuova legge, ma senza trarne conseguenze traumatiche. E infatti il leader dell’Ncd Angelino Alfano esclude «crisi di governo» su questo tema. Dunque, una breve separazione consensuale che consentirebbe all’Ncd di farsi portavoce dell’Italia cattolica e tradizionalista.
E la Chiesa italiana? Sinora i segnali lanciati da monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, vicino a papa Francesco, non sono molto diversi da quelli pubblici: la Conferenza episcopale è decisamente contraria alla norma sulle adozioni, ma senza battaglie campali. Come dimostrano gli editoriali di “Avvenire” e anche il titolo, di una risposta del direttore Marco Tarquinio ad una lettera: «Sì alle unioni, no ai matrimoni gay». Dunque, anche la Cei si prepara ad un pubblico no, ma senza “crociate”. In questo modo sposando quella che riservatamente viene definita la “dottrina del male minore”: una legge sulle unioni civili, per quanto sgradita, è comunque un argine rispetto alla deriva di matrimoni gay e adozioni fuori della coppia, realtà oramai nella cattolicissima Irlanda, per non parlare degli Stati Uniti o della Francia. Certo, una “quadratura del cerchio” ancora da consolidare, perché «questioni delicate come questa, un conto è immaginarle a “riposo”, un conto è sperimentarle sotto sforzo», come osserva Giorgio Tonini, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, già presidente della Fuci. Anche perché Renzi è sempre prudente quando si tratta di mettere a rischio la propria maggioranza, tanto più nell’imminenza di un voto decisivo: quello finale dei senatori alla riforma costituzionale.
Proprio per evitare una prova di forza con l’Ndc nei mesi scorsi il presidente del Consiglio aveva fatto sapere di essere favorevole a stralciare la questione delle adozioni, rimettendole al giudizio dei tribunali europei e nazionali. Osserva il senatore, già Ncd, Gaetano Quaglieriello, che da anni segue queste questioni: «Renzi proverà fino all’ultimo di cercare una soluzione di compromesso, ma oramai nel Pd c’è una fortissima spinta favorevole alle adozioni». Il presidente del Consiglio dunque potrà giostrarsi tra due forni, quello di Grillo e quello di Alfano, ma con un obiettivo non negoziabile: ottenere dal Parlamento il via libera alle unioni civili (capaci di garantirgli una certa “patina” di sinistra) prima di un appuntamento decisivo: le elezioni amministrative di giugno.

Il Sole 3.1.16
La ripresa. Il premier tra ddl Cirinnà e comunali
Unioni civili, cresce la tensione: il 18 gennaio «conta» Pd in direzione
di Emilia Patta


Roma Le unioni civili assomigliano sempre più a una coperta troppo corta, che se si tira per coprire una parte scopre l’altra. Al centro del contendere è la cosiddetta stepchild adoption, ossia la possibilità di adozione del figlio naturale di un partner da parte dell’altro partner all’interno della coppia gay. Possibilità prevista dal Ddl Cirinnà che andrà in Aula a Palazzo Madama il 26, appoggiato dalla maggior parte del Pd compreso lo stesso premier Matteo Renzi oltre che da Sel e dal M5S. Contro la stepchild adoption si sono invece schierati i senatori alfaniani, che ne chiedono lo stralcio, mentre una ventina di senatori cattolici del Pd esprimono a riguardo più di una perplessità. Ed è così che l’ipotesi di mediazione nata proprio da alcuni cattolici del Pd, tra cui la renziana Rosa Maria Di Giorgi, muore prima ancora di nascere sotto i colpi del fuoco incrociato: l’affido rafforzato (un affido che può trasformarsi in adozione al compimento del 18esimo anno d’età) è infatti bocciato dalla sinistra del Pd, da Sel e dai grillini senza conseguire l’effetto di convincere gli alfaniani più critici. Come Maurizio Sacconi, che tuona: «Né simil-matrimoni, né simil-adozioni».
Il nodo stepchild adoption
Piuttosto il gruppo Pd del Senato sta lavorando alla possibilità di intervenire con più chiarezza sul divieto dell’utero in affitto, dal momento che la preoccupazione principale dei critici del Ddl Cirinnà è proprio il rischio che la stepchild adoption incentivi la pratica dell’utero in affitto anche se vietata in Italia. Ma si tratta di un tema delicatissimo, difficile da normare. Al momento la posizione del Pd resta quella del sostegno al Ddl Cirinnà, fatti salvi i casi di coscienza previsti per i temi etici, come ricorda il sottosegretario alle Riforme Ivan Scalfarotto: «Non fa scandalo che in un grande partito possano esserci, su questa come su altre materie, posizioni articolate e opinioni difformi, ma resta il fatto che la linea del Pd su unioni civili e stepchild adoption è e resta chiarissima». Anche perché il Ddl Cirinnà trova l’appoggio di Sel, che non lo voterebbe in caso di stralcio della stepchild adoption, e soprattutto del M5S. «Se togliete diritti a questa legge noi non la votiamo», ripete Alberto Airola, il senatore che sta giocando per i grillini la partita sulle unioni civili. Il Ddl Cirinnà, insomma, va approvato così com’è.
L’intesa Pd-M5S, Grillo attacca
Sull’opportunità di affidarsi al M5S per avere la certezza dei numeri in Senato, tuttavia, ci sono da parte del Pd molte e comprensibili resistenze. Non è detto insomma che la convergenza trovata inaspettatamente sull’elezione dei tre giudici della Consulta prima della pausa natalizia possa ripetersi. Preoccupano a questo riguardo le invettive di Beppe Grillo, che dopo aver definito il Capo dello Stato Sergio Mattarella «un ologramma di un ologramma» è tornato ieri all’attacco del governo e di Renzi sul suo blog, questa volta prendendo di mira le promesse a suo avviso eluse sull’edilizia scolastica («nelle scuole si rischia la pelle, Renzi ormai evita di andarci per evitare che una scuola gli crolli in testa... quest’anno oltre alla carta igienica date ai vostri figli un estintore»).
Verso la direzione Pd
Unioni civili, ma non solo. Per Matteo Renzi, che ieri è tornato a Firenze mettendo fine alla breve vacanza a Courmayeur con la famiglia, è ora di aprire anche il capitolo non facile delle elezioni amministrative. La tregua delle polemiche chiesta dal premier ai dirigenti del suo Pd sta per finire, e probabilmente il 18 (ma la convocazione non è ancora ufficiale) si riunirà a Largo del Nazareno l’attesa direzione del partito per fare il punto sulle candidature e sulle alleanze. A Milano, come è noto, le primarie si faranno in anticipo il 7 febbraio e il candidato sponsorizzato da Renzi, ossia il commissario Expo Giuseppe Sala, competerà con la vice di Pisapia Francesca Balzani e con l’assessore della sinistra dem Pierfrancesco Majorino. Nelle altre città le primarie si faranno il 6 marzo, ma restano i grandi nodi di Napoli e Roma dove non ci sono ancora candidature ufficiali gradite al Nazareno.
Le regole per le primarie
In ogni caso quest’anno non dovremmo più assistere alle polemiche sulle file di cinesi ai gazebo. Le regole delle primarie di coalizione naturalmente le decide la coalizione, e non il Pd, ma in una riunione con i responsabili locali del partito fatta a novembre dal vicesegretario Lorenzo Guerini e dalla responsabile Enti locali Valentina Paris sono stati individuati dei criteri generali poi accolti dalle coalizioni a livello locale: i minorenni e gli stranieri in alcuni casi non voteranno, come avviene alle elezioni vere, in altri casi, come a Napoli, dovranno pre-registrarsi. Quanto al caso Antonio Bassolino, autocandidatosi nella città partenopea, a Largo del Nazareno escludono per ora una norma che possa tagliarlo dalla corsa (ad esempio vietare la partecipazione alle primarie cittadine a chi è stato già sindaco). Ma nella direzione del 18 si darà l’indicazione politica di lavorare al rinnovamento. Anche perché i sondaggi in mano al Nazareno dicono che Bassolino ha meno gradimenti del Pd. Non ci sarebbe insomma un effetto De Luca.

Corriere 3.1.16
Attenzione a parlare in nome della natura
Ancora oggi si contrabbandano come «naturali» posizioni del tutto soggettive
di Nuccio Ordine


Tra gli slogan che caratterizzano i vari «Family day» e il dibattito di questi giorni sulle unioni civili e le adozioni, campeggia anche quello a difesa della cosiddetta «famiglia naturale»: è «naturale» solo la famiglia al servizio della riproduzione, mentre qualsiasi coppia (legata da unioni «sterili») non deve essere considerata socialmente e giuridicamente una famiglia. Anche sul piano delle relazioni, c’è chi ha stabilito che è «naturale» solo l’amore eterosessuale e che, invece, debba essere considerato «contronatura» qualsiasi forma di amore tra esseri dello stesso sesso.
Bisogna leggere il prezioso volume intitolato Natura , pubblicato da il Mulino (pp. 244, e 18), per capire quanto sia pericoloso arrogarsi il diritto di parlare in nome della «Natura». Roberto Bondì e Antonello La Vergata — allievi di Paolo Rossi (1923-2012), grande storico della scienza e delle idee, a cui è dedicato il lavoro — hanno avuto il merito di mostrare come i termini «natura» e «naturale», ambigui e sfuggenti, siano stati utilizzati, nel corso dei secoli, nelle accezioni più diverse.
Dagli esordi della filosofia (i pensatori «presocratici») fino alle più recenti riflessioni sulle questioni ambientali (Vandana Shiva), il dibattito sulla natura non ha mai conosciuto pause: non sarebbe stato possibile discutere sui principi e sulle finalità, sulla creazione e sul panteismo, sulla matematizzazione e sul meccanicismo, sul vitalismo e sull’organicismo, sulla morale e sulla bellezza, sull’evoluzionismo e sull’ecologia senza ricorrere a una necessaria prospettiva interdisciplinare, in cui filosofia e teologia, estetica e etica, biologia e cosmologia, matematica e fisica interagiscono (mi verrebbe da dire «naturalmente») tra loro.
Nel volume non mancano riferimenti alle opposte personificazioni della natura: benigna e matrigna (ma sulle abusate formule scolastiche si veda ora Gaspare Polizzi, Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la Natura , Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 144, e 7), generosa e avara, trasparente e occulta. Ne viene fuori un affascinante percorso, in cui la problematicità e la polisemia dei termini «natura» e «naturale» si pongono come un necessario invito a evitare qualsiasi tentativo di semplificazione. Molti filosofi e studiosi della natura (si pensi, per esempio, al rogo di Giordano Bruno o alla sofferta abiura di Galileo) hanno sacrificato la libertà e la vita per difendere l’eliocentrismo, per ribadire che chi vuole conoscere la «natura» non deve ricorrere alle metafore dei libri sacri ma allo studio scientifico della natura stessa.
Quegli errori commessi nel corso della storia tornano oggi in forme diverse quando vengono contrabbandate come «naturali» posizioni (etiche, religiose, comportamentali) che sono solo soggettive. Chi parla, insomma, in nome della «natura» confonde, spesso, le proprie regole morali (che riguardano esclusivamente le scelte di una microcomunità) con ciò che dovrebbe essere da tutti riconosciuto come una oggettiva legge, indipendente dalla volontà degli uomini.

Corriere 3.1.16
Lungotevere chiuso Roma sconfitta anche dagli storni
di Sergio Rizzo


In una città come Roma, inaspettatamente diventata negli ultimi anni uno spettacolare set cinematografico, sarebbe lo scenario più adatto per girare un remake del famoso thriller di Alfred Hitchcock, Gli uccelli . Con qualche variazione nella trama connessa al differente rapporto fra uomo e volatili. Per la terza volta nel giro di pochi giorni ieri si è dovuto chiudere al traffico un tratto del Lungotevere per l’enorme quantità di guano sul manto stradale di cui hanno fatto le spese motociclisti e auto coinvolte in una serie di tamponamenti a catena: complice in questo caso la pioggia, che non era inattesa. Il blocco è durato 9 (nove) ore. A fine giornata i vigili urbani ci hanno fatto sapere ufficialmente, con comprensibile sollevazione, che non si sono registrati «feriti gravi». Evviva.
Ma è un classico. L’arrivo di migliaia di storni, attirati dalla temperatura mite e da 400 mila alberi (e meno male che ci sono), non può essere considerata certo una sorpresa. Ormai è un appuntamento invernale irrinunciabile: va avanti così da anni e anni. Per evitare l’invasione, o semplicemente far sloggiare i volatili, si è tentata ogni strada, come quella degli avvisatori acustici. Nessuna veramente efficace, e forse ci sta. In subordine, però, si potrebbero evitare gli incidenti semplicemente pulendo le strade. Invece le squadre dell’Ama, l’azienda municipale che ha quasi 8 mila dipendenti e dovrebbe assolvere proprio a questo compito, entrano in azione soltanto in seguito. Com’è avvenuto ieri, quando uno squadrone di spazzini si è improvvisamente materializzato dopo i tamponamenti.
E se oggettivamente non si può presentare il conto intero di questi disagi, ancora più inaccettabili considerando il periodo festivo, il Giubileo e la presenza di migliaia di turisti, a un commissario prefettizio che viene da Milano (dove di storni non se ne vedono così tanti), è impossibile non chiamare in causa un’amministrazione che si dimostra a ogni occasione incapace di governare Roma. Che, va ricordato, non è una città qualunque, ma la capitale del Paese.
Il fatto è che si è dimissionato un sindaco come Ignazio Marino considerato da molti anche nel suo partito inadeguato a ricoprire quel ruolo, immaginando forse che così si sarebbero risolti i problemi, ma Roma continua a vivere pericolosamente alla giornata. Vive alla giornata con l’emergenza smog, affrontandola attraverso provvedimenti estemporanei e scarsamente efficaci per ridurre il livello di polveri sottili: per colpa degli scarsi controlli, ma pure delle deroghe numerosissime ai divieti di circolazione, che vanificano le targhe alterne, e di un parco mezzi pubblici obsoleto e altamente inquinante. Vive alla giornata con i trasporti allo sbando, fra decisioni dalla logica del tutto incomprensibile come la chiusura delle metropolitana a Natale e l’incapacità di gestire perfino il biglietto integrato unico della durata di 24 ore. Vive alla giornata nel perenne inseguimento di rimedi in zona Cesarini, mettendo toppe che si rivelano spesso peggiori del buco. L’ultima, davvero clamorosa per gli effetti che potrà avere, è del 31 dicembre. Il giorno di San Silvestro il commissario ha prorogato per ben due anni il contratto con le Assicurazioni di Roma, annullando di fatto le conseguenze della delibera adottata a marzo dal consiglio comunale che aveva decretato lo scioglimento di quella compagnia: l’unica sul pianeta Terra di proprietà di un Comune. La motivazione è intuibile. Perché senza un prolungamento in extremis di quel contratto, dal primo gennaio tutti i mezzi di trasporto del Campidoglio, dagli autobus dell’Atac, ai treni della metropolitana, ai camion dell’Ama, non avrebbero avuto copertura assicurativa con intuibili conseguenze.
Anche se la durata biennale della proroga, che per giunta è accompagnata da un’opzione contrattuale di altri tre anni (!), non soltanto sovverte una decisione presa da un organismo eletto dai cittadini consentendo la sopravvivenza di una società pubblica che dovrebbe essere liquidata, ma dribbla anche l’obbligo di fare una gara per acquistare servizi commerciali quali sono le polizze assicurative. Esattamente come hanno sempre fatto tutte le amministrazioni del Campidoglio, di qualunque colore politico fossero. Succedeva con le giunte di sinistra di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, come pure con le amministrazioni precedenti democristiane e socialiste, è successo con la giunta di destra di Gianni Alemanno.
Questo episodio apparentemente marginale dà comunque l’idea dello stato in cui versa la città di Roma. Dove tutto sembra cambiare, ma soltanto perché ogni cosa rimanga al proprio posto. E di come qui il confine fra l’ordinaria amministrazione, alla quale dovrebbe essere strettamente limitata l’azione di un commissario, e gli interventi straordinari, sia sempre più labile.

Il Sole 3.1.15
La Grecia prepara il braccio di ferro con l’Ue sul debito
Berlino vuole l’Fmi, Tsipras si oppone
di Vittorio Da Rold


A settembre, a fine campagna elettorale, in Piazza Syntagma, il cuore politico della infinita crisi greca, il premier uscente, poi riconfermato nelle urne, Alexis Tsipras tentò di uscire dall’isolamento in cui era finito a Bruxelles nella drammatica notte tra il 12 e 13 luglio quando decise di cedere alle richieste dei creditori e accettare il terzo Memorandum di riforme e austerità per evitare l’uscita dall’eurozona, come proposto a sorpresa dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble.
Tsipras fece la “kalotoumba”, la capriola in greco, accettando il terzo piano di tagli alle spese sociali e aumenti di tasse che il referendum di luglio aveva clamorosamente bocciato con il 61% dei voti. Era il punto più drammatico toccato dalla lunga crisi dei debiti sovrani dell’eurozona.
Quando Tsipras decise di accettare gli 86 miliardi di euro di aiuti in cambio di nuove misure di austerità i ribelli di Syriza uscirono sbattendo la porta e fondando un nuovo partito di Unità popolare che però non riuscì nemmeno a entrare in Parlamento. In un’intervista rilasciata in quei giorni al quotidiano Ta Nea, il premier Tsipras sottolineò che l’obiettivo principale era la «formazione di un governo progressista di sinistra che sappia rinegoziare il debito della Grecia». E ora, quattro mesi dopo, con il sopraggiungere della crisi dei profughi, del terrorismo e del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, Atene non è più la priorità delle situazioni a rischio in Europa. Ma, la tregua è solo apparente: sotto la cenere cova ancora il problema del suo enorme debito che nel 2019 potrebbe raggiungere il 186% del Pil.
La partita di come riportare in carreggiata la Grecia è di nuovo nelle mani del Fondo monetario internazionale che a gennaio 2016, come ha detto recentemente il suo portavoce Gerry Rice a Washington, «sulle basi delle verifiche sulle riforme greche approvate a quel punto noi finalizzeremo la nostra posizione dopo aver analizzato la sostenibilità del debito».
Il Fondo monetario vuole ridurre il debito prima di concedere nuovi prestiti (ci sono ancora 28 miliardi di euro di programmi di prestiti in scadenza a marzo anche se l’Fmi non ha più rilasciato soldi da giugno 2014).
Il premier Alexis Tispras vorrebbe eliminare entro il prossimo marzo i controlli di capitale sulle banche che sono ancora in vigore da giugno. Inoltre Atene spera di riconquistare la fiducia degli investitori internazionali al punto di poter tornare a fine 2016 sul mercato dei capitali come ha pronosticato il ministro delle Finanze Euclid Tsakalotos che ha sostituito il sulfureo Yanis Varoufakis, oggi messo in naftalina.
A quel punto Atene, che è quella che ne ha più bisogno, potrebbe di nuovo essere ammessa nel programma di acquisto dei titoli pubblici della Bce, quello che consente a Francoforte di acquistare 60 miliardi di asset al mese almeno fino al marzo 2017.
Anche il mercato obbligazionario di Atene lancia segnali distensivi: dopo aver passato un anno sulle montagne russe i rendimenti del decennale greco sono passati da un massimo di quasi il 20% nel mese di luglio, quando i timori di un’uscita della zona euro hanno raggiunto il culmine durante i colloqui tra il nuovo governo a guida Syriza e i creditori internazionali, per poi precipitare al 7% un mese fa. Ora i rendimenti veleggiano tranquilli all’8,27%, più di 100 punti base inferiori rispetto alla fine del 2014. Certo un livello ancora molto lontano dal rendimento toccato il 30 dicembre scorso dal Bund decennale tedesco allo 0,64%, che pure è passato dal minimo dello 0,05% di metà aprile al massimo dell’1% ai primi di giugno 2015.
Alexis Tsipras, che ha vinto le elezioni per aver contrastato fieramente le richieste dei creditori, oggi sta attuando la politica del suo avversario, il conservatore di Nea Dimokratia, Evangelos Meimarakis, che aveva chiesto la fine del braccio di ferro con l’Europa, di smetterla con le politiche avventuriste e di rispettare gli impegni con la Ue per poter ottenere il sospirato taglio del debito pubblico. A breve Tsipras vuole proprio ridurre il debito, ma senza far entrare in partita il Fondo monetario. Berlino, come al solito si oppone, e chiede che l’Fmi, garante tecnico non sottomesso alla politica, debba rientrare in gioco. Sul tema del debito si sa che sia la direzione Ecofin della Commissione europea sia l’European stability mechanism ci stanno lavorando.
La Ue vorrebbe allungare i termini e ridurre gli interessi o al massimo concedere periodi di grazia, ma senza ridurre il debito per evitare precedenti pericolosi. Jeroen Dijsselbloem, il presidente dell’Eurogruppo, aveva evocato la possibilità di porre un limite del 15% del Pil come tetto massimo per gli oneri sul debito, ma il governo greco lo ha bocciato ritenendolo troppo elevato.
Anche per il 2016 i colpi di scena non mancheranno ad Atene. Una partita che se lasciata solo in mano agli ideologi dell’austerità potrebbe spingere Atene di nuovo sull’orlo dell’abisso e mettere in crisi l’unità dell’euro nonostante il whaterever it takes della Bce.

Il Sole 3.1.16
Il ritorno della Tigre celtica. Il rilancio dell’export e della domanda interna contribuisce a ridurre il debito e la disoccupazione
E l’Irlanda cresce a ritmi cinesi
di Michele Pignatelli


Commerzbank l’ha ribattezzata la Fenice che rinasce dalle sue ceneri. Una nuova metafora per celebrare la ripresa sempre più convinta dell’Irlanda, dopo gli anni seguiti all’esplosione della bolla immobiliare e al dissesto bancario e poi economico che l’avevano trasformata da Tigre celtica in Cenerentola d’Europa.
Appena cinque anni fa il Paese era costretto a chiedere aiuti internazionali per 67,5miliardi ed entrava in un piano di salvataggio triennale costato dolorosa austerity e povertà crescente; oggi – alla vigilia di un voto che, tra febbraio e marzo, sancirà il giudizio degli elettori sull’operato del governo – l’Irlanda si conferma l’economia a crescita più rapida dell'area Ocse, a ritmi “cinesi”, sta riportando i conti sotto controllo, ha ridimensionato la disoccupazione.
I punti di forza dunque sono molti, anche se restano alcune fragilità e qualche interrogativo legato agli scenari globali e alla direzione che prenderà la ripresa.
Nel terzo trimestre dell’anno scorso il Pil di Dublino è cresciuto del 7% rispetto allo stesso periodo del 2014: un trend che spinge ormai diversi analisti a prevedere che questa sarà la performance dell’economia per l’intero 2015, ben oltre il +6,2% che lo stesso governo aveva stimato a ottobre. Nel 2014 l’Irlanda era cresciuta del 5,2% e per il 2016 si prevede un incremento tra il 4 e il 5 per cento. Sono numeri importanti, sebbene qualcuno – tra gli altri l’ex governatore della Banca centrale Patrick Honohan – inviti a valutarli con cautela, visto il peso che su un’economia piccola come quella irlandese hanno le multinazionali. E bisogna tener conto che finora Dublino ha molto beneficiato dello stato di salute di Stati Uniti e Gran Bretagna, maggiori destinazioni del suo export
Analizzando le componenti della crescita, c’è però un’importante considerazione: a determinarla non è più solo l’export ma anche la domanda interna. Commerzbank nota che, mentre nel biennio 2011-2013 il surplus commerciale faceva da traino all’incremento del Pil e la domanda interna era un freno, negli ultimi due anni c’è stata una consistente ripresa dei consumi (le vendite di auto, per esempio, sono cresciute l’anno scorso del 30%) e, in parte, degli investimenti. Segnali di un’economia più equilibrata, capace di reggere meglio gli shock esterni.
Stando agli ultimi dati del Dipartimento delle Finanze, il deficit 2015 si attesterà al 2,1% del Pil, oltre 12 punti percentuali in meno del 2009, picco negativo della crisi. Il debito rimane alto (al 97% del Pil) ma è comunque calato di 23 punti rispetto al 2012 e, soprattutto, lo ha fatto molto più rapidamente del previsto.
I risultati ottenuti sul fronte del deficit sono frutto in primo luogo dei robusti tagli alla spesa di questi anni (oltre 30 miliardi), ma anche del gettito fiscale superiore alle attese, in particolare la corporate tax che Dublino ha mantenuto al 12,5 per cento. Grazie ai buoni risultati e all’extragettito (3 miliardi più del previsto nel 2015) il governo ha potuto varare un budget espansivo, con un inevitabile occhio alle elezioni: prima una riduzione delle tasse, poi un aumento della spesa. E qualcuno ha iniziato a storcere il naso.
Il Fiscal Advisory Council, l’authority indipendente istituita nel 2011 per monitorare la politica di bilancio, ha messo in guardia dall’utilizzo di entrate inattese per finanziare incrementi permanenti della spesa, una scelta – sottolinea il Consiglio – «che riecheggia errori passati e va contro i nuovi criteri di bilancio». Di altro segno la critica del mondo del business, con l’Ibec, la principale associazione imprenditoriale, che invita piuttosto a impiegare quelle risorse per incrementare gli investimenti, pubblici e privati: abitazioni, strade, trasporto pubblico, istruzione, sanità.
L’attrattività fiscale che Dublino ha saputo mantenere, con misure vecchie e nuove (per esempio l’istituzione di un regime fiscale agevolato, al 6,25%, sui ricavi da royalties), ha permesso al Paese di restare calamita per gli investimenti diretti esteri, con la conseguente creazione di posti di lavoro: 136mila nel settore privato dal 2012. In questo modo anche la disoccupazione, che aveva toccato il 15%, è scesa l’anno scorso al 9,5 per cento.
In un quadro ampiamente positivo come quello tratteggiato restano tre criticità. La prima è il settore bancario. I bilanci si sono nettamente ridimensionati rispetto agli anni precedenti il crollo (dall’800% del Pil al 300%) e si ha la sensazione di una maggiore solidità, grazie alle fusioni, che hanno portato da cinque a tre i principali istituti, e all’introduzione di requisiti di capitale più stringenti. Resta il credit crunch: il credito a famiglie e imprese continua a calare o non riparte, pesando soprattutto sulle imprese irlandesi.
La seconda incognita è Brexit: un’uscita della Gran Bretagna dall’Ue peserebbe sulla crescita irlandese e sul mercato del lavoro. L’interscambio tra i due Paesi ammonta oggi a circa 50 miliardi all’anno; secondo uno studio effettuato dall’Esri, think-tank di ricerca socioeconomica basato a Dublino, Brexit ridurrebbe gli scambi di un quinto, prima di tutto a causa della reintroduzione di barriere tariffarie. Le ripercussioni sul Pil sarebbero inevitabili. Quanto al mercato occupazionale, il ripristino di restrizioni nella libertà di spostarsi per motivi di lavoro in Gran Bretagna potrebbe far salire il tasso di disoccupazione (Londra ha sempre funzionato da valvola di sfogo, assorbendo forza lavoro irlandese in tempi di crisi) e calare i salari, dirottando verso l’Irlanda lavoratori Ue meno qualificati che oggi scelgono la Gran Bretagna.
L’ultima incognita sono le elezioni politiche, da fissare tra febbraio e marzo. I partiti oggi al governo sembrano destinati a pagare il pedaggio politico dei sacrifici imposti negli anni di crisi. Anche se secondo gli ultimi sondaggi la coalizione è in ripresa (il Fine Gael, centrodestra, al 31% e i laburisti all’8% dei consensi), rimane 16,5 punti percentuali al di sotto del risultato del 2011. Sono calati soprattutto i laburisti, scavalcati a sinistra dai nazionalisti del Sinn Fein, paladini dell’anti-austerity. Un cambio di maggioranza che dovesse includerli potrebbe rimettere in discussione molte cose.

Repubblica 3.1.16
Abraham Yehoshua.
Lo scrittore: “Passaggio utile per la soluzione del conflitto,tutto il mio Paese può gioire”
“Passo importante per noi israeliani Chi critica sbaglia”
intervista di Guido Andruetto


NON ha alcuna esitazione a dichiararsi «molto soddisfatto», lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, commentando al telefono dalla sua casa a Tel Aviv la notizia dell’entrata in vigore dell’accordo bilaterale tra la Santa Sede e lo stato di Palestina. «Un fatto di notevole rilevanza e di buon auspicio per il processo di pace», sono le prime parole a caldo dell’autore di romanzi di grande successo come Il responsabile delle risorse umane, Il signor Mani e l’ultimo La comparsa, tutti editi in Italia da Einaudi.
Signor Yehoshua, qual è la sua opinione sui contenuti dell’accordo?
«Non ne conosco approfonditamente tutti i termini ma considerate le premesse posso esprimere un giudizio generale molto positivo. Siccome nel merito della questione palestinese esso si pronuncia chiaramente a favore della soluzione dei due Stati, non posso che sostenerlo con tutto il mio cuore».
La posizione di Israele sembra differire dalla sua.
«E perché? Che cosa c’è che non va in questo accordo? Non vedo la ragione per cui Israele lo debba contestare, visto che ufficialmente la posizione del governo israeliano è quella dei due Stati, se ci basiamo su quanto a parole dice il primo ministro Netanyahu. Del resto il Vaticano ha relazioni anche con Israele e quindi qual è il problema? Proprio non capisco la reazione critica di Israele».
L’avvio dell’accordo quali sviluppi porterà secondo Lei nel prossimo futuro?
«La mia opinione è che avrà certamente un’influenza sul processo di pace in senso positivo. È una nuova pietra che viene posata sul lungo e tortuoso cammino verso la pace e verso la risoluzione del conflitto israeliano-palestinese ».
Gli episodi di violenza però non cessano.
«Certo è un percorso difficile, c’è un continuo stato di allarme che ormai ha superato i confini di Israele. L’altro giorno abbiamo assistito di nuovo a un fatto di sangue, con l’attacco al pub qui nel pieno centro di Tel Aviv. È stato terribile, ma sembra a questo punto che si sia trattato dell’azione di un malato di mente e il padre stesso loha segnalato alla forze di polizia. Un punto, quest’ultimo, che secondo me va evidenziato perché rappresenta un importante e significativo esempio di collaborazione da parte degli arabi contro la violenza».

il manifesto 3.1.16
Netanyahu avverte arabo israeliani: «Non potete godere di diritti ed essere palestinesi»
A Hebron migliaia ai funerali di 14 palestinesi uccisi nei mesi scorsi
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Davanti all’ingresso del pub “HaSimta” di Tel Aviv, luogo venerdì pomeriggio dell’attacco con due morti e diversi feriti compiuto dal 29enne di Arara, Nashat Milhem, Benyamin Netanyahu ieri sera ha rivolto un avvertimento molto chiaro alla minoranza araba in Israele. «Non potete godere dei diritti garantiti in Israele e (allo stesso tempo, ndr) sentirvi in obbligo di essere palestinesi», ha detto il premier israeliano mentre decine di persone commemoravano le due vittime e centinaia di agenti sorvegliavano le strade del centro, effettuando perquisizioni in case ed edifici. «Apprezzo le condanne giunte dal mondo arabo – ha proseguito Netanyahu — devo però aggiungere che mi attendo adesso che i deputati arabi (alla Knesset, ndr), nessuno escluso, condannino questo omicidio disgustoso senza tentennamenti». Tutti gli arabo israeliani sono diventati responsabili dell’attentato compiuto da un solo individuo, Nashat Milhem. L’accaduto ha fornito nuove munizioni a coloro che considerano i palestinesi con passaporto israeliano (il 20% della popolazione) una “quinta colonna”, un “corpo estraneo” che minaccia il paese e da isolare.
Tel Aviv resta blindata ma dell’attentatore non c’è traccia. Riconosciuto dal padre nei filmati ripresi dalle telecamere di sorveglianza e trasmessi dalle tv locali, Milhem è sparito in pochi attimi dopo i trenta colpi che ha esploso contro il pub. È perciò possibile che abbia ricevuto aiuto immediato da uno o più complici. Ieri è stato arrestato il fratello, Jaudat, che secondo gli investigatori, è collegato all’attentato. La polizia ritiene che Nashat Milhem sia ancora a Tel Aviv ma non pochi credono che sia riuscito a lasciare la città subito dopo l’attacco. La pista privilegiata dagli investigatori resta quella di un attentato a sfondo religioso o nazionalistico, “ispirato dall’Isis”, perchè, secondo alcuni, Milhem si era «radicalizzato» negli ultimi tempi anche se alla polizia era noto solo come un criminale comune e un ex detenuto tossicodipendente. Non si esclude peraltro l’ipotesi di una vendetta e si tiene in considerazione anche il fatto che il pub “HaSimta” è frequentato dalla comunità Lgbt. Ad infittire la nebbia intorno all’attacco di venerdì c’è anche il ritrovamento, sempre a Tel Aviv, del cadavere di un tassista arabo israeliano, assassinato vicino alla propria autovettura in circostanze oscure poco dopo l’attentato al pub. Una vicenda sulla quale la magistratura ha ordinato alla stampa di non divulgare tutti i particolari in suo possesso.
Lo “sparatore sparito” ha fatto passare in secondo piano i funerali più imponenti tenuti in questi ultimi anni nei Territori palestinesi occupati. Migliaia di persone hanno partecipato ieri alla moschea al Hussein di Hebron ai riti funebri per 14 palestinesi uccisi dalle forze israeliane negli ultimi tre mesi, dall’inizio dell’Intifada di Gerusalemme. Tutti vivevano nella città della Tomba dei Patriarchi e sono parte dei 23 corpi di palestinesi — responsabili di attacchi veri e presunti — che Israele ha trattenuto per settimane, in un caso per 80 giorni (Basel Sadr, 20 anni, ucciso il 14 ottobre a Gerusalemme), nel quadro delle misure punitive volte a mettere fine all’Intifada riesplosa a inizio ottobre in Cisgiordania e nel resto dei Territori occupati. Negli ulltimi tre mesi sono stati uccisi 138 palestinesi e le autorità israeliane stanno ora consegnando i corpi degli uccisi alle famiglie per allentare la tensione. Sarebbero ancora 17 i cadaveri di palestinesi nelle mani di polizia ed esercito, 15 dei quali di abitanti di Gerusalemme Est.
Oscurata dalle crisi e dalle guerre che devastano il Medio Oriente, a cominciare da quelle in Siria e nello Yemen, la questione palestinese resta ai margini dell’interesse dei mezzi d’informazione internazionali. Ma l’occupazione militare israeliana continua e con essa la nuova Intifada. E in questo contesto non vanno dimenticati o sottovalutati i rischi che anche i giornalisti locali corrono per riferire quanto accade ogni giorno sul terreno. Venerdì a Kufr Qaddum, dove da anni gli abitanti lottano contro il Muro di separazione israeliano e per riaprire strade chiuse dall’esercito, un reporter del tv palestinese, Anal al Jaada, è stato ferito seriamente a una gamba da un proiettile rivestito di gomma sparato dai soldati durante una incursione nel villaggio. Ancora venerdì scontri violenti con i militari sono avvenuti a Bilin, un altro dei villaggi dove proseguono le proteste contro il Muro. A Bilin i manifestanti, tra i quali attivisti stranieri e israeliani, hanno issato poster di Jawaher Abu Rahmeh, morta soffocata dai gas lacrimogeni durante una protesta nel 2011, due anni dopo l’uccisione di altro membro della sua famiglia, Bassem, colpito in pieno petto da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo.

Repubblica 3.1.16
L’amaca
di Michele Serra


C’È una ricca tradizione di “insani gesti” e “atti inspiegabili”, nella cronaca nera, che ci porta sull’incerto confine tra crimine lucidamente commesso oppure addebitabile a qualche patologia psichica: con tutte le sfumature intermedie. Criminologhi, psichiatri, giuristi sanno quanto è complessa la materia. Destinata a complicarsi, e di parecchio, con l’irruzione sulla scena mondiale del terrorismo di strada. Del giovane sparatore arabo che a Tel Aviv ha crivellato a freddo i clienti di un bar, un parente fa sapere che non c’entra niente con l’Isis: è affetto da turbe mentali e ha agito da psicopatico. Viene spontaneo domandarsi quanto di psicopatico ci sia anche nel terrorismo “cosciente”, parendo impossibile che si possa entrare in un teatro e massacrare inermi (Bataclan), uccidere a freddo più di cento ragazzi in un campeggio (Breivink), far morire di sete i bambini di una scuola (Beslan) in assenza di qualche grave turba mentale. Più in generale, tra il fanatismo e le psicopatie (specie la paranoia) esiste una parentela percepibile anche dai non addetti. Di Hitler, forse il massimo fanatico nonché il massimo serial killer di tutti i tempi, non per caso si dice che “era un pazzo”. La malattia mentale, nella tradizione giuridica, è un’attenuante (si può arrivare a decretare la non punibilità del reo). Ma quando la paranoia — come dire — scende in campo, ovvero si organizza politicamente, si dà una veste ideologica, come la si deve affrontare, giudicare, combattere?

Corriere 3.1.16
Storia dell’odio tra islamici
Quei 14 secoli del lungo odio con i sunniti
La disputa sugli imam e la catena di persecuzioni
di Roberto Tottoli


La divisione sunniti-sciiti risale alla morte di Maometto, 14 secoli fa. Subito si divisero sulla figura dell’imam che avrebbe regnato al posto del profeta. Per gli sciiti l’imam deve essere una guida anche religiosa, per i sunniti deve garantire l’unità della comunità senza ruoli religiosi. La via sunnita è quella della gran maggioranza dei musulmani ( nella foto l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran ).
La divisione tra sunniti e sciiti risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per il «partito di Alì», in arabo shi‘at ‘Ali , da cui deriva il nome «sciiti», il legittimo successore di Maometto doveva essere ‘Ali, suo genero. E dopo di lui dovevano regnare i suoi discendenti con il titolo di imam. Ma la questione della successione non fu solo politica: per gli sciiti gli imam erano e sono una guida anche religiosa.
Per i sunniti, invece, i primi sovrani, chiamati «califfi», furono scelti tra i compagni di Maometto, senza alcun ruolo religioso ma solo con il dovere di garantire l’ideale unità della comunità.
Nel corso dei secoli il sunnismo è stato la via seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani, mentre lo sciismo si è a sua volta frantumato in svariate sette circoscritte ad alcune regioni.
I motivi di tali divisioni hanno sempre avuto origine intorno all’autorità religiosa, più o meno accentuata, attribuita agli imam. Gli alauiti di Siria o i Drusi, oppure gli ismailiti guidati dall’Agha Khan ne sono gli esempi più estremi e noti. Oppure, all’opposto, vi sono correnti come quella degli zayditi dello Yemen, moderati, assai vicini ai sunniti. Quasi il novanta per cento degli sciiti segue lo sciismo imamita. Tale corrente unisce la maggioranza della popolazione irachena, ha una sua roccaforte storica nel Libano di Hezbollah ed è soprattutto religione ufficiale in Iran dal XVI secolo.
La Rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato il momento più alto di una comunità religiosa che ha invece spesso conosciuto marginalità, persecuzioni o dissimulazioni per sopravvivere. La storia degli sciiti è infatti costellata da sofferenze ben rappresentate dalla morte dell’imam Hussein, il figlio di ‘Alì, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell’odierno Iraq.
I sunniti hanno sempre guardato con sospetto ai sostenitori di concezioni sciite. Oggi le posizioni più marcatamente anti-sciite sono sostenute dall’Arabia Saudita. Il wahhabismo è segnato da un odio feroce contro gli sciiti, trattati alla stregua di miscredenti e avversati nel loro credo e nelle forme di culto verso i venerati imam. La Rivoluzione iraniana che ha consegnato il Paese al di là del Golfo Persico al clero sciita ha acuito tensioni e rivalità.
La minoranza sciita che vive ancor oggi in Arabia Saudita soffre tali difficoltà e una rivalità crescente. Si tratta di una presenza antica, come la presenza sciita in Bahrein, ma marginalizzata dalla realtà politica saudita, in altalenanti fasi di riavvicinamento e confronti sanguinosi. I moti di protesta nel clima delle cosiddette primavere arabe dopo il 2011 hanno ulteriormente acuito incomprensioni irrigidendo le autorità saudite.
Allo stesso tempo, la crescita dell’influenza di correnti salafite sempre più avverse allo sciismo presso la corte saudita spinge per colpire la minoranza sciita con divieti e azioni coercitive.
In tali condizioni e con le crisi regionali in atto, le possibilità di dialogo sembrano sempre più difficili. E le esecuzioni di ieri accrescono gli storici e insanabili contrasti rischiando di infiammare ancor di più tutta la regione.

Repubblica 3.1.15
Le esecuzioni a Riad
Sciiti e sunniti: lo scontro secolare che incendia il Medio Oriente
L’esecuzione di Al Nimr rischia di far esplodere le tensioni tra le due confessioni musulmane e tra Arabia Saudita e Iran, potenze che negli ultimi trent’anni si sono combattute in lunghe guerre per procura
di Renzo Guolo


La frattura religiosa ha assunto un peso ancor più rilevante nel 1979, quando Khomeini ha preso il potere a Teheran facendosi paladino anche delle minoranze sciite “oppresse” nella Mezzaluna
Arrestato nel 1963 e in esilio dal 1964, Khomeini fece trionfale ritorno in Iran nel 1979 diventando la massima autorità politica e religiosa e proclamando l’Iran Repubblica islamica

L’ESECUZIONE dello sceicco sciita Nimr Al Nimr, uno dei leader religiosi e politici del movimento di protesta esploso nel 2011 nella ricca provincia orientale saudita che reclamava maggiori diritti per la più grande minoranza religiosa del paese, rischia di far deflagrare un duplice scontro, politico e religioso, nella regione. Tra sunniti e sciiti. E tra le potenze confessionali, Arabia Saudita e Iran, che si sono erette, rispettivamente, protettrici di quelle stesse comunità.
Il contrasto tra Arabia Saudita e Iran ha una storia lunga. Si nutre dell’avversione religiosa che il movimento wahabita, egemone dottrinalmente nella penisola arabica, nutre nei confronti degli sciiti, considerati non tanto musulmani quanto veri e propri apostati. Per aver contestato, sin dagli albori dell’Islam, la linea di successione profetica che i sunniti, in maggioranza nel mondo islamico, hanno legato al consenso dei compagni e dei primi seguaci del Profeta, mentre gli sciiti invocavano la qualificazione carismatica della stirpe ritenendo legittima solo la leadership che traeva origine dalla famiglia di Alì, cugino e genero di Maometto. Una differenza che, nel tempo, si è accentuata.
Per sopravvivere alla catastrofe teologica legata alla scomparsa del dodicesimo Imam, figura che contrariamente a quanto avviene nel sunnismo non è una semplice guida della preghiera ma un mediatore tra sacro e profano, gli sciiti hanno elaborato una particolare dottrina: la teologia dell’Occultazione. E dato vita, contrariamente al sunnismo, a un vero e proprio clero stratificato per sapere religioso. Un ceto di specialisti che, tra l’altro, deve interpretare il significato nascosto del messaggio coranico, considerato testo che ha anche una dimensione esoterica e non solo, come per i sunniti, essoterica o letterale.
I wahabiti, fautori di un intransigente monoteismo e ostili ad “associare” figure come i Dodici imam a qualsiasi forma di adorazione divina, hanno sempre considerato gli sciiti idolatri da reprimere o condannare alla marginalità. Questa frattura religiosa non si è mai colmata. E, pur avendo diversa intensità in paesi con storie diverse, ha assunto un peso ancora più rilevante nel 1979, quando lo sciismo khomeinista ha preso il potere in Iran. Facendosi paladino non solo della Rivoluzione islamica — la cui “esportazione” è stata bloccata sia dal suo minoritario carattere sciita, sia dalla guerra condotta dall’Iraq di Saddam Hussein con l’appoggio degli Stati Uniti — ma anche delle minoranze sciite “oppresse” nel mondo della Mezzaluna: dal Golfo al Libano, dall’Iraq all’Afghanistan.
Lo sciismo rivoluzionario rappresenta una minaccia per i sauditi perché mette in discussione sia il loro ruolo di “custodi dei luoghi santi” sia una dottrina, come quella wahabita, ritenuta ferrea depositaria di una tradizione religiosa fondata sull’ingiustizia e la persecuzione nei confronti dello sciismo. Il sistema di alleanze internazionali poi ha accentuato le divergenze.
L’Arabia Saudita è, dal 1945, un alleato, anche se poco limpido e oggi relativamente autonomizzato, di quell’America che, dal sequestro degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran sino alla lunga e tormentata partita sul nucleare, è stata agli occhi degli iraniani “il Grande Satana”. Negli ultimi tre decenni sauditi e iraniani si sono, così, combattuti in lunghe e estenuanti guerre per procura, sostenute sul campo da movimenti e Stati alleati. È accaduto, e accade, in Libano, in Iraq, in Siria, nello Yemen, in Bahrein.
Mandando a morte Al Nimr i sauditi inviano ora al mondo un messaggio che definisce una precisa tassonomia del Nemico: categoria a cui ascrivere non solo i simpatizzanti sunniti di Al Qaeda, ma anche gli oppositori sciiti, giustiziati insieme ai primi. Un discorso rivolto, brutalmente, anche all’Iran perché comprenda che non verrà tollerata nessuna “interferenza”, statuale e confessionale, nel giardino di casa saudita: a partire dal Golfo. Un messaggio che, secondo il ministro degli Esteri iraniano, costerà caro alla dinastia saudita, qualificata come “criminale” e che, secondo lo stesso leader della Repubblica islamica Khamenei, non impedirà il “risveglio” sciita. Le proteste esplose nel mondo sciita, nel Bahrein oltre che nelle province orientali saudite, in Libano come nel Kashmir, sono solo un’avvisaglia delle nuove tensioni che l’esecuzione di Al Nimr può innescare. Anche perché sia le dinamiche connesse all’autoattribuito rango di potenze confessionali, sia la battaglia senza esclusione di colpi per conquistare il ruolo di potenza regionale dominante, mandano oggettivamente in rotta di collisione strategica Teheran e Riad. Alimentando il conflitto settario. Anche in contesti dove, di fatto, sauditi e iraniani sono membri di uno schieramento, come quello fondato sulla “doppia coalizione”, che ha lo stesso nemico: l’Is.
Sino a quando la duplice frattura, religiosa e di potenza, alimenterà la sfida tra i due giganti mediorientali, il vero nodo politico gordiano dello scenario mediorientale, non sarà possibile stabilizzare l’area. Come rivela la stessa costituzione, su impulso saudita, di un alleanza militare sunnita che ha come esplicito obiettivo il contrasto al terrorismo. Termine con il quale Riad non si riferisce solo all’Is o a Al Qaeda ma anche, più o meno esplicitamente, a movimenti sciiti come l’Hezbollah libanese o gli Houthi in Yemen, all’opposizione alide in Bahrein o nelle stesse province orientali del Regno. E, soprattutto, al loro grande protettore: l’Iran. Una dottrina politica e della sicurezza che, unita alle ambizioni iraniane, rischia di far deflagrare il già incendiario panorama regionale.

Repubblica 3.1.16
Vali Nasr
“Basta con Riad ora l’Occidente deve sostenere il nuovo Iran”
Il grande esperto di mondo islamico “I sauditi fanno una politica che giova al Califfato e temono l’egemonia di Teheran nell’area, più forte dopo l’accordo sul nucleare. Le esecuzioni sono una provocazione contro gli ayatollah”
intervista di Vanna Vannuccini


Ci sono di mezzo troppi interessi. Ma se il mondo vuole combattere veramente l’Is faccia pressione sul regno

“UN GESTO provocatorio, deliberato, non motivato da nessuna necessità interna, fatto per spingere l’Iran a una reazione che complichi i suoi rapporti con l’Occidente alla vigilia di quella distensione che tutti si aspettano dopo la cancellazione delle sanzioni».
Vali Nasr, grande esperto del mondo islamico e autore di un famoso libro, “La rivincita (nell’originale la rinascita) sciita”, decano della Johns Hopkins e consigliere del Dipartimento di Stato, non ha dubbi: l’esecuzione ieri in Arabia Saudita di 47 “terroristi”, tra i quali il 55enne Nimr Al Nimr, un religioso che negli anni passati aveva guidato il dissenso contro la casa regnante e per questo era stato arrestato e condannato a morte, ha lo scopo di provocare l’Iran allo scontro. «La provincia orientale del Paese, quella più ricca di petrolio e più vicina all’Iran, dove in passato c’erano stati disordini e proteste da parte della popolazione sciita, è calma. Non c’erano ragioni di politica interna per questa esecuzione di massa. E’ stato un atto deliberato per alzare il livello dello scontro con l’Iran. È la prova che i dirigenti di Ryad non hanno alcun interesse a una politica di riconciliazione o di allentamento delle tensioni nella regione, che continuano una politica settaria al di là di quello che affermano e che il loro scopo è l’escalation delle tensioni tra sunniti e sciiti ».
Riad pagherà caro, ha detto un portavoce governativo a Teheran. Come reagiranno gli iraniani?
«L’Iran ha tutto l’interesse a non cadere nella trappola tesa dai sauditi. Reagiranno verbalmente, è chiaro, ma credo che eviteranno di fare il gioco dei sauditi complicando le loro relazioni col resto del mondo» Questo vale anche per i conservatori, i pasdaran e tutti coloro che in Iran mirano a indebolire il governo Rouhani, tanto più che manca solo un mese a elezioni che potrebbero rafforzarlo?
«Siamo ancora al primo passo, è presto per fare previsioni, ma credo che gli iraniani eviteranno di cadere nella trappola».
L’Arabia Saudita ha compiuto in un anno 157capitazioni pubbliche, esporta la jihad pur affermando di combattere l’Is, secondo Amnesty International usa le condanne a morte come strumento politico contro la minoranza sciita. Quando smetteremo di guardare all’Arabia Saudita come a un partner strategico?
«E’ complicato. Ci sono di mezzo troppi interessi. I sauditi hanno molta influenza, comprano armi, sono coinvolti in tanti affari. La questione è che l’Occidente deve decidere se vuol fare sul serio nella guerra contro l’Is o no. Deve scegliere se focalizzarsi contro il Califfato o contro l’Iran. Le due cose insieme non sono possibili. L’Arabia Saudita fa una politica che giova al sedicente Stato Islamico, e anche tra la popolazione saudita ci sono molte simpatie verso il Califfato. Se fa sul serio nel combattere l’Is l’Occidente deve far pressione sull’Arabia Saudita. Ha a disposizione armi diplomatiche, economiche, può scegliere. Ma finora non ha esercitato la benché minima pressione».
Il nuovo re Salman, con il figlio Mohammed da lui nominato secondo erede al trono, è in carica solo da dieci mesi ma sembra voglia passare alla storia come il nuovo Saladino. C’è una nuova dottrina Salman per l’Arabia Saudita?
«Secondo me è cambiato solo lo stile. Il regno saudita è sempre stato un regno fondamentalista, fondato sull’islam radicale, che ha fornito denaro e ispirazione a tutti i radicalismi. I re sauditi non tengono ad essere chiamati re- ci sono tanti re al mondo. Vogliono essere chiamati “custodi dei luoghi sacri”. Sembra un titolo senza pretese ma la dice lunga su un’idea di potere che va ben oltre i confini del Regno ».
Quale strategia seguono?
«Nei luoghi sacri, la Mecca e Medina, confluiscono i credenti di tutti i continenti, dalla Bosnia all’America, dalla Nigeria alla Malesia. Finora i sauditi usavano il petrolio in silenzio, in silenzio mandavano nel mondo i predicatori wahabiti a diffondere la loro versione radicale dell’islam. Oggi si muovono apertamente. In Egitto finanziano i generali, in Libia Siria e Irak sostengono i ribelli, in Yemen hanno dato avvio a una guerra contro gli Houthi perché li considerano alleati dell’Iran. L‘Iran è il nemico giurato: nessuno quanto i sauditi, forse nemmeno Israele, teme l’egemonia iraniana in Medio Oriente».

Corriere 3.1.16
L’ultima offensiva di Obama contro il partito delle armi
Il presidente uscente prova in extremis a limitare la diffusione di pistole e fucili in Stati come il Texas dove si può girare con la pistola a vista anche nei campus
Ma i margini legislativi e giuridici sono molto ristretti
L’obiettivo è eliminare qualcuno dei 300 milioni di canne da fuoco per 320 milioni di cittadini Domani ci sarà l’incontro con il ministro della Giustizia per discutere l’aumento dei controlli
di Massimo Gaggi


I l Texas che da ieri autorizza i cittadini che hanno registrato le loro armi a portarle bene in vista in una fondina, come nel wild West , sembra la provocatoria risposta di uno Stato ultraconservatore a Barack Obama che, frustrato da tre anni di inutili tentativi sempre respinti dal Congresso, in questo suo ultimo scorcio alla Casa Bianca vuole cercare di porre qualche limite alla diffusione delle armi da fuoco usando i suoi poteri presidenziali.
La realtà è assai più banale. E più drammatica: il Texas è solo l’ultimo arrivato, visto che altri 40 Stati americani già autorizzano, in modi diversi, l’esibizione delle armi da fuoco che si portano in giro. E la legge entrata in vigore due giorni fa è stata varata da tempo con l’opposizione del «partito delle armi» che la considera liberticida: per i «pasdaran» del Secondo emendamento della Costituzione (quello che garantisce agli americani la libertà di armarsi), infatti, nessuna autorità può arrogarsi il diritto di autorizzare o regolamentare il modo di portare con sé un’arma. E l’imposta di bollo che va pagata per ottenere l’autorizzazione viene considerata una vera e propria estorsione dalla «gun lobby» che si propone di ottenere l’abrogazione di questa legge nel nome della piena libertà di chiunque di esibire le sue armi in pubblico.
In effetti questo divieto di esibire le pistole, in vigore nel Texas da ben 140 anni, non si estendeva alle armi a canna lunga. Così alle manifestazioni dei «gun owners» non era infrequente trovare gente che arrivava con fucili a ripetizione e armi d’assalto a tracolla.
Il problema dell’America non è l’esibizione in pubblico delle armi, ma la loro presenza capillare nelle case e, soprattutto, il diffondersi della convinzione che per evitare o limitare le stragi ormai quasi quotidiane in scuole, università, centri commerciali, cinema e altri luoghi pubblici, la risposta giusta sia non la limitazione delle armi ma la loro moltiplicazione. E qui sì che il Texas sta per conquistare un vero primato: in base a una legge varata nei mesi scorsi ma che entrerà in vigore solo ad agosto, questo grande Stato del Sud sarà il primo nel quale studenti e professori potranno liberamente circolare armati nei «campus» universitari, nelle aule e nei dormitori accademici.
Il provvedimento ha sollevato reazioni molto accese tra gli studenti e i docenti di molti atenei che si sono attivati per ripristinare i divieti nelle singole università, ma il procuratore generale dello Stato ha già avvertito che interventi di questo tipo verranno considerati illegali.
È con questa America «dal grilletto facile» e non solo con la «lobby» di costruttori e commercianti di pistole e armi automatiche che Barack Obama deve vedersela in questo suo ultimo, disperato tentativo di eliminare qualche canna da fuoco in un Paese di 320 milioni di abitanti nelle cui case ci sono ormai più di 300 milioni di armi. Il presidente vuole arrivare al suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, quello che pronuncerà davanti al Congresso il 12 gennaio, con un annuncio concreto: un intervento limitativo da adottare basandosi solo sui suoi poteri presidenziali, visto che il Congresso fin qui si è rifiutato di legiferare su questa materia.
Qualunque siano gli espedienti che Obama riuscirà ad escogitale nell’incontro che avrà domani col suo ministero della Giustizia, Loretta Lynch, difficilmente gli interventi che verranno adottati saranno incisivi: si parla di qualche controllo in più da imporre ai grandi rivenditori di armi, ma i giuristi sono al lavoro nel timore che il presidente possa essere messo sotto accusa per abuso di potere.
La verità è che il suo momento è passato: l’unica possibilità di intervenire davvero sul problema delle armi Obama l’ha avuta tre anni fa, dopo la strage nella scuola elementare di Newtown. Ma nemmeno quello «choc» è bastato: pur di portare a casa un qualche risultato, la Casa Bianca allora costruì un provvedimento spuntato, che si limitava a mettere al bando solo le armi da guerra, quelle che possono sparare a raffica grazie a caricatori di grande capacità, mentre per la vendita di tutte le altre introduceva solo qualche controllo in più. Ma in Congresso non passò nemmeno una legge così blanda.
La possibilità di cambiare le cose in questa legislatura è, quindi, prossima allo zero. Tanto più ora, col Paese ormai immerso nell’infuocato clima elettorale. Le cose potrebbero cambiare nella prossima legislatura se alla Casa Bianca andasse Hillary Clinton (probabile) e se i democratici riuscissero a riconquistare la maggioranza al Senato (improbabile). Ma allora Obama sarà già nell’album dei ricordi.

Corriere 3.1.16
Strategie. Riforme, missili e una nuova portaerei È il grande balzo dell’esercito di Xi
Meno soldati e più tecnologia per trasformare la Cina in una potenza globale. E Tokyo si riarma
di Guido Santevecchi


Gli indicatori dell’economia di Pechino sono ancora in calo, ma si sollevano le bandiere dell’Esercito popolare di liberazione. Le prime foto di Xi Jinping pubblicate dall’agenzia Xinhua nel 2016 mostrano il presidente in giacca alla Mao nell’atto di consegnare gli stendardi rossi con stelle gialle a tre nuove unità: il Comando per la sorveglianza e il controllo dell’arsenale missilistico strategico; la Forza di sostegno strategico ai reparti combattenti che si occuperà di guerra tecnologica nello spazio e su Internet; un Comando generale per le unità di terra. Nel discorso, Xi ha citato «il sogno cinese di potenza militare» e ha aggiunto che la riforma in corso entrerà nella storia delle forze armate.
I n questi primi tre anni del suo mandato (che durerà fino al 2022), il presidente si è occupato molto dell’apparato militare. Ha ricordato ai generali che «è il Partito che comanda il fucile»; ne ha purgati per corruzione alcune decine; ha orchestrato nel Mar cinese meridionale una nuova strategia di espansionismo e di confronto con gli Stati Uniti e i suoi alleati; ha ristrutturato e centralizzato la catena di comando. Poi, a settembre in Piazza Tienanmen, durante la gigantesca parata per i 70 anni della Vittoria sul Giappone, Xi ha annunciato che entro il 2017 l’organico dell’Esercito popolare sarà ridotto del 13%, da 2,3 a 2 milioni di militari. Un taglio di 300 mila unità in due anni equivale a una decimazione. La Cina sacrifica una massa di fanti e burocrati in divisa per investire di più in tecnologia bellica. In questi giorni il ministero della Difesa ha annunciato che sono in corso i lavori per la costruzione di una seconda portaerei con tecnologia e concezione cinese. E ha confermato lo sviluppo di un nuovo missile a lungo raggio: il DF-41, i cui test erano stati osservati dall’intelligence Usa. Tra il 2004 e il 2014, secondo calcoli dell’istituto svedese Sipri, la spesa militare cinese annua è cresciuta da 71 a 191 miliardi di dollari in termini reali. Questi bilanci servono le ambizioni di controllo dei mari a Sud e a Est della Cina. A Sud gli strateghi cinesi stanno costruendo isole artificiali per controllare l’arcipelago delle Spratly (ieri il Vietnam ha protestato perché nell’avamposto di Fiery Cross Pechino ha condotto il primo test di atterraggio di un suo jet); a Est contendono ai giapponesi le isole Diaoyu/Senkaku.
Intanto l’economia cinese rallenta. A dicembre l’indice Pmi (Purchasing managers’ index) dell’attività manifatturiera si è fermato a 49,7: un valore sotto 50 significa contrazione; gli analisti di Nomura prevedono che il Pil cinese nel quarto trimestre sia salito solo del 6,4%, in calo rispetto al 6,9 del terzo trimestre e al livello più basso da 25 anni.
E a fronte di questi dati, per limitare il malcontento e le pericolose resistenze al piano di tagli all’organico dell’esercito, il governo vuole che le aziende statali riservino il 5% dei posti di lavoro ai militari che saranno smobilitati. L’industria di Stato però è già in sofferenza, colpita da eccesso di capacità produttiva, sembra difficile che possa trasformarsi in cassa integrazione per 300 mila ex soldati.
C’è anche un altro rischio: che sia proprio il rallentamento economico a suggerire alla leadership di dedicarsi al «sogno cinese di potenza militare moderna». Per oltre trent’anni il partito comunista aveva abituato i cinesi a una crescita vertiginosa del Pil (e del tenore di vita) e ora che fatalmente la macchina frena, potrebbe essere tentato da un’iniezione di nazionalismo e militarismo.
«A lungo la Cina non aveva avuto interessi sul teatro internazionale, Marina, Aeronautica e forze strategiche erano subordinate all’esercito di terra che serviva a controllare il territorio interno», ha detto alla France Presse Ni Lexiong, docente di scienze politiche all’Università di Shanghai. «Ora, per contrastare gli americani e i loro alleati, bisogna modernizzare l’apparato e la potenza di combattimento», ha spiegato il professore.
Contemporaneamente, il Giappone ha appena varato un bilancio record per la difesa: 42 miliardi di dollari di spesa, +1,5% sul 2015 per navi, caccia ed elicotteri. Sentiremo parlare molto di armi ed eserciti nel 2016 nella regione Asia-Pacifico.

Repubblica 3.1.16
Il ritorno dello zar
Tutto il potere a Vladimir Putin
di Paolo Garimberti


Quel giorno il presidente russo era a metà del percorso di un clamoroso come back che lo ha portato alla fine del 2015 a essere, nel bene e nel male, l’uomo cui tutti guardano.
Ci sono tre elementi su cui si basa questo ritorno, suo e della Russia, sulla scena mondiale. Il primo è la sua personalità, la spietata impassibilità, che si traduce in un body language rigido perfino nella camminata. Putin è un giocatore di poker, che bluffa bene, ma soprattutto capisce i bluff degli altri. Nega sempre. In politica, come nel privato. L’invasione dell’Ucraina e l’annessione della Crimea sono tipiche operazioni di maskirovka, di camuffamento, una della grandi specialità dell’arte spionistica e militare russo- sovietica. La prima volta che fu applicata in grande stile fu nel 1983, durante la guerra civile in Libano, nella quale la Siria, già allora grande alleato dell’Urss, era molto coinvolta. Un importante contingente militare sovietico, mascherato da turisti in vacanza, fu trasportato in Siria con una nave da crociera sovietica (per una curiosa coincidenza denominata “Ukraina”), che passò indisturbata sotto gli occhi dei servizi della Nato. I “compagni turisti” di quella crociera sono i padri degli “uomini verdi”, in mimetica ma senza insegne che, nel febbraio del 2014, sono entrati in Ucraina e poi in Crimea, ma che il Cremlino ha sempre negato essere dei militari russi in servizio spacciandoli per milizie locali o addirittura per gang di motociclisti. E la scorsa estate, quando gli Stati Uniti hanno dichiarato che la Russia stava inviando materiale militare alla base aerea di Latakia in Siria, Mosca dichiarò che erano “aiuti umanitari”.
Negare, negare, anche l’evidenza. Anche sulla vita privata. Nessuno ha mai saputo se Putin abbia davvero divorziato dalla moglie Ljudmilla, una tipica matrona russa, ampia di vita e bionda di capelli, vestita con foggia sovietica (che ora vivrebbe in una villa milionaria a Pskov, vicino al confine con l’Estonia). Né se abbia mai sposato Alina Kabaeva, oro nella ginnastica artistica alle Olimpiadi di Atene del 2004, deputata alla Duma dal 2007; o se i due (secondo altre fonti perfino tre) bambini, che secondo alcuni sarebbero figli di Putin, siano invece, come asserisce la fulgida Alina, i nipotini di lei. Il quotidiano Moskovskij Korrespondent, che scrisse per primo della possibile tresca, fu chiuso dopo lo scoop. E il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha messo una pietra tombale sulle voci con una dichiarazione in perfetto stile sovietico: «Non ci sono donne nella vita del presidente. Basta dare un rapido sguardo alla sua agenda per comprendere che non c’è spazio per relazioni familiari nella sua vita».
Il secondo fattore del balzo in avanti di Putin è il gioco di squadra. La maggior parte del gruppo che ruota attorno a lui è costituita da ex ufficiali del Kgb. Ma non solo. La trojka che ha portato la Russia a ridiventare una superpotenza è composta, oltre che dallo stesso Putin, dal ministro della Difesa Sergej Shoigu, che ha tre anni di meno, e dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov, che ne ha due di più. Shoigu è un fedelissimo del presidente, anche se è stato in tutti i governi russi dal 1990 a oggi. Lavrov è un diplomatico di carriera, di padre armeno, con grande esperienza del multilaterale (è stato per anni ambasciatore all’Onu). Putin è un fanatico dell’hockey, la sua squadra-mito è stata la Nazionale sovietica che vinse le Olimpiadi di Sapporo nel 1972. Lì la trojka d’attacco era Maltsev, Firsov e Kharlamov (li chiamavano “gli angeli del ghiaccio” per assonanza con gli “angeli dalla faccia sporca”, Maschio- Angiolillo-Sivori). Erano gli idoli di Putin, allora ventenne. L’anno scorso, il giorno del suo sessantatresimo compleanno, Sergej Shoigu gli portò l’ultimo briefing sui bombardamenti in Siria. Poi andarono a giocare a hockey con la squadra dei soliti amici. Putin segnò sette gol. Shoigu, saggiamente, uno.
Ultimo, ma non meno importante, elemento del ritorno della Russia di Putin è che, per decidere come muoversi sulla scena internazionale (ma anche su quella domestica, ovviamente), non deve confrontarsi con nessuna opposizione vera: né in Parlamento, che ha approvato l’intervento in Siria in cinque minuti, né nei media, soprattutto quelli televisivi, come abbiamo visto. E quelli che l’opposizione vera hanno provato a farla non se la passano bene: Khodorkhovskij, il magnate del petrolio, è in esilio dopo dieci anni di Siberia per una presunta frode fiscale; il blogger-avvocato Navalny passa la maggior parte del tempo agli arresti domiciliari. E l’omicidio di Boris Nemtsov, proprio sotto le mura del Cremlino, è ancora un mistero irrisolto.
Ecco perché bisogna di nuovo fare i conti con la Russia. E perché è più che mai di attualità la famosa definizione di Winston Churchill: «un mistero dentro un enigma». Anzi conviene leggerla per intero quella citazione che risale al 1939 per capire quanto sia pertinente alla Russia di Putin: «Non sono in grado di prevedere come si comporterà la Russia. È un indovinello avvolto in un mistero dentro un enigma. Ma forse c’è una chiave. La chiave è l’interesse nazionale russo». Esattamente quello che Putin persegue. E che lo rende così amato dai russi e così mal sopportato dagli occidentali. Che, dopo la caduta dell’Urss, si erano abituati male. O troppo bene.

NEL MONDO LO AMANO in pochi. E quei pochi non sono tra i più apprezzati dalla comunità internazionale. Per citarne alcuni: l’ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, il presidente kazako Narsultan Nazarbaev e, fino a qualche tempo fa, il presidente turco Recep Erdogan, diventato bersaglio di accuse anche infamanti dopo l’abbattimento di un cacciabombardiere Sukhoi al confine con la Siria.
In patria, invece, lo amano in molti, la stragrande maggioranza dei russi: Vladimir Vladimirovic Putin, sessantatré anni compiuti il 7 ottobre dell’anno scorso, ha il più alto indice di gradimento che un un presidente russo abbia mai avuto. Forse soltanto Stalin lo ha eguagliato quando guidò l’Unione Sovietica nella sconfitta di Hitler; ma allora i sondaggi non esistevano, ovviamente, e neppure l’opinione.
IL CONSENSO DI PUTIN OSCILLA DA ALMENO UN PAIO D’ANNI attorno all’80 per cento ed è ancora salito con l’intervento armato in Ucraina e l’annessione della Crimea, due azioni che lo hanno invece portato al più basso livello di stima internazionale e addirittura alle sanzioni contro la Russia.
L’esatto contrario era accaduto a Mikhail Gorbaciov, molto amato all’estero e pochissimo in patria: la glasnost e la perestrojka piacevano all’Occidente, che accordò un credito quasi illimitato a “Gorby” («Con quest’uomo si possono fare affari», disse la signora Thatcher dopo il primo incontro) mentre i suoi compatrioti lo consideravano piuttosto un pasticcione velleitario. Ricordo ancora lo sorpresa che provai quando, tornato a Mosca dopo diversi anni in cui il visto mi era stato negato, incontrai una vecchia conoscente, che aveva avuto varie vicissitudini familiari sotto il regime brezneviano e che, a un mio accenno a «speranze di democrazia», mi ributtò in faccia: «Ma che cosa è tutto questo bardak (casino) di parole e parole! Quello che conta è che oggi i negozi sono più vuoti che ai tempi di Breznev».
Oggi la maggioranza dei russi attribuisce a Putin il merito di aver ridato alla Russia la dignità internazionale e la fierezza nazionale, perdute non solo con Gorbaciov, ma ancor più con gli “anni dei torbidi” di Boris Eltsin. Arkady Ostrovsky, il Russia editor di The Economist, autore di un libro che ripercorre questi trent’anni di storia ( The Invention of Russia: The Journey from Gorbachev’s Freedom to Putin’s War) ha messo acutamente in evidenza le ragioni, ma anche le contraddizioni, della enorme popolarità di Putin in patria: «Accendete la televisione russa e il Paese che viene fuori dallo schermo è una nuova (o, piuttosto, una restaurata) superpotenza che sfida il tentativo americano di dominare il mondo...». Ma «spegnete la televisione russa e i successi di Putin cominciano a sbiadire...». È vero che l’economia è in recessione, che l’inflazione è attorno al 15 per cento, che i ricchi cercano di portare i loro capitali all’estero e i poveri, o anche la media borghesia (che esiste di nuovo in Russia, dopo essere sparita nell’era sovietica), oggi fa più attenzione, per citare ancora Ostrovsky, «al proprio frigorifero che agli schermi della tv». Ma i russi hanno un’atavica abitudine alla sopportazione e agli stenti e quello che c’è nei frigoriferi o quello che (non) trovano nei negozi in seguito alle sanzioni per l’invasione in Ucraina conta meno del fatto che Putin li ha «rimessi in piedi dopo anni in cui si erano abituati a stare inginocchiati», come dice un conoscente russo molto addentro ai segreti del potere — anche se amabilmente reticente ogni volta gli chieda se abbia un secondo lavoro, oltre a quello ufficiale.
Non è stato un percorso facile, né breve per Vladimir Putin, l’uomo che prese il potere nel 2000 da Eltsin (il quale, ingenuamente, pensava di poterlo controllare e manovrare), finse di cederlo dal 2008 al 2012 al suo fantoccio Medvedev, in omaggio alla Costituzione che ha sempre formalmente rispettato, e lo riprese nel 2012 per potersi auto-celebrare con le Olimpiadi invernali di Soci nel 2014.
Riguardando soltanto gli ultimi quindici mesi, la parabola del presidente russo è passata da un iniziale declino a una sorprendente risalita. Ancora nel novembre 2014, al vertice del G20 a Brisbane, Putin era apparso quasi un reietto, accusato di grossolana violazione del diritto internazionale per l’intervento in Ucraina e sanzionato economicamente; tanto che aveva lasciato il summit in anticipo per sottrarsi a critiche e confronti imbarazzanti. Anche all’incontro di cinquantaquattro capi di Stato e di governo, che si era tenuto a Milano per l’Expo, Putin era riuscito a irritare tutti, arrivando in ritardo al banchetto ufficiale (aveva preferito restare più a lungo a Belgrado, dove era stato trattato con tutti gli onori, anziché rischiare l’esposizione al gelo politico milanese), annullando o spostando incontri bilaterali e cercando comunque di mascherare l’imbarazzo e l’irritazione con l’arroganza.
L’intervento in Siria, preparato con cura e in gran segreto, ha fatto girare la ruota. Al vertice del G20 di Antalya, in Turchia, giusto un anno dopo quello umiliante di Brisbane, Putin è stato l’attore protagonista, battendo i pugni sul tavolo di fronte a coloro che un anno prima li avevano battuti davanti a lui. È stato il momento in cui si è capito che la Russia si sentiva di nuovo una superpotenza e il suo presidente l’ago della bilancia globale nelle molteplici crisi che dilaniano il pianeta. Citando ancora Arkady Ostrovsky, «il power- broker mondiale», l’uomo dell’anno.
Più ancora di Angela Merkel, che, comunque, è proprio il leader mondiale che Putin rispetta di più. Anzi, la teme. Perché conosce i dossier come e meglio di lui (che pure è un pignolo). Perché lei parla russo (appreso nelle scuole della Germania comunista, dove la Merkel è cresciuta) meglio di come lui parla tedesco (imparato a Dresda, dove Putin è stato capo stazione del Kgb). Perché la Cancelliera sa rivolgersi a lui con il tono di una zia che redarguisce il nipote, e non ammette sotterfugi, neppure repliche. Significativo quello che accadde proprio a Milano, durante un multilaterale ristretto sull’Ucraina. Secondo un testimone, a Putin che menava il can per l’aia Angela Merkel si rivolse all’improvviso in russo, con una ramanzina che suonava più o meno così: «Vladimir Vladimirovic, basta con le chiacchiere. Io conosco gli accordi di Minsk e so che cosa è stato fatto e che cosa non è stato fatto».

Repubblica 3.1.16
Ritratto di una nazione
Per una mostra in corso a Londra lo storico inglese Simon Schama ha curato la galleria di personaggi che fecero grande la Gran Bretagna Da Elisabetta I a Winston Churchill qui ne commenta alcuni
di Anna Lombardi


LONDRA SEMBRA L’INCIPIT di un romanzo ma la storia è tutta vera. E che storia: la biografia di una nazione, il ritratto — o in questo caso l’autoritratto — di un intero popolo. “Ogni mattina, per tutti gli anni 30 del 1700, Jonathan Richardson si levò presto e alla luce del giorno nascente, o a quella di una candela o di una lampada, inseguì sul suo stesso volto le tracce del progresso, o del ripiego, della sua condizione morale…”. Avete mai letto una rappresentazione più plastica del significato di un ritratto? Ecco: Simon Schama, cioè lo studioso britannico che giocando sul suo nome ha sempre rivendicato lo “shameless eclecticism”, l’eclettismo senza scrupoli della ricerca storica, di questi ritratti ne ha sfogliati e commentati a decine per inseguire — lui stesso — il progresso e il ripiego, appunto, di un intero popolo: il suo. È così che è nata una curiosa storia d’Inghilterra attraverso i ritratti, quelli conservati nella collezione della National Portrait Gallery. Un’operazione monumentale, che sotto il titolo The Face of Britain — Il volto d’Inghilterra — è declinata con l’eclettismo, anche mediatico, di Schama. Perché non si tratta solo della grande mostra alla Gallery, ma anche di una serie tv in cinque puntate sulla Bbc, oltre che di un enorme libro-catalogo edito da Penguin. Nell’era dei selfie, Schama propone un faccia a faccia con il passato perché — scrive — «i ritratti sono sempre stati realizzati con un occhio alla posterità».
Per visitare la mostra, divisa com’è in cinque sezioni — Potere, Fama, Amore, allo Specchio e Gente comune, ci vuole tempo. Qui Schama ci mostra lo schiavo senegalese Ayuba Suleiman Diallo, il primo africano ad avere un ritratto da “pari”. E ci racconta di quando il fotografo Yousuf Karsh, nel 1941, strappò il sigaro di mano a Winston Churchill: provocandogli quel ghigno ringhioso che lo trasformò nell’icona della lotta al nazismo. Perché il potere, si sa, ha sempre provato ad avere controllo sulla sua immagine: ma solo le immagini meno consuete hanno fatto la storia. Come il ritratto di Margaret Thatcher “rubato” da Helmut Newton: la lady di ferro voleva sorridere a tutti i costi, il maestro la fotografò fino a sfinirla — per ottenere quell’immagine a bocca stretta, così veritiera, che lei detestò sempre.
E come ritrarre invece l’amore? Dopo l’improvvisa morte della moglie Venetia, nel 1633 Sir Kenelm Digby chiamò l’amico pittore Anthony Van Dyck per immortalarla come fosse addormentata: un’abitudine tramandatasi fino a inizio Novecento, quando gli album venivano riempiti di putti cadavere, abbigliati a festa e fintamente dormienti, affinché restassero nel cuore della famiglia. Perché spesso, rincara Schama, il ritratto altro non è che la storia di un’ossessione. Come nei dagherrotipi di Lewis Carroll scattati alla piccola Alice Liddell — la bimba che ispirò il suo Alice nel Paese delle Meraviglie, e che l’autore non avrebbe voluto veder crescere mai. E poi c’è la gente: la gente comune e spesso senza nome. Come le coraggiose coppie miste fotografate negli anni Sessanta da Charlie Phillips a Notting Hill, ma anche i popolani dipinti da William Hogarth a metà Settecento.
«C’è un aspetto della ritrattistica, la storia del suo farsi, la fissità di un certo sguardo raccolto» scrive Schama «che non potrà mai essere ridotta a semplici dati». E che ritrovare oggi, nell’epoca dei selfie e di Snapchat, l’app dove le immagini scompaiono subito dopo essere state viste, forse diventa più importante che mai.

Repubblica 3.1.16
La democrazia per Freud e Kelsen
di Giulio Azzolini

L’anima e lo Stato di Federico Lijoi e Francesco S.Trincia Morcelliana pagg. 288, euro 23
Qual è il legame che ha stretto Hans Kelsen e Sigmund Freud? Nel saggio edito da Morcelliana lo spiegano, con attenzione a testi, critica e storia, Federico Lijoi e Francesco Saverio Trincia.
Nel 1921 Freud invitò Kelsen alla “Società psicoanalitica di Vienna” per una conferenza sul rapporto tra lo Stato e la psicologia delle masse. I due dialogarono su rischi e potenzialità della democrazia. Se in Totem e tabù, i fratelli uccidevano il padre, nella storia erano le masse a voler distruggere le gerarchie aristocratiche. Ma non basta una rivoluzione per fare una democrazia. Il monito freudiano di “educazione alla realtà” e quello kelseniano di “educazione alla democrazia” risuonano preziosi e lontani.

Repubblica 3.1.16
I romantici
I pittori che scoprirono il senso dell’infinito
di Cesare De Seta


VIENNA I fondamenti del Romanticismo sono radicati nell’estetica tedesca: a Jena i fratelli August Wilhelm e Friedrich Schlegel diedero impulso a un vasto movimento. Nel 1798 fondano la rivista Athenaeum, a Dresda s’incontrarono con il poeta Novalis e con il filosofo Friedrich W. Schelling. Gli effetti della compagine romantica furono dirompenti anche nelle arti e gli echi giunsero a Vienna. Un’onda lunga che travolse i modelli classicisti dell’era napoleonica. La mostra Welten der Romantik, a cura di Cornelia Reiter e Klaus A. Schröder, all’Albertina (fino al 21 febbraio) ce ne offre una vasta panoramica: mondi declinati al plurale con oltre 160 opere tra cui figurano i maggiori protagonisti di questa stagione. Molti pezzi sono attinti dalla stessa Albertina che ci accoglie col non gratificante ingresso di Hans Hollein: la mostra è scandita in sezioni, distinte dal verde e blu delle pareti: con alcuni picchi e dando equilibrato rilievo al ritratto, alla pittura di storia e al paesaggio. Quindi si va dal mar Baltico di Caspar David Friedrich alle campagne romane. Intenso il rapporto di fratellanza in Germania e Italia nella tela di Friedrich Overbeck (1828) che simbolicamente raffigura due fanciulle una bruna l’altra bionda; paesi frantumati politicamente e distinti tra un nord protestante e un sud cattolico. La radice cristiana è comune — Overbeck nell’Autoritratto (1809) ci guarda con la Bibbia in mano — ma ciascuno la interpreta a modo suo. Friedrich condusse una vita monacale alla ricerca di paesaggi montani e marini di una natura incontaminata, con poche figure di spalle e crocefissi su cime di montagne: il paesaggio è una simbolizzazione della fede. Gli stessi titoli sono enigmatici: Le tappe della vita (1834) mostra una spiaggia scura con un gruppo in primo piano e al largo, in una rada, cinque velieri immersi in una striscia azzurrina di mare dietro cui si scorge un orizzonte dorato. Rocce e bo- schi deserti, da cui talvolta emergono sottili sagome di cattedrali gotiche tra alti abeti. Carl Blechen dipinge La costruzione del ponte del diavolo (1830) ed è rilevante la lezione di Friedrich. Questi con Otto Runge ha posto di gran rilievo: ma all’ascetismo pietista del primo, corrisponde la religiosità mite del secondo. Runge ebbe una fitta corrispondenza con Goethe e condivise le ricerche sul colore, ma il suo testo teorico
La sfera del colore è in competizione col poeta. I disegni e le incisioni di piante e fiori sono di una sottile finezza per la qualità del tratto, il sereno mondo di Runge prelude all’intimità di una vita estranea ai conflitti dell’animo: Le epoche del giorno (1803) illustrano fiori da cui sbocciano putti (il mattino), scene di maternità (il giorno, la sera), o visioni celestiali con angeli (la notte) e sono contraltare al sentimento della natura di Friedrich. Dal mondo botanico sono attratti Ferdinand Olivier, Franz Theobald Horny e molti altri.
Di assoluto rilievo le cesure in mostra dei contemporanei Francisco Goya e Johann Heinrich Fussli: essi hanno la funzione di offrirci la faccia opposta della temperie romantica. Il pittore aragonese con incisioni tratte dai Disastri della guerra fino al Sogno della ragione genera mostri: immagini strazianti e feroci. Di Goya sgomenta Il colosso, dove la figura giganteggia e scompiglia una carovana terrorizzata. Della tela (116 x 105 cm) del Prado è stata posta in dubbio l’autografia: ma chi che sia il pittore resta un’opera di possente impatto. Di Fussli basta Il Silenzio (1799-1801): una tela dove una figura accovacciata ha il capo reclinato in avanti, incassato tra le ginocchia e le braccia abbandonate. Il corpo e la lunga capigliatura è bianca e spicca sul buio del fondo: il pittore tedesco così perlustra il mistero.
Si diceva della doppia anima del Romanticismo germanico: all’Accademia di Vienna nel 1806 si forma la “Confraternita di San Luca” che si oppone al classicismo accademico e resuscita il mondo medievale e il cristianesimo delle origini: ne sono capofila Franz Pforr e Overbeck che si trasferiscono a Roma nel 1809. Portano capelli lunghi e di qui il nome di Nazareni. I loro ideali di vita sono una religiosa frugalità, studiano il mondo antico e l’arte medievale d’Italia. Vivono nel convento abbandonato di Sant’Isidoro al Pincio. Ad essi si aggiungono Peter Cornelius, Friedrich Shadow, Julius Veit Hans Schnorr von Carolsfeld ed altri. La pittura di storia ha un suo suggello con
L’entrata di Rodolfo d’Asburgo a Basilea (1808-10) e Franz Pforr mostra quale dimestichezza abbia con i grandi cicli affrescati toscani e con quale perizia sappia reinterpretarli. I miti medievali vengono evocati da Carl Philipp Fhor. Friedrich Schinkel, futuro grande costruttore di Berlino, è affascinato dal mondo medievale e dipinge luoghi immaginari con Cattedrale gotica sul mare (1815), mentre i Nazareni perlustrano i dintorni di Roma: a Olevano scoprono la vita campestre e la bellezza muliebre a mo’ di Raffaello, o dipingono temi tratti dal Vecchio e Nuovo Testamento.
La morte di Cecilia (1820) di Johann E. Scheffer von Leonhardshoff, è omaggio al Sanzio. Dunque questi mondi romantici sono molto frastagliati e vanno dal severo pietismo di Friedrich tra montagne, marine e boschi alla rivisitazione del mito asburgico di Fohr, all’arcadia romana.

Repubblica 3.1.16
I tabà del mondo /1
Se dopo il Padre viene uccisa anche la Legge
All’inizio il capofamiglia sedeva sul trono e governava per il suo godimento. Poi i figli presero il potere e il loro rimorso creò le regole-totem del nuovo ordine. Nacque così il patto sociale con il suo tabù: nessuno occuperà in modo arbitrario il trono vuoto. Ora quel vuoto non solo non è riempito ma ha perso ogni significato
di Massimo Recalcati


Il nostro tempo sembra cancellare ogni forma di tabù. La disinibizione e l’assenza di vergogna e di senso di colpa trionfano alla faccia del vecchio uomo del Novecento ancora preso dai grandi dissidi morali tra il bene ed il male, le ragioni individuali e quelle della Storia, il progresso e la tradizione, gli Ideali e la pulsione.
Le lacerazioni tragiche del Novecento hanno lasciato il posto ad un disincanto generalizzato che sembra aver annullato l’esperienza angosciata del tabù. Una vignetta clinica può darci il senso di quello che sta accadendo. È il caso di un giovane che, insieme a dei suoi compagni, nel corso di una rapina, ha ucciso brutalmente un anziano. Nel colloquio in carcere con lo psicologo dichiara che dopo aver commesso il crimine non ha avvertito alcun senso di colpa. La sua giornata è scivolata via come se niente fosse. Ha dormito profondamente, la mattina ha fatto colazione e si è recato normalmente a scuola. Tutto era come prima. Non siamo di fronte alla lacerazione dostoevskijana tra il senso della Legge e la sua trasgressione colpevole. Il delitto non sembra più in rapporto all’esigenza morale del castigo; la colpa non divora il criminale, non lo costringe all’insonnia, non lo tormenta.
Mentre l’uomo dostoevskijano vive il dramma dell’infrazione della Legge, il giovane criminale, dopo aver compiuto il delitto, si reca tranquillamente a scuola ridendo e scherzando con i suoi amici. Egli vive un altro genere di angoscia. Quale? La confida allo psicologo: la vertigine che lo ha assalito il giorno successivo al crimine — dopo essere stato arrestato — scaturisce dalla sensazione della inesistenza della Legge; ovvero, dalla percezione che tutto, senza la Legge, è diventato possibile; anche l’uccisione spietata di un uomo per qualche euro. Diversamente dall’uomo dostoevskijano che sprofonda nell’abisso del senso di colpa di fronte al volto severo e inflessibile della Legge, per questo giovane assassino l’angoscia scaturisce dalla dimensione totalmente inconsistente della Legge.
Siamo di fronte a un’esperienza che rovescia la genesi del tabù così come Freud l’aveva concepita nel 1913 in uno dei suoi testi più visionari qual è Totem e Tabù. In quel libro, sulle orme di Darwin, il padre della psicoanalisi aveva immaginato che la prima forma organizzata di vita umana avesse come protagonista un padre titanico, geloso e crudele, possessore di tutte le donne (il Padre dell’orda), che confondeva arbitrariamente la Legge col proprio godimento. Di fronte a questa tirannia permanente i figli-fratelli, ai quali era proibito l’accesso alle donne, decidono di allearsi uccidendo il padre e divorando il suo corpo in un pasto tribale. Il fatto che i fratelli si cibino delle carni del padre manifesta tutta l’ambivalenza del loro legame al padre: ucciso in quanto oggetto d’odio, ma sbranato in quanto oggetto d’amore affinché la sua potenza illimitata possa essere incorporata dai suoi figli. Il termine “rimorso” trova qui il suo significato più profondo: divorando il corpo del padre temuto ma amato, i figli si sentono morsi dalla colpa. L’esito del rimorso è l’instaurazione del totem: il padre morto continua a vivere sebbene non più nella forma della tirannia capricciosa, ma in quella dell’autorità simbolica incarnata nel totem. La sua morte è, dunque, all’origine del senso stesso della Legge; il totem diviene, al tempo stesso, oggetto di venerazione e di angoscia, commemorando l’assassinio del padre e il rimorso che esso ha suscitato. Da quel momento in poi, si instaura il divieto dell’incesto che obbliga tutti i figli all’esogamia. Il senso della Legge sorge come effetto retroattivo dell’atto parricida: mentre in Edipo il parricidio infrange la Legge conducendo il figlio verso l’abisso dell’incesto e della distruzione, in Totem e Tabù esso genera la Legge. La vita democratica della Comunità si rende possibile solo attraverso il tabù che sorge in seguito all’uccisione del padre. È solo la morte del padre che pretende di essere la Legge, di fare coincidere la Legge con la sua volontà di godimento, a costituire la condizione della nascita di una Legge più umana e della Cultura stessa. Il patto sociale sostituisce il caos della violenza; la pulsione deve sublimarsi nel riconoscimento di una Legge che, trovando il suo fondamento nel padre morto, vale per tutti, non è più Legge ad personam. Nessuno può occupare il posto del padre morto perché si tratta di un posto destinato a rimanere vuoto. I totalitarismi del Novecento e i fondamentalismi di ogni genere mostrano, a rovescio, l’inferno che può generarsi dal suo riempimento fanatico.
Nel nostro tempo il rischio però non è quello di riempire il vuoto lasciato dal padre morto, ma, nella dissoluzione neo-libertina di ogni tabù, di fare venire meno il rispetto verso la Legge. È la vertigine che assale il giovane assassino: non esiste un argine, un limite, una barriera che possa contenere il suo atto. In questo modo l’assenza della Legge sembra diventare l’unica forma della Legge; se tutto diventa possibile, se dopo aver compiuto un crimine efferato tutto resta come prima — senza senso di colpa e senza rimorsi — non sarebbe forse necessario rivalorizzare il tabù come effetto della Legge?

La Stampa 3.1.16
Diario di Anne Frank, scoppia la guerra dei diritti
Dal 1° gennaio è di “pubblico dominio”: sul web e in libreria arrivano le nuove edizioni, ma la Fondazione non ci sta
di Mario Baudino


Il Diario è uscito la prima volta nel ’47 a cura del padre Otto, che aveva tagliato le pagine giudicate troppo intime. Considerandolo coautore, la Fondazione Anne Frank in pubblico dominio solo a 70 anni dalla sua morte, avvenuta nel 1980

Anne Frank quando cominciò a scrivere il suo Diario, nel 1942, non riusciva a immaginare che qualcuno se ne sarebbe potuto interessare, in futuro. Quel libro è invece diventato uno dei simboli dell’Olocausto, uno dei più letti e tradotti in tutto il mondo, la storia di una tredicenne ebrea di origine tedesca che trascorre due anni in clandestinità, chiusa con la propria famiglia e altri compagni in quello che chiamò «l’alloggio segreto», un sottotetto sul retro di una casa di Prinsengracht 263, ad Amsterdam.Il diario
Annotava le sue emozioni e i piccoli fatti quotidiani, la ossimorica «normalità» di un’esistenza che durò due anni, dal 6 luglio 1942 alla cattura da parte dei nazisti e alla deportazione. Solo il padre Otto tornò dai campi di sterminio, e fu lui a diffondere quelle pagine, tagliando le parti che giudicava troppo intime.
Col 1° gennaio, trascorsi 70 anni dalla morte di Anne Frank (nel campo di Bergen Belsen, febbraio 1945) il Diario è diventato di dominio pubblico in base alle leggi sul diritto d’autore. Chiunque può pubblicarlo; in Italia prima di tutti arriva la Newton Compton, ma intanto da ieri il testo ha cominciato a girare sul web. In questo caso non si tratta solo di mettere a disposizione un libro peraltro diffusissimo (e quindi anche «piratabile» senza problemi su Internet), ma di un gesto simbolico e anche polemico.
La Fondazione Anne Frank di Basilea, titolare dei diritti, sostiene infatti che il libro non è affatto di pubblico dominio, perché è opera di due autori: Anne e il padre, che appunto lo editò, trasformandolo in modo sostanziale (tant’è che successivamente è stata pubblicata anche la versione originale). Il copyright vale dunque fino al 2051, a settant’anni dalla morte di Otto, che avvenne nel 1980.
Non è solo una questione legale, e in qualche modo neanche una controversia soltanto economica. È vero che il Diario viene letto in moltissime scuole, e dunque le ristampe possono contare su tirature significative; ma è altrettanto vero che in gioco è anche la possibilità di esercitare un controllo sulle pubblicazioni, tutelare la memoria di quel sorriso adolescente che si spense nell’orrore. Resta il fatto che la rigida difesa del copyright è ormai vista da molti come un ostacolo alla conoscenza.
Arriva così dalla Francia il primo gesto dimostrativo: un docente dell’Università di Nantes, Olivier Ertzscheid, e la parlamentare Isabelle Attard hanno reso disponibili le due versioni del Diario nei loro blog. Ertzscheid lo aveva già fatto qualche mese fa, ma aveva dovuto rimuoverle su istanza dell’editore francese. La Fondazione era al lavoro da tempo su questa strategia, corredandola di adeguati pareri legali. Resta il fatto che quando Otto Frank pubblicò il libro per la prima volta, nel 1947, sottolineò come fosse stato scritto integralmente, tra il 1942 e il 1944, dalla giovane figlia.
Era un’affermazione inesatta? O al padre sfuggiva il fatto di essere divenuto un «coautore», come ora sostengono a Basilea? Questo per la versione risistemata. Ma, almeno a lume di buon senso, quella originale dovrebbe essere in ogni caso esclusa dal prolungamento del copyright. A un certo punto Anne Frank vagheggiò l’idea di trasformare il diario in un vero romanzo, che avrebbe avuto per titolo «L’alloggio segreto»; ma rinunciò, o forse gliene mancò il tempo, lasciando intatto quell’ingenuo e fulminante miracolo di giovinezza. La cosa peggiore, per tutti, sarebbe farne oggi un (cattivo) romanzo legale.

Corriere 3.1.16
ll germe medievale della Camorra
Dai clan napoletani del Trecento alle famiglie criminali di oggi: la tesi di una continuità forte
di Antonio Carioti


A Napoli la criminalità organizzata vera e propria sorge e si afferma nell’Ottocento. Dai primi anni di quel secolo prende infatti le mosse la Storia della camorra di Francesco Barbagallo (Laterza, 2010) e di quel secolo si occupa, concentrandosi sul rapporto tra delinquenza e politica, il saggio La mala setta di Francesco Benigno, uscito di recente da Einaudi. Ma la mentalità assuefatta al potere sanguinario dei clan, sostiene lo storico Amedeo Feniello nel libro Napoli 1343 (Mondadori), ha radici più profonde, si connette a una «struttura di lungo periodo» già pervasiva e opprimente nel Medioevo.
L’autore ha visto in faccia la ferocia camorrista nel 2005, per via della barbara esecuzione di tre giovani assassinati nella notte davanti alla scuola in cui insegnava. Lo colpirono allora il silenzio dei potenziali testimoni, l’indifferenza della politica, l’impotenza delle forze dell’ordine. Poi le sue ricerche sull’età medievale lo hanno indotto a ipotizzare un nesso tra la violenza di oggi e un episodio del passato, avvenuto nell’anno di cui parla il titolo del saggio.
Di che si tratta? Nel novembre 1343, mentre su Napoli incombeva la carestia, alcuni nobili appartenenti a «seggi» (centri d’aggregazione e di gestione dei singoli quartieri) tra i più influenti della città guidarono una spedizione contro una nave genovese carica di carni e frumento. Uccisero il capitano e saccheggiarono le vettovaglie per distribuirle agli affamati, con la sostanziale connivenza delle pubbliche autorità, che anzi in seguito esercitarono un sordo ostruzionismo rispetto alle richieste di giustizia provenienti da Genova.
Può sembrare una vicenda quasi ordinaria nel terribile Trecento, un secolo funestato a più riprese da carestie e pestilenze catastrofiche. Ma Feniello la ricollega all’assetto di governo della città instaurato due secoli prima, dopo la battaglia di Rignano (1137), quando Napoli aveva cessato di essere padrona di un ducato indipendente ed era caduta sotto il dominio dei normanni. È allora, si legge nel libro, che sorge all’ombra del Vesuvio «non un Comune, con le sue assemblee deliberative e i suoi consessi popolari, ma una struttura parcellizzata per aree di competenza controllate da clan, ossia da consorzi a base famigliare che penetrano ogni ganglio della vita cittadina». Un sistema di controllo del territorio che poi si rafforza quando, nella seconda metà del Duecento, con la sconfitta degli svevi (subentrati ai normanni) e l’avvento della dinastia angioina, Napoli viene promossa a capitale di un grande regno.
Alleanze e conflitti, spesso cruenti, tra le consorterie nobiliari, i già ricordati «seggi», segnano così nel profondo la vicenda medievale partenopea. E sedimentano riti, costumi, pregiudizi, specie l’abitudine a gestire in termini personalistici la vita pubblica. Una logica di clan che, secondo Feniello, ha costituto un terreno fertile per l’impianto della camorra, la quale tuttora ne beneficia.
Se davvero la parabola di Napoli presenti fattori di continuità tanto duraturi è ovviamente materia opinabile. Sarebbe comunque opportuno che la tesi di Feniello venisse considerata e discussa dagli addetti ai lavori: anche la storiografia ha il dovere di cercare risposte di fronte a un tessuto sociale lacerato da ferite tanto profonde. Non basta gridare alla dignità offesa quando, per esempio, la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi definisce la presenza della camorra «un dato costitutivo» della vita napoletana.
Tuttavia Feniello non avanza soltanto una proposta interpretativa originale, per certi versi provocatoria, ma offre anche un dettagliato affresco, lungo tre secoli, di una delle realtà più importanti d’Europa. Si occupa di commerci e di urbanistica, indaga le ragioni delle carestie, rievoca guerre e sovrani di varie dinastie. Racconta gli scontri cruenti tra genovesi e pisani, esponenti di repubbliche marinare rivali, sulla piazza partenopea. Utilizza cronache dell’epoca, documenti ufficiali, novelle del Boccaccio. Alla fine il lettore ha imparato parecchio sul passato remoto di Napoli e ha qualche motivo in più per preoccuparsi del suo futuro.
Sarebbe però sbagliato accusare l’autore di alimentare sotto sotto la rassegnazione, attribuendo alla città una sorta di morbo inguaribile. Al contrario in queste pagine, di pari passo con il gusto della ricerca, pulsa la passione civile. Perché l’indignazione serve a poco, se non è accompagnata dalla volontà di riflettere e dallo sforzo di capire.

Corriere 3.1.16
Come visualizzare 8 miliardi di persone
di Danilo Taino


Per iniziare in modo sobrio il 2016 — che probabilmente sarà un altro anno a buona dose di disorientamento — un mio amico matematico ha cercato di capire quale percezione delle proprie dimensioni abbia l’umanità. Ci stiamo avviando verso gli 8 miliardi di abitanti della Terra: un numero che esce di gran lunga dall’esperienza empirica di ciascuno di noi. Voleva provare a ridurlo a qualcosa di percettibile.
Dunque, ha preso un foglio A4 , che misura 21 x 29 centimetri, cioè 609 centimetri quadrati. In ogni centimetro quadrato, ha visto che si possono segnare circa 50 punti con una penna a sfera e ha immaginato che ognuno di questi fosse una persona. In tutto, 30.450 teste per foglio: più o meno il numero medio di spettatori che assistono a una partita di calcio della Fiorentina quando gioca in casa. Ha poi diviso gli otto miliardi di persone per gli abitanti di un foglio e sono risultati 262.725 fogli, che sono quelli che conterebbero l’intera umanità che tra pochi anni popolerà il pianeta. Per avere un’idea dell’altezza raggiunta da questi fogli messi uno sopra all’altro ha diviso il loro numero per 500 , che è quanti ce ne sono in una risma di carta A4. Ne sono risultate 525,5 risme: in ognuna di esse, 15 milioni e 225 mila puntini, cioè persone. Dal momento che una risma è alta cinque centimetri, per contenere tutti gli abitanti della Terra ridotti a puntini servono 26,27 metri di fogli A4 uno sopra l’altro: la lunghezza di un’intera carrozza di Etr 500 (Frecciarossa).
Cosa c’è d’interessante in questo esercizio? Che se togliamo un foglio, cioè il numero di tifosi medi di una partita di calcio a Firenze, la percezione complessiva non cambia minimamente: saremo sempre a 26,27 metri. Nemmeno se togliamo una risma alta cinque centimetri, cioè più di 15 milioni di persone, poco meno degli abitanti di Austria e Svizzera sommati, la differenza è percettibile: si scende a 26,22 metri. Ci sono cioè numeri la cui dimensione in qualche modo riusciamo a comprendere e forse a gestire: con i tifosi della Fiorentina possiamo immaginare di sviluppare un discorso. Ma già meno facile è con gli abitanti di Austria e Svizzera, che fatti uscire dalla risma di carta e riportati a dimensioni reale è difficile immaginare. Figuriamoci gli 8 miliardi : per di più tutti non puntini uguali ma diversi; e in movimento; e in relazione tra loro. Politiche globali? «Mah», dice l’amico matematico .

Corriere La Lettura 3.1.15
La curiosità salverà il mondo
Quando ti metterai in viaggio verso Itaca, dice Kavafis, devi augurarti una lunga strada
Il desiderio di conoscere l’ignoto e il diverso muove la storia e favorisce il dialogo
La civiltà è una macchina che si + alimentata di esplorazioni e scoperte
Non accetta, non può accettare, chiusure e preclusioni
di Edoardo Boncinelli


Bibliografia
Per approfondire i temi affrontati in queste pagine si possono consultare i seguenti volumi: il saggio di Alberto Manguel, Una storia naturale della curiosità (traduzione di Stefano Valenti, Feltrinelli, pagine 416, e 30); Dopo la lirica (Einaudi, 2005)in cui Enrico Testa ha raccolto i testi di più di quaranta tra poeti e poetesse italiani del secondo Novecento; Adonis, Violenza e islam. Conversazioni con Houria Abdelouahed (Guanda, 2015); Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’arte moderna 1770-1970/ L’arte oltre il Duemila (Sansoni, 2002); Martin Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare (Guanda, 2011); Costantino Kavafis, Settantacinque poesie (Einaudi, 1992); Joseph LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni (Baldini & Castoldi, 2014)

Si sente spesso dire «Questo ci salverà», «Solo quello ci può salvare» (anche se non ho mai capito bene da che); ma se c’è una cosa che certamente ci può salvare — non importa da cosa — questa è la curiosità, cioè il desiderio di conoscere realtà nuove e diverse. Tutti gli animali superiori sono curiosi, ma limitatamente alla loro età giovanile; poi la curiosità a poco a poco svanisce. Poiché noi uomini rimaniamo «cuccioli» per una quantità di tempo inusitata, ci comportiamo come gli esseri più curiosi del globo.
Le neuroscienze ci dicono che la curiosità ha la stessa natura di un bisogno o di uno stato di astinenza e il suo soddisfacimento ci procura la gioia di un autentico attingimento, portando dopamina alla corteccia cerebrale, come se avessimo mangiato, bevuto o fatto sesso. Le espressioni pratiche più tangibili di tale curiosità sono rappresentate dalle esplorazioni geografiche e dalla scienza. Dopo aver faticosamente raggiunto la sua Itaca — «Quando ti metterai in viaggio per Itaca/ devi augurarti che la strada sia lunga,/ fertile in avventure e in esperienze», dice il poeta greco Costantino Kavafis — Ulisse si rimette in mare con i suoi vecchi compagni alla volta delle colonne d’Ercole e a sentire Dante dice a quelli: «Non vogliate negar l’esperienza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente».
Per quanto riguarda la scienza di oggi, si sogliono distinguere due tipi principali di ricerca, quella applicata e quella di base, che in inglese viene definita curiosity driven , cioè guidata dalla curiosità, per sottolinearne il carattere di esplorazione non guidata da niente altro che dal desiderio di soddisfare appunto la nostra curiosità. Senza curiosità lo scienziato non si può proprio fare, o verrebbe fatto in maniera fiacca e senza entusiasmo. L’entusiasmo è in effetti spesso il compagno effervescente della curiosità. La curiosità è un istinto esplorativo che ci spinge a cercare cose nuove nei più diversi campi e ambiti, fino al punto di esplorare le profondità del cosmo o i recessi più reconditi della materia, nonché i segreti della nostra mente o le segrete del nostro cuore.
Dalle particelle subatomiche alle galassie più anziane, o alle stelle ancora in formazione, niente è sfuggito alla nostra curiosità. E facciamo di tutto anche per sapere se nell’universo ci sono altre forme di vita, intelligente o vegetativa. Senza pensare che abbiamo certamente vita intelligente su questo pianeta, e che può valere la pena conoscerla. Come succedeva in passato, quando le navi solcavano in lungo e in largo le acque del Mediterraneo e con i loro continui scambi di cose e d’idee, coraggiosi viaggiatori gettavano le fondamenta della nostra stessa civiltà. Quando partirai alla volta di Itaca, dice sempre Kavafis, «devi augurarti che la strada sia lunga./ Che i mattini d’estate siano tanti/ quando nei porti — finalmente e con che gioia —/ toccherai terra tu per la prima volta:/ negli empori fenici indugia e acquista/ madreperle coralli ebano e ambre/ tutta merce fina, anche profumi/ penetranti d’ogni sorta;/ più profumi inebrianti che puoi,/ va in molte città egizie/ impara una quantità di cose dai dotti».
Tale spirito ha accompagnato per anni il cammino dell’uomo e il suo continuo andare e venire per le vie delle spezie o della seta per terra e anche, avventurosamente, per mare. La parola Cina, o China, e le favolose Indie suscitavano negli europei curiosità e incanto, e fino all’inizio del Novecento il desiderio di conoscere costumi e usanze esotiche di altri popoli, da parte di viaggiatori che già si sentivano un po’ annoiati del loro mondo e del loro modo di vedere le cose. Per non parlare dei viaggi d’istruzione e d’iniziazione, come quello famoso che portò Goethe in Italia o quelli di Henry Miller e Ernest Hemingway in Francia e in Spagna.
Il mondo nel frattempo si è fatto piccolo e sovraffollato. Non c’è più, si direbbe, il piacere di incontrare, dopo un lungo solitario cammino, un altro essere umano. Si cerca anzi spesso di fuggire i nostri simili, andando a cercare rotte meno battute e paesaggi quasi incontaminati. Di veramente incontaminato non è rimasto ormai quasi niente, perché gli sciami delle «formichine» umane sono arrivati dappertutto.
Ecco che a poco a poco la curiosità e l’entusiasmo si sono come rovesciati nel loro contrario, la diffidenza e il timore. Il desiderio di conoscere altri popoli e altre culture ha lasciato il campo alle aspirazioni alla chiusura e all’isolamento, e a tentazioni di misoneismo che rasentano la misantropia.
Il poeta siriano Adonis ha il coraggio di affermare che «l’islam è fondato su tre punti essenziali. Primo, il profeta Maometto è il sigillo di tutti i profeti. Secondo, le verità tramandate sono di conseguenza le verità ultime. Terzo, l’individuo, o credente, non può aggiungere né modificare nulla. Deve limitarsi a obbedire ai precetti». Ma anche senza squilli di tromba o toni guasconi, per quante altre confessioni si può escludere che si sia visceralmente convinti di qualcosa di simile? Il problema è che la civiltà è una macchina che si alimenta di esplorazioni e novità. Non accetta, non può accettare, chiusure e preclusioni, altrimenti si smarrisce e si perde. E se ci dovessimo smarrire in viaggio, meglio sarebbe stato non essere mai partiti. Perché nell’universo siamo soli, o quasi. Alla ricerca di un fondamento unico e di un senso.
Forse il viaggio può ripartire dall’arte e nell’arte. Mai come oggi possiamo vedere e apprezzare le opere d’arte di tutto il mondo, e leggere poesie e racconti di scrittori di tutte le nazioni, cosa che una volta non era facile, per un difetto di comunicazione e perché i cittadini di molti Stati del mondo non accedevano al grande circo della letteratura, cioè dell’immanente trascendimento dell’umano. E a parte l’apprezzamento letterario, anche così si può soddisfare la nostra curiosità di vicende umane diverse che ci portino a farci «del mondo esperti e de li vizi umani e del valore». Nella grande diversità delle sue espressioni, l’arte declina comunque un paradigma comune, profondamente e autenticamente umano, per esempio nelle architetture delle parti più diverse del mondo, e nel cinema, la decima musa che ha oscurato e allo stesso tempo riassunto tutte le altre, e che è divenuta una pratica moneta di scambio culturale ed esistenziale tra le genti dei quattro angoli del mondo. Cioè tra esseri umani così vicini e a volte così lontani.
Qualcuno parla di un futuro d’innesti, di piccole protesi o di dispositivi tecnologici, sul corpo umano e sulla psiche a quello associata. Forse l’innesto più promettente è quello di uomini con altri uomini, alla ricerca di un qualcosa di sempre più propriamente umano. Questa, e non altra, deve essere la nostra ricerca delle «radici», per non parlare dell’incontro con l’altra metà del cielo, quel femminile che ci deve ancora mostrare la sua autenticità. Antiquam exquìrite matrem , aveva detto l’oracolo di Delo a Enea, prima che quello si mettesse per mare con tutti i suoi alla ricerca di un nuovo ubi consistam . Cercate l’antica madre. Io, alla mia età, da qualche tempo le mie esplorazioni le conduco sui social network, cogliendo al volo immagini di quadri, di sculture, di palazzi e di chiese, scintillanti versi di poesie e brani di musica. E «m’illumino d’immenso».

Corriere La Lettura 3.1.16
Cieco davanti alla storia : perché l’uomo non capisce che cosa sta per succedereA 91 anni Marc Ferro ripercorre vicende drammatiche (nazismo, Khomeini, Isis...) per indagare l’incapacità di comprendere i segni del tempo
di Marcello Flores


La comprensione del mondo attuale è complicata, difficile, spesso oscura e quasi sempre «opaca». Partendo da questo assunto Marc Ferro, uno dei grandi storici europei, a 91 anni ha deciso di ripercorrere la storia contemporanea attorno alla «cecità» che i contemporanei mostrano di fronte agli avvenimenti e all’incapacità di formulare previsioni che si realizzeranno.
Naturalmente non tutti i grandi eventi furono imprevisti: la Seconda guerra mondiale sembrò a molti inevitabile, anche se vi fu una cecità di massa nel 1938, quando, dopo la conferenza di Monaco che regalò alla Germania la regione cecoslovacca dei Sudeti, il leader francese Daladier venne accolto in trionfo come salvatore della pace, cosa che successe anche a Mussolini e Chamberlain. Churchill previde che dal patto di Monaco sarebbero venuti per l’Inghilterra il disonore e la guerra. Lo stesso Daladier, del resto, alla folla che lo osannava al grido: «La pace! La pace!», rispondeva brutalmente ai vicini «Che coglioni».
Ferro ci ricorda come non possa esistere una scala Richter della prevedibilità della storia. Se la decolonizzazione sembrò a molti inevitabile, il caso dell’Algeria gli appare come la somma di due cecità incrociate. Attorno alla questione algerina, infatti, solo due minoranze dalle sponde opposte del Mediterraneo furono capaci di prefigurare la tragedia, pur sottovalutando la determinazione degli estremisti di entrambe le comunità a non cedere. E fu solo grazie a de Gaulle, amato inizialmente dai coloni che lo chiamarono presto traditore, che prevalse una soluzione solo pochi mesi prima impossibile per la maggior parte dei francesi.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando prevalevano letture della storia di tipo economicista, nel giro di poche settimane vinse un sentimento, il patriottismo. Si trattava di un sentimento primitivo e Ferro ricorda che Croce fece notare che se il socialismo era un ideale, la difesa della terra natale era un istinto.
È soprattutto l’ascesa del nazismo, ancor più di quella del fascismo, a sembrare impossibile ai contemporanei. Quando alla fine del 1932 il partito nazista ha un calo di voti, sono in molti (Maurras e Blum in Francia, da opposte sponde politiche), a ritenere che si tratti del crepuscolo di Hitler. I comunisti ritengono quelli nazisti successi passeggeri cui seguirà un rapido crollo; per loro, anzi, il vero fascismo è la socialdemocrazia e una vittoria della svastica potrebbe accelerare la rivoluzione.
Ferro si domanda, con un occhio interessato anche a oggi: «Ma se il presente fu imprevisto, non è perché il passato fu compreso male?». A partire dal 1919, quando un oratore di ritorno dalla Russia venne fischiato alla Lega dei diritti umani perché raccontava del terrore e della violenza dei bolscevichi anche contro i socialisti, fino agli anni Trenta, quando un autore amato come Gide venne emarginato perché disilluso dal suo viaggio in Unione Sovietica, la credulità degli ammiratori dei soviet riuscì a superare ogni realtà, compreso lo choc nei confronti del patto russo-tedesco. «Come spiegare la fascinazione cieca degli intellettuali per idee e parole estreme, come se le parole e le idee non rinviassero che a parole e non ad atti, a cose?». Il fascino per Stalin e Hitler attrasse anche intellettuali ed élite. Eppure dopo quello di Stalin venne il culto per Castro e Mao (Ferro ricorda l’entusiasmo di Roland Barthes per la Cina nel 1974, malgrado la messa in guardia del sinologo Simon Leys) e nel 1978 Foucault si faceva affascinare da Khomeini perché «forse i soggetti in rivolta contro lo scià sono in cerca di qualcosa che noi abbiamo dimenticato in Europa da tempo: una spiritualità politica».
Tra i grandi eventi imprevisti degli ultimi cinquant’anni Ferro dedica ampio spazio all’apparizione del radicalismo islamico, di Al Qaeda e oggi dell’Isis, un’incomprensione che dura tutt’oggi e che occorre comprendere risalendo almeno alla «crociata che l’Arabia Saudita, sunnita, conduce con gli Stati del Golfo e col Pakistan per aiutare la resistenza afgana», un’alleanza tra integralismo e petrolio. Senza dimenticare l’Iran, dove nel 1971 lo scià Reza Pahlavi evitò di citare l’islam nelle celebrazioni per i 1.500 anni del suo presunto impero e commise un sacrilegio che non gli permise di terminare il decennio al potere. Lo scià vedeva come unici nemici i comunisti, mentre gli occidentali vedevano in Iran solamente una modernizzazione di tipo occidentale vittoriosa. Quando il 31 marzo 1979, nel primo venerdì del ramadan dopo la rivoluzione islamica, i fedeli non si riunirono più in moschea per pregare, ma nell’università, non fu un segno di avanzata del laicismo, come si volle vedere in Francia, ma «al contrario, il primo gesto d’islamizzazione di un luogo profano, segno che fatta la rivoluzione il clero non rientrava più nelle moschee».
Se già «negli anni Sessanta, è chiaro che l’Occidente è del tutto cieco di fronte alla crescita dell’islam», le cose peggiorano in seguito. È da allora che inizia l’islamizzazione della modernità, che Khomeini fa l’elogio dei martiri, che l’Iran diventa la patria degli sciiti, non più di persiani, curdi, tagiki, e influenza sempre più Iraq e Libano, mentre sono gli Stati islamici più integralisti (Arabia Saudita fra tutti) i più attivi nel sistema speculativo mondiale.
Naturalmente non è solo di fronte ai grandi eventi storici che si è stati ciechi in passato e si rischia di esserlo ancora. Sulla «Lettura» del 20 dicembre una bella pagina di visual data mostrava «le migliori previsioni sbagliate della storia», dall’automobile ai viaggi spaziali. Ferro ricorda che nel 1925 il nuovo istituto di demografia appena fondato previde che nel 2100 saremmo stati due miliardi; e nel 1975 in Francia si valutava la speranza di vita nel 2075 a 74 anni, mentre nel 2006 aveva già superato gli 80.
Ferro constata che la coscienza storica sembra aver raggiunto attualmente un grado zero e che spesso la cecità nasce proprio dalla memoria distorta che le società si sono costruite, dalla tendenza alla spiegazione complottistica degli avvenimenti, dalla responsabilità di un’informazione che sembra diventata più importante dell’istruzione nella formazione dei cittadini. E termina ammonendo che «di tutte le forme che ha potuto prendere la cecità delle società sul loro tempo, il risentimento è stato e rimane il fuoco più costante e minaccioso». Non bisogna sbagliare la diagnosi ma non si può nemmeno sbagliare il nemico.

Corriere La Lettura 3.1.15
Neanderthal ci difende dai virus
L’esame del Dna sui fossili mostra che abbiamo ereditato diversi geni da altre specie umane ormai estinte
Spesso sono preziosi ma a volte causano gravi malattie
di Giuseppe Remuzzi


«Davvero si può estrarre il Dna da reperti fossili di uomini vissuti migliaia di anni fa e averne abbastanza e di qualità sufficiente da poterlo studiare?». Se un impertinente e avvertito uomo della strada l’avesse chiesto a un bravo archeologo anche solo cinque anni fa, la risposta sarebbe stata più o meno questa: «No, non si può fare, estrarre Dna da fossili (ossa per esempio) senza contaminarlo con il Dna di adesso è assolutamente impossibile». Nel giro di pochi anni però è cambiato tutto; non solo il Dna si può estrarre e sequenziare con risultati assai affidabili, ma questi studi aprono prospettive inimmaginabili. Grazie al Dna cominciamo a capire chi erano davvero i nostri antenati e che rapporto c’era fra loro e i nostri cugini più prossimi, come si sono spostati da una parte all’altra della Terra e come si sono incrociati fra loro.
Sapere se i Neanderthal in Europa fossero o no i nostri antenati, come si pensava una volta, o se fossero una specie del tutto diversa, che poi è andata estinguendosi per essere sostituita dall’ Homo sapiens , è arduo se pretendi di arrivarci con gli strumenti dell’archeologia classica. Meglio farlo con il Dna: di quello che vien fuori ti puoi fidare molto di più.
Svante Pääbo e i suoi colleghi del Max Planck Institute di Lipsia, in Germania, avevano in mano il Dna di tre donne di Neanderthal e, dopo essersi assicurati che non ci fossero contaminazioni, l’hanno comparato col nostro. Il genoma (l’insieme di tutti i geni contenuti nel Dna del nucleo delle cellule) di Neanderthal è diverso dal nostro, su questo ormai non ci sono più dubbi. Vuol dire che l’uomo moderno non ha niente a che spartire con Neanderthal? Non proprio.
Europei e asiatici hanno un po’ di Dna di Neanderthal, poco (dall’1 al 3 per cento di tutto il Dna), ma c’è. E non basta, gli studi più recenti sul Dna ancestrale hanno potuto stabilire che l’ Homo sapiens si è incrociato con Neanderthal almeno tre volte e che questo dev’essere successo tra 35 mila e 85 mila anni fa in Persia. Inoltre c’è un uomo vissuto in Romania 40 mila anni fa che discendeva direttamente da Neanderthal. Lo studio del genoma ha fatto vedere che in Siberia c’era un altro tipo di uomo, Denisovan (o uomo di Denisova), simile a Neanderthal per certi versi, ma geneticamente lontano.
Esempi così, a contraddire i dettami della morfologia tradizionale, ce ne sono tanti. Ed ecco un esempio clamoroso: i caratteri somatici di un uomo vissuto nello Stato di Washington 8.500 anni fa orientavano verso ascendenti polinesiani o tutt’al più giapponesi, niente a che vedere con le caratteristiche fisiche degli indigeni americani. Così si è sempre pensato che quell’uomo fosse arrivato dalle parti del fiume Colombia, con una delle più antiche migrazioni dall’Asia. Ma dalla sequenza del Dna viene fuori che il suo genoma assomiglia in modo impressionante a quello degli indigeni d’America.
Non solo, ma lo studio del Dna ci sta facendo capire che chi vive in una certa area geografica oggi ha ben poco in comune con quelli che ci vivevano migliaia di anni fa. È il caso di un bambino vissuto in Siberia 24 mila anni fa (Mal’ta boy). Quando si è potuto sequenziare il suo genoma, nel 2013, non si è trovato nessun rapporto col Dna di chi vive oggi nell’Asia centrale. Ci sono analogie invece fra quel bambino e l’uomo di Kennewick, geneticamente vicino agli indigeni d’America (a dimostrazione di come certe popolazioni si siano mosse fra la Paleo-Asia e le Americhe).
C’è un’altra circostanza che ha lasciato di stucco gli archeologi: è stato quando l’analisi del Dna che loro stessi avevano fornito ai genetisti del laboratorio di David Reich a Boston ha dimostrato come i membri delle stirpi Yamnaya delle steppe russe dovessero considerarsi i veri antenati di certe popolazioni germaniche. Questa scoperta era così controcorrente che, sulle prime, gli archeologi non volevano firmare il lavoro di Reich; l’hanno fatto solo dopo essersi convinti che l’analisi del Dna non lasciava dubbi.
Vuol dire che lo studio del Dna sostituirà i metodi dell’archeologia tradizionale? No, non del tutto perlomeno, ma certo darà un contributo fondamentale e rivoluzionerà anche questo campo della scienza, come è già successo per la medicina. Per esempio come siamo arrivati ad essere quello che siamo, a sopravvivere a tutte le difficoltà dell’ambiente in gran parte ostile alla vita? «È per via dell’evoluzione», dirà chi ha la pazienza di leggere queste righe. Giusto, ma per introdurre nel genoma di una popolazione le mutazioni che servono per resistere a certe circostanze sfavorevoli ci vogliono centinaia, quando non migliaia, di generazioni. Ma ci sarebbe una scorciatoia, almeno in teoria: una volta che si arriva in un luogo eventualmente ostile, ci si incrocia con chi vive lì, che i geni favorevoli li ha già (se no non sarebbe sopravvissuto), e così si superano le difficoltà degli ambienti diversi dal tuo. Sembra molto logico. Però, per dimostrare che sia successo davvero e come e quando e per capire fino a che punto l’esserci incrociati con Neanderthal o con l’uomo di Denisova abbia aiutato davvero i nostri antenati a sopravvivere, serviva l’analisi del Dna.
Come hanno fatto certe popolazioni che vivevano molto in alto nel Tibet a sopravvivere in un ambiente così povero di ossigeno? Hanno preso dall’uomo di Desinova un gene — Epas1 — che li aiutava a utilizzare l’ossigeno al meglio e questo gene Neanderthal non ce l’ha, secondo studi appena pubblicati da studiosi di Berkeley, in California. Come ha fatto l’uomo moderno, quando ha cominciato a viaggiare dappertutto, a difendersi da batteri e virus mai incontrati prima? Grazie a Neanderthal. Proprio così, da lui abbiamo preso un certo gene Stat2, che ci difende dai virus e non solo, e poi il gene per interleukina 18, che è coinvolto in processi antiinfiammatori, e abbiamo acquisito una serie di geni (i medici dicono dell’Hla che sta per Human leukocyte antigens ) che allertano il sistema immune della presenza di invasori. Neanderthal, i cui antenati hanno avuto almeno 200 mila anni per adattarsi al freddo e al cielo grigio di gran parte dell’ Europa, ci ha trasmesso anche Bnc2, il gene della pelle bianca che ci consente di sintetizzare più vitamina D. Chi ha popolato l’Europa, ma anche l’America, come appena pubblicato su «Nature Reviews Genetics», si è adattato in fretta alle condizioni sfavorevoli dell’ambiente grazie ai geni di Neanderthal, quelli che proteggono la cute dal perdere acqua per esempio e anche quelli che consentivano di avere più peli per proteggersi dal freddo. Certi geni di Neanderthal proteggono la cute dalle abrasioni: vuol dire che senza un po’ di quel Dna per l’uomo moderno difendersi dalle infezioni sarebbe stato molto più difficile.
Neanderthal ci ha passato solo geni buoni? No affatto, molti messicani e indigeni americani e certe popolazioni dell’Asia hanno preso da lui un gene che li predispone al diabete. È un gene che previene la degradazione dei grassi: a Neanderthal serviva, a noi oggi proprio no. E persino schizofrenia e malattie autoimmuni potrebbero venire da Dna arcaico. Non solo, ma è stato appena pubblicato su «Nature» un lavoro che dimostra come regioni geniche che derivano da Neanderthal favoriscano l’insorgere di lupus eritematoso — una malattia del sistema immune che colpisce soprattutto le giovani donne —, ma anche di altre malattie autoimmuni, cirrosi biliare e malattia di Crohn per esempio.
Certe persone soffrono di disturbi della coagulazione: da dove vengono? Forse dai geni del sistema immune di Neanderthal, che a lui servivano per uscire dall’Africa e potersi adattare ad altri ambienti. Persino l’indulgere o meno al piacere del fumo di sigaretta ci viene forse da Neanderthal e c’è un piccolo mistero nella storia dei rapporti fra Neanderthal e uomo moderno. Il cromosoma X, ricco di geni della fertilità, è povero invece di Dna di Neanderthal, l’opposto di quello che ci si poteva aspettare. Forse chi aveva più Dna di Neanderthal era sterile, o comunque meno fertile, e nell’evoluzione di uomini con materiale genetico di Neanderthal nel cromosoma X si sono perse le tracce.
Ciò non si applica solo ai geni della fertilità: quando un certo gene non serviva o addirittura comprometteva la sopravvivenza della specie — quello del cromosoma X è solo un esempio — lo si eliminava ( biological incompatibility ). E quegli uomini che riuscivano a prendersi il meglio da Neanderthal ed eventualmente da Denisovan e a ignorare il materiale genetico che non serve (o che ti fa stare peggio) erano destinati nel corso dei millenni a prevalere sugli altri. Ma non l’hanno fatto tutti allo stesso modo; perché c’è un po’ più materiale genetico di Neanderthal negli asiatici dell’est, per esempio, che negli europei? Su questo nessuno ha le idee chiare per adesso. La spiegazione più probabile è che l’uomo moderno si sia accoppiato con Neanderthal in più di un’occasione e in aree geografiche diverse.
Una cosa è sicura: più si studia il Dna arcaico, più capiremo come siamo arrivati a vivere dove viviamo e a essere quello che siamo. Sulle migrazioni per esempio dall’Africa, all’Asia, all’America, all’Europa gli archeologi avevano certe idee, presto avremo dati sicuri. «Cambia tutto — ha dichiarato a “Nature” Christina Warriner dell’Università dell’Oklahoma —, poter sequenziare il Dna di individui vissuti 30 mila, 40 mila e anche 50 mila anni fa sarà come riscrivere la preistoria».

Corriere La Lettura 3.1.15
La Terra è una testa: ripartiamo dalla lezione di Tolomeo
di Franco Farinelli


«La Terra è una testa», spiegava al tempo dell’impero romano Tolomeo, egiziano ma l’ultimo dei sapienti greci. Fin d’allora la Terra era, con le parole di Ferecide di Siro, un insieme di forme (di fiumi, di monti, di castelli, di città) ricamate su un mantello addossato sul sottostante corpo della Terra stessa, di fatto inconoscibile appunto perché nascosto in tal modo allo sguardo.
La modernità è finita, circa mezzo secolo fa, quando la velocità del cambiamento delle forme terrestri ha messo in crisi la plausibilità stessa del loro statico disegno, della loro inerte rappresentazione. I ghiacciai che, sciogliendosi per la mutazione del clima, fanno aumentare oggi il livello del mare alterando le linee di costa, mettono allo stesso tempo a nudo terre mai viste: al punto che l’intera geografia dell’Artico è da rifare, perché nuove isole e penisole affiorano, nuove rotte diventano praticabili, nuovi possibili Mediterranei si configurano.
I lineamenti della faccia della Terra cambiano, e una prima curiosità si riferisce ancora all’inventario del loro assetto, alla ricognizione delle loro inedite fattezze. Questo riguarda però la geografia, che non è la descrizione della Terra, ma è la descrizione per cui il mondo viene ridotto alla Terra e la Terra appunto alla sua superficie, sotto la quale si cela tutto il resto. A quest’ultimo la frase di Tolomeo si riferisce, e da essa oggi bisogna ripartire perché, qualsiasi cosa sia la globalizzazione, essa significa prima d’altro il recupero del tridimensionale corpo terrestre: il globo appunto. Ed è in tale senso che la lezione tolemaica va ripresa, nel senso della curiosità circa la natura dei nostri modelli cognitivi, ovvero dei nuovi modelli da approntare con urgenza per tentare di afferrare il nuovo funzionamento del mondo.
Come avvertiva Kant: per capire non bisogna fare la geografia di ciò che si vede, bensì «la geografia dello spazio buio della nostra mente». Dove mente sta appunto per testa e insieme, tolemaicamente, per il globulare, complessivo apparato del nostro pianeta, finalmente riconosciuto per quello che esso è.

Corriere La Lettura 3.1.15
Il limite è il cielo
Il bosone e i suoi fratelli. Rapporto su ciò che troveremo
Nuove particelle subatomiche e onde gravitazionali
Poi bisturi e lenti a contatto /e persino pelle) intelligenti:ma se falliamo qualcosa impariamo lo stesso
di Stefano Gattei


Bibliografia
Al bosone di Higgs, particella della quale si ipotizzava l’esistenza dagli anni Sessanta, ma rilevata solo nel 2012, sono dedicati vari libri: Jim Baggott, Il bosone di Higgs (a cura di Franco Ligabue, Adelphi, 2013); Sean Carroll, La particella alla fine dell’universo (traduzione di Roberto Di Capua, Codice, 2013); Paolo Magliocco, La grande caccia (Pearson, 2013); Dario Menasce, Diavolo di una particella (Hoepli, 2014); Luciano Maiani, Romeo Bassoli, A caccia del bosone di Higgs (Mondadori Università, 2013); Corrado Lamberti,
Il bosone di Higgs (Imprimatur, 2014).
Altri saggi riguardano invece lo studio dei neutrini: Frank Close, Neutrino (traduzione di Luca Guzzardi, Raffaello Cortina, 2012); Ray Jayawardhana, Cacciatori di neutrini (traduzione di Valentina Schettini, Codice, 2014); Lucia Votano, Il fantasma dell’universo (Carocci, 2015). Una veduta d’insieme divulgativa sulle nuove frontiere della fisica è contenuta nel libro di Marco Delmastro Particelle familiari (Laterza, 2014)

«Fare previsioni è difficile, specialmente se riguardano il futuro», recita una vecchia battuta di probabile origine danese, variamente attribuita (fra gli altri, anche al grande fisico Niels Bohr). Le scoperte, scientifiche o di altra natura, sono a volte il frutto di esperimenti mirati, o il prodotto di lunghe e meticolose ricerche. Molto spesso, tuttavia, sono figlie del caso, dell’esito imprevisto di un esperimento, o dell’interazione complessa di svariate cause. Prevederle è di fatto impossibile, ma progressi recenti possono rendere alcune aspettative più plausibili di altre — senza contare che, talvolta, anche la delusione di un’aspettativa costituisce un’importante scoperta. Eccone alcune.
A caccia di particelle
Avuta conferma della validità del Modello Standard (Ms) grazie alla scoperta del «bosone di Higgs» (H°), i fisici delle particelle si stanno ora muovendo in nuove direzioni. La quantità dei dati raccolti negli scorsi anni è enorme, e dev’essere ancora studiata in dettaglio: da una parte, si spera di comprendere meglio H°; dall’altra, di scoprire nuove particelle. Gli esperimenti condotti al Cern di Ginevra, infatti, non hanno rilevato direttamente H°, ma altre particelle in cui questo decade. Gli scienziati stanno ora provando a determinare con precisione in quali intervalli di tempo H° dà luogo ad altre combinazioni di particelle, e in quale percentuale. La presenza di «residui» percentuali, infatti, potrebbe indicare l’esistenza di ulteriori particelle che non siamo ancora in grado di «osservare».
I retroscena del Big Bang
Nonostante i suoi molti successi, Ms presenta vari problemi. Si sa, per esempio, che i neutrini hanno una massa, per quanto piccola, ma in base alla teoria non dovrebbero averne. Lo studio dei neutrini potrebbe condurre a nuove «violazioni» del Ms. La teoria prevede infatti che al momento del Big Bang materia e antimateria fossero in uguale quantità: se così fosse stato, tuttavia, nel «grande scoppio» si sarebbero annichilite reciprocamente, lasciando l’universo vuoto. Così ovviamente non è: da dove viene, dunque, la massa in eccesso, di cui anche noi siamo costituiti? Se neutrini e antineutrini fossero, di fatto, la medesima particella, nelle prime fasi dell’universo i processi di decadimento avrebbero prodotto più materia dell’antimateria presente allora. Sono ora molti gli esperimenti tesi ad accertare questa ipotesi, in particolare quelli denominati Majorana (Stati Uniti) e Sno+ (Canada): si attende presto una risposta.
Terremoti cosmici
Un’altra area della fisica fondamentale in cui potrebbe arrivare presto una nuova esaltante scoperta è quella del rilevamento delle onde gravitazionali, previste dalla teoria generale della relatività di Einstein. La Terra dovrebbe essere immersa nelle onde gravitazionali provenienti da qualunque evento cosmico che perturbi con sufficiente intensità la trama dello spazio-tempo (allo stesso modo in cui le onde sismiche s’irradiano a partire dall’epicentro di un terremoto): l’esplosione di una supernova, per esempio, o la rotazione attorno al proprio asse di una stella di neutroni, o ancora una coppia di buchi neri in rotazione uno attorno all’altro, fino fondersi in un evento catastrofico. Queste diverse possibilità sono studiate da vari gruppi di lavoro: Ligo, in California, si concentra sulle supernovae ; Virgo, in Italia, sulle collisioni fra stelle di neutroni; un gruppo statunitense-europeo-australiano studia invece le pulsar. Altri interferometri sono all’opera in Germania, Giappone e India: la competizione è globale, e si auspica che i risultati arrivino presto.
Radiazioni deviate
La notizia è del settembre scorso: una squadra internazionale di 37 mila ricercatori, professionisti e dilettanti, ha passato al setaccio 430 mila immagini telescopiche per aiutare un gruppo internazionale di studiosi a individuare 29 nuove «lenti gravitazionali». Una lente gravitazionale è un fenomeno caratterizzato dalla deflessione della radiazione emessa da una sorgente luminosa a causa della presenza di una massa posta tra la sorgente e l’osservatore. Oltre a galassie particolarmente massive, anche la materia oscura che le circonda contribuisce a creare tale effetto di distorsione ottica. Le nuove «lenti» ora scoperte, se confermate, si aggiungerebbero alle circa 500 note finora, contribuendo a sciogliere alcuni dei molti misteri che ancora avvolgono questa componente chiave – e sfuggente – del nostro universo.
La frontiera genetica
Crispr è l’acronimo con cui si fa riferimento a segmenti di Dna contenenti brevi sequenze ripetute, scoperti all’interno di cellule procariote; ogni ripetizione è seguita da brevi frammenti di Dna «distanziatore», generato da una precedente esposizione del batterio a virus. Tali sequenze sono in grado di riconoscere e ritagliare elementi estranei della sequenza del Dna, costituendo così una sorta di sistema immunitario acquisito. Per le loro caratteristiche, sono usate nell’ingegneria genetica e nella regolazione genica di molte specie. Le applicazioni — tanto utili e numerose quanto grandi e profonde sono le loro implicazioni di natura etica — sono a portata di mano. Vedremo presto quali saranno i risultati.
All’attacco dell’Alzheimer
Se negli ultimi anni abbiamo fatto notevoli passi in avanti nella cura dei tumori, per l’Alzheimer — e per altre malattie neurodegenerative — i progressi sono stati decisamente minori. Le cose potrebbero presto cambiare, grazie alle ricerche svolte nel quadro di The Brain Initiative, negli Stati Uniti, e The Brain Project, in Europa. Il primo obiettivo è una mappatura del cervello, così da capire dove avviene che cosa: molto è già stato fatto in questa direzione, ma molto resta ancora da fare. Cruciale, poi, sarà trovare un modo per osservare, in tempo reale, ciò che avviene nel cervello, così da individuare che cosa è attivato in un dato momento e come ciò è in grado di determinare un particolare comportamento. La strada è ancora lunga, ma l’Istituto di biotecnologia delle Fiandre ha recentemente individuato un nuovo farmaco che potrebbe dare presto risultati importanti.
Bisturi intelligenti
Se, da un lato, non sono pochi coloro che prevedono nuove categorie di malattie o traumi dovuti all’uso eccessivo di strumenti — in particolare videogiochi — che sfruttano la realtà virtuale, per il nuovo anno ci si aspettano progressi notevoli nel campo della chirurgia, in particolare per quanto riguarda la diagnostica in tempo reale. Se il bisturi elettrico sfrutta una corrente elettrica per incidere i tessuti e ridurre al minimo le perdite di sangue, un nuovo bisturi intelligente (battezzato iKnife, al cui prototipo si lavora già da qualche tempo all’Imperial College di Londra) potrebbe presto essere in grado di analizzare in tempo reale, grazie a uno spettrografo di massa, i residui chimici dell’elettrosutura, così da determinare in modo pressoché istantaneo se, per esempio, nel tessuto inciso fosse presente un tumore maligno.
Il mondo in una lente (a contatto)
Ancora in campo tecnologico: conosciamo da un paio d’anni Google Glass, il programma di ricerca e sviluppo di Google per realizzare (dal 2014 in collaborazione con l’italiana Luxottica) occhiali dotati di realtà aumentata. Il Centro di tecnologia dei microsistemi dell’Università di Gent, in Belgio, ha recentemente sviluppato un innovativo display a cristalli liquidi ricurvo, di dimensioni tali da consentirne l’inserimento in normali lenti a contatto. La sua realizzazione avrebbe enormi ricadute in campo medico e cosmetico. Gli studiosi prevedono infatti di realizzare in tempi brevi lenti a contatto di nuova generazione in grado di controllare la trasmissione della luce verso la retina in caso di iride danneggiato, oppure di sfruttare la lente come vero e proprio schermo di un computer remoto, sovrapponendo un’immagine alla normale visione.
Monitoraggio sottopelle
Se apparecchi di vario genere (speciali orologi, braccialetti, occhiali o anche tessuti di nuova generazione) ci aiutano sempre di più a tenere sotto controllo il nostro fisico, la frontiera è ora data da sensori «digeribili» o, così sottili da essere «indossati» come una seconda pelle. Alcuni prototipi sono già stati testati e si attendono a breve apparecchi più sofisticati, in grado non solo di monitorare parametri vitali, dal battito cardiaco alla temperatura corporea, dai biomarcatori del sangue ai sintomi neurologici, ma anche di trasmettere in tempo reale, 24 ore su 24, i dati a medici e strutture sanitarie computerizzate, riuscendo così ad accorgersi e a intervenire tempestivamente nel caso di un infarto, per esempio, o dell’insorgere di particolari malattie.
La rivoluzione delle batterie
La nostra vita è accompagnata da apparecchi elettronici di ogni tipo, ogni giorno più necessari. La loro crescita in numero e funzionalità è però limitata dall’energia che essi utilizzano. Le aziende produttrici hanno investito molto nella ricerca di un nuovo tipo di batteria, più affidabile, potente e velocemente ricaricabile. Molti gli annunci, ma finora poco è cambiato per il consumatore: i produttori attendono ancora la svolta che rivoluzionerà davvero il mercato. Il 2016 potrebbe essere l’anno decisivo: grazie a batterie di nuova generazione (realizzate con il laser, agli ioni di sodio, a stato solido, indossabili, a base di alluminio e grafite), potrebbero presto essere necessari solo pochi minuti per ricaricare cellulari e automobili, la carica potrebbe durare svariati giorni, e le batterie potrebbero avere dimensioni estremamente contenute. Il tutto grazie alla recente invenzione di nuove stampanti 3D, grazie alle quali, come si legge sul sito del Mit di Boston, the sky is the limit .

Corriere La Lettura 3.1.15
Scoperte
La fortezza greca a Gerusalemme che riscrive l’epopea dei Maccabei
di Livia Capponi


La recente scoperta della cittadella greca, meglio nota come «Acra», nella Città di David a Gerusalemme, è stata definita un «sogno divenuto realtà». La fortezza, costruita dall’esercito di Antioco IV di Siria nel 167 a.C., è descritta dai libri biblici 1 e 2 dei Maccabei e dallo storico ebreo Flavio Giuseppe come il luogo da cui gli occupanti greci dominavano il Tempio, e l’emblema dello scontro fra monoteismo e politeismo. Lo scavo invece mostra che l’Acra non sovrastava il Tempio, e che forse si è preso il racconto biblico troppo alla lettera.
La Bibbia si scaglia contro l’ellenizzazione di Gerusalemme come la causa di tutti i mali, e addita la costruzione di un ginnasio da parte di sacerdoti ellenizzati come la scintilla che portò alla profanazione del Tempio da parte di Antioco, alla sommossa e alla vittoria degli apocalittici sugli integrati. La storica Sylvie Honigman (Tel Aviv University) ha di recente sostenuto che il pur terribile attacco scatenato da Antioco nel 167 non fu una persecuzione contro l’ebraismo, ma la repressione di una rivolta, forse scoppiata dopo la circolazione della falsa notizia della morte del re.
Lo scontro più duro sarebbe stato in seno alle famiglie sacerdotali, che cercavano di prevalere attraverso accordi finanziari con i re di Siria. Infatti, gli stessi Maccabei o Asmonei consolidarono il loro potere trattando con i Greci, e si comportarono poi in modo poco diverso dalle altre monarchie ellenistiche. Il ginnasio non fu rimosso e l’Acra, come si evince dallo scavo, rimase in piedi anche dopo l’indipendenza dalla Siria. Ma nelle cronache dell’epoca la politica è inseparabile dalla religione. Pertanto esse dipingono una «normale» guerra come uno scontro di civiltà.

Corriere La Lettura 3.1.15
Il viaggio sulla Luna ideato a Napoli 8 anni prima di Verne
Creduto perso, il testo è stato ritrovato
di Giovanni Caprara


La Luna da sempre ha portato in volo la fantasia di illustri scrittori e scienziati: Luciano di Samosata nel II secolo a.C. e Dante Alighieri, Ludovico Ariosto e Giovanni Keplero e Cyrano de Bergerac. Ma è nella prima metà dell’Ottocento, nel vento del positivismo filosofico e dello sviluppo tecnologico legato alla rivoluzione industriale, che alcuni sognatori del satellite naturale della Terra iniziano a immaginare i viaggi con le innovazioni necessarie per raggiungerlo.
A Napoli dirigeva dal 1833 l’osservatorio di Capodimonte Ernesto Capocci principe di Belmonte, astronomo di buona cultura letteraria, educato alla scienza delle stelle dallo zio Federico Zuccari che lo aveva preceduto alla guida della Specola partenopea. Capocci nel 1857 scrisse un libricino dal titolo Viaggio alla Luna – Anno 2057: la prima donna nello spazio stampato dalla tipografia di Teodoro Cottrau. Della pubblicazione e della curiosa storia si persero però le tracce tanto che il Dizionario biografico degli italiani lo indica come disperso. È stato soltanto per caso, durante una consultazione, che nella «Busta A 260/11» della Biblioteca nazionale di Bari è comparsa una copia del volumetto che oggi secondo il Catalogo del servizio bibliotecario nazionale è l’unica autentica sopravvissuta. Sulla copertina è impressa la scritta «Dono Cotugno» per ricordare che proveniva da Raffaele Cotugno, nipote dell’illustre medico pugliese settecentesco Domenico Cotugno.
Il ritrovamento e la sua lettura hanno destato interesse per alcuni aspetti del racconto che si ritrovano anche nel famoso romanzo Dalla Terra alla Luna di Jules Verne pubblicato otto anni dopo. Verne conosceva quel testo? Lo aveva letto? Sono proprio questi elementi a suscitare la domanda se non ci fosse stato qualche misterioso filo capace di collegare le due storie e i loro autori.
Il Viaggio alla Luna di Capocci è una sorta di lunga lettera-resoconto inviata da Urania, protagonista della traversata cosmica assieme ad Arturo, il pilota dell’astronave «astronomo artigliere». Con loro viaggia un equipaggio di sei uomini «eterizzati», cioè addormentati con l’etere, durante gli otto giorni del volo. Così non avevano bisogno di mangiare e bere riducendo le riserve nel poco spazio della navicella «ingombro di cronometri, anemometri, termometri, bussole, cannocchiale ecc.». Il ricorso all’eterizzazione è curioso perché anticipa l’idea di ibernare gli astronauti nelle future, lunghe esplorazioni interplanetarie. Ma l’idea che avvicina di più Capocci a Verne è il ricorso al cannone per proiettare la navicella verso l’obiettivo. Lo colloca nelle profondità di un vulcano spento sulle Ande per proteggere in questo modo la navicella dai disturbi atmosferici incontrati nelle prime fasi del decollo. Urania è affascinata dalle nuove tecnologie e sottolinea, ad esempio, «il più grande trionfo della meccanica moderna» rappresentato dalla gomena che unisce il proiettile sparato dal «gran mortaio» alla capsula abitata trascinandola nello spazio vantando doti di «leggerezza, elasticità e forza onde reggere all’immenso impulso» fino a imprimere «una velocità incredibile».
L’impresa è organizzata dalla Compagnia della Luna che molto assomiglia al Gun Club di Baltimora di Verne. Durante il viaggio la navicella «fornita di grandi lastre di cristallo trasparentissimo» permette una stupefacente visione e il racconto, ricco di emozioni, potrebbe essere quello pronunciato dai nostri astronauti. Tra ironie, parole di soddisfazione e qualche inquietudine, Urania arriva sulla Luna descritta nelle sue meraviglie con grande dettaglio. La discesa dell’astronave è aiutata da un paracadute e lo sbarco, dopo il risveglio degli eterizzati, è salutato dagli applausi di una quarantina di esploratori. Erano giunti in precedenti missioni e nelle lande deserte, tra montagne ricoperte di muschi e licheni, avevano insediato in oasi rigogliose le loro colonie.
Ernesto Capocci era un esperto di comete e aveva collaborato alla compilazione di una nuova mappa celeste coordinata dall’Accademia di Berlino. Nel 1836 compì un viaggio scientifico in Europa soggiornando a Parigi, Londra e Bruxelles. Ma è soprattutto nella capitale francese che stringe buoni rapporti con François Arago, astronomo dell’Osservatorio nazionale francese e famoso, oltre che per i suoi contributi scientifici, per l’opera di divulgazione con i libri di Astronomie populaire . Arago e il fratello, esploratore, erano per Verne grandi amici e fonte preziosa di argomenti. Altrettanto intenso si sviluppa il rapporto di Capocci con Arago, del quale traduce e commenta Lezioni di astronomia professate nell’osservatorio di Parigi .
«L’astronomo francese — nota Massimo Della Valle, direttore dell’osservatorio di Capodimonte e appassionato storico dell’astronomia — era certamente a conoscenza del libro dell’amico napoletano e non è difficile immaginare che ne abbia parlato con Verne. Non esistono finora prove che il grande romanziere della fantascienza ne abbia poi tenuto conto nell’ideazione della sua celebre opera, ma non si può certo escludere data la stretta coincidenza di alcune idee». Ernesto Capocci amava scrivere ed era autore di numerose opere di divulgazione scientifica (compresa l’illustrazione della Divina commedia dal punto di vista astronomico) e pure di romanzi storici tradotti a Parigi. Ma rimane anche uno dei primi autori della fantascienza italiana e il suo Viaggio alla Luna è ora meritatamente ristampato da LB Edizioni di Bari.

Corriere La Lettura 3.1.15
Com’è difficile vivere la noia
di Donatella Di Cesare


Nel piccolo aeroporto di provincia il monitor degli orari annuncia il ritardo del nostro volo. Ci guardiamo intorno smarriti. Come passare due ore in quel luogo privo di attrattive? Si può leggere il giornale o prendere un caffè. Diamo un’occhiata all’orologio: è passata solo mezz’ora. Ecco spuntare la noia. Non c’è nulla che ci avvinca. Siamo annoiati, cioè abbandonati a noi stessi. E ci sentiamo come sospesi in un vuoto che ci opprime. Ma può anche capitare di annoiarsi altrimenti. Ad esempio durante un invito a cena. Tutto è di buon gusto; la conversazione amabile, l’atmosfera distesa. Eppure ricordiamo di aver fissato i decori su una parete, di aver giocherellato con il bottone del cardigan. Nell’aeroporto abbiamo tentato di lanciarci contro la noia; durante la serata alla noia ci lasciamo andare con indolenza. Nella prima forma di noia i filosofi antichi hanno scorto una sorta di fastidio, di sofferenza; nella seconda Tommaso d’Aquino ha riconosciuto un torpore che sconfina nell’accidia. Ma esiste una terza forma?
Già Pascal vede nella noia l’alternativa al divertimento e alla perdizione di sé. E se per Kant è il senso cosciente del tempo, per Schopenhauer la noia rivela la nuda esistenza nella sua vacuità. Heidegger elogia una «noia autentica», profonda, dove, proprio perché tutto diviene indifferente, l’esistenza si illumina di nuova luce.
Ma nell’età dell’affaccendamento ininterrotto è raro saper vivere la noia. Ha scritto Benjamin: «Se il sonno è il culmine della distensione fisica, la noia è quello della distensione spirituale. La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza. Il minimo rumore nelle frasche lo mette in fuga. I suoi nidi — le attività intimamente collegate alla noia — sono già scomparsi nelle città, e decadono anche in campagna».

Corriere La Lettura 3.1.15
Don Lorenzo Milani, insegnante
Uscirà a settembre l’edizione nazionale delle opere del prete di Barbiana, morto quasi 50 anni fa
Abbiamo chiesto al presidente del Comitato di raccontare trama filologica e passione civile di testi ancora attuali
Le parole (e le opere) di un ebreo nato artista e diventato sacerdote, esiliato in montagna per le sue posizioni su pace, scuola, obbedienza
di Alberto Melloni


Don Milani trascolora come il Che Guevara che passa sulle magliette di mezza estate senza che chi le indossa abbia alcun interesse per questo predecessore di «Fran-Ché», come diceva una vignetta apparsa durante il viaggio del Papa a Cuba. Don Milani sbiadisce come certe canzoni di Bob Dylan che non sono diventate inni nazionali della raucedine poetica e nuotano in un oblio che ha bisogno di un mediatore o più mediatori (su Desolation Row si sono misurati Fabrizio De André e Francesco De Gregori) per riassaporarne i versi e la musicalità. Don Milani si allontana come il significato che egli dava alla parola «scuola» in quell’Italia neorealista capace di fare dell’istruzione una leva di giustizia e non il nome di un pianeta sindacalizzato a suon di pentole e nel quale l’eroismo individuale di molti si muove d’istinto tentando passi di danza nel suolo difficile di un società slabbrata.
Don Milani anche per questo può sembrare un prêt-à-porter che chiunque può usare per difendersi o per attaccare, massime i pedagogisti con i quali questo ebreo nato artista e diventato prete avrebbe avuto poco di cui discutere, stante l’urgenza esistenziale del suo essere-per . Don Milani può essere chiuso in un sarcofago di buone parole, se del caso pure canonizzato dalla Chiesa che gli diede il Vangelo e le stigmate per capirlo: e il grande applauso liberatorio che ha benedetto l’arcivescovo di Firenze, quando ha fatto il suo nome davanti al Papa, ha segnato non la fine di un risarcimento, ma l’entità della sua portata.
Don Milani è un’eredità contesa, a quasi cinquant’anni dalla morte e a una manciata d’anni dal suo centenario: perché se l’incontro con la sua scrittura ha segnato indelebilmente tutti coloro che ne hanno sentito il fuoco, è del tutto ragionevole che coloro che quel fuoco l’hanno avvertito vivo, nell’affetto e nella forza di questo scultore della parola, ne vivano la custodia come un dovere, anche a costo di finire in una competizione irragionevole come sono quelle fra figli di un unico grande amore. Don Milani è le sue esperienze e quei nomi di luogo — San Donato, Barbiana — e l’angelo di tutte le Barbiane di oggi, da Caivano a Mingara, che condividono il sogno di fare della consegna della parola la leva di un domani diverso.
Don Milani è tutto questo e mille altre cose ancora che una memoria di affetti, di passione, di litigi ha seminato nel tempo che ci separa dalla sua morte, avvenuta il 23 giugno 1967: ma tutte queste cose poggiano su una realtà solida e precisa, più forte d’ogni ricordo e di ogni interesse, di ogni uso o abuso del suo nome, cioè sulla sua «parola scritta».
Per ora ci accontenteremo di chiamarla così l’opera di Lorenzo Milani Comparetti, classe 1923: ragazzino che ha una infanzia milanese solo perché il capofamiglia, le cui rendite sono erose dalla crisi del 1929, deve dedicarsi al lavoro; scolaro non proprio modello, ma che nel coltissimo e raffinato ambiente di famiglia si ritrova a fargli lezione d’italiano, quando le cose vanno male, niente meno che Giorgio Pasquali, padre della filologia e della linguistica nazionali. Nipote del famoso archeologo che scoprì l’Apollo Milani che prende il suo nome, questo piccolo rampollo con il fratello Adriano e la sorella Elena della famiglia materna dei Weiss, non cresce come un ebreo triestino secolarizzato e nemmeno come un cristiano ambrosiano, pur avendo ricevuto un battesimo «razziale» che secondo la madre Alice avrebbe dovuto proteggerlo in un’Europa nella quale l’antisemitismo la fa da padrone. Non imbocca la via accademica, come ci si poteva aspettare secondo la tradizione familiare, ma quella dell’arte e sarà scolaro del pittore Hans J. Staude (quello la cui figlia sposerà Tiziano Terzani), manifestando la capacità di dedicazione che sua madre ricorda di lui. Una capacità di assoluto che manifesta nel 1942 a un prete senza eguali, don Raffaele Bensi, e che lo porta in seminario in una ricerca di assoluto che non accetta compromessi o mediazioni.
Una «indigestione di Cristo» definirà don Bensi la vocazione di don Lorenzo: e una indigestione che quando diventa ministero, a San Donato di Calenzano, si esprime subito in una dimensione che lui chiama «scuola» — ma che è qualcosa di più radicale. È la consegna della parola come strumento di conoscenza e di comunicazione: la parola delle lingue, la parola della musica, la parola della letteratura. Una consegna radicale e assoluta, che entra in urto con l’establishment democristiano e gli costa la rimozione dalla parrocchia dove era cappellano e la nomina quasi beffarda a priore di Barbiana, un buco nero di emarginazione montanara, con bimbi nati dopo la guerra che diventano la sua scuola.
Tra San Donato e Barbiana nasce Esperienze pastorali , la riflessione sulla sua esperienza pastorale che il Sant’Uffizio non riuscirà a condannare, ma di cui imporrà il ritiro dal commercio, incrementandone così la fortuna; a Barbiana nasce una scuola senza vacanze, basata sulla laica autorità di un prete in talare, capace di posporre una catechesi affrettata e devozionale alla formazione di una coscienza critica, capace di pensare che la competizione con la quale qualche improvvisato e attempato solone crede di far crescere la performatività del sistema scolastico è quella fra il maestro e i problemi che ha davanti, non quella fra i problemi che ciascuno degli scolari porta.
Una esperienza che diventa ben presto un caso nazionale, che si rifrange nelle grandi lettere che escono dalla scuola di Barbiana: la lettera ai cappellani militari, la lettera ai giudici, la Lettera a una professoressa , gli scritti che trovano posto nella discussione sui grandi temi che vedono il bisogno di assoluto di questo uomo giovane e bellissimo riversarsi in contenitori sempre nuovi, sfuggendo a ogni possessività e smentendo tutte quelle fondatissime ambizioni di custodia che volta a volta sono state avanzate su don Milani in nome della pedagogia, della storia, della spiritualità dell’azione sociale, del riscatto o della educazione.
Nel 1970 sua madre Alice, in una intervista infastidita a un imbarazzato Nazareno Fabbretti che tenta di farle dire qualcosa di pio, diceva che don Lorenzo «non appartiene a nessuno. Nemmeno a me, soprattutto adesso. Né ai borghesi, né ai liberali, né ai radicali. Capisco che se anche ha dato la sua vita ai ragazzi di San Donato e di Barbiana, non si è “esaurito” nemmeno in loro. (...) Barbiana è un momento della sua vita, come ne fu un momento la difesa degli obiettori, come ne fu un altro momento il confronto violento con la gerarchia. Tutte occasioni per un discorso più ampio e più profondo, un discorso che comincia forse ad essere inteso solo adesso». In realtà quel discorso ampio e profondo è difficile da intendere perché è difficile e richiede uno sforzo maggiore al quale il ministro Dario Franceschini ha dato impulso promuovendo l’edizione nazionale degli scritti di don Milani, sulla quale Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, e Giuseppe Betori, cardinale di Firenze, hanno fatto convergere molte energie intellettuali e morali.
Un’edizione nazionale (che uscirà a settembre) è una specie di riconoscimento pubblico che motiva il massimo impegno di studio e la più grande castità di intenti da parte di tutti coloro che vi sono coinvolti: in questo caso le associazioni e fondazioni che raccolgono i suoi allievi, l’arcidiocesi che custodisce alcune carte essenziali, i famigliari, gli studiosi di diverse istituzioni che hanno convenuto sul fatto che fosse possibile fare una edizione critica di quel che finora è stato letto in due autorevoli formati: quello della editio princeps voluta dallo stesso don Milani che nelle sue edizioni per la Lef di Esperienze pastorali o della Lettera curava ogni dettaglio con attenzione puntigliosa; quello delle edizioni di commercio delle altre lettere, alla mamma o agli scolari, che quando sono uscite avevano ritocchi estrinseci e piccoli tagli legati a personaggi viventi o esigenze di uniformità tipografica naturali in queste edizioni.
Una edizione nazionale, invece, è cosa che ritiene significative e meritevoli di attenzioni le varianti cancellate, le pagine cassate o le righe modificate dopo i consigli ricevuti; è opera di ricerca non per affermare il diritto di sprofessorare su testi di incandescente bellezza, ma per onorarne il dettato con la stessa passione assoluta che ha dato a quel culto della parola la sua forma scritta.
Cosa emergerà dalla edizione nazionale? Federico Ruozzi, Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella, insieme a Valeria Milani Comparetti, José Corzo e tanti altri studiosi che insieme a chi scrive collaborano a questa opera, non hanno scoop nel cassetto: quel che andrà in un grande volume di Meridiani non è un’opera che si qualifichi per qualche riga in più (che c’è), qualche riga letta integralmente (che c’è) o qualche variante che fa capire meglio il senso della frase (che c’è).
L’opera omnia di don Milani infatti non riguarda tanto ciò che un lettore sprovveduto può aggiungere a una conoscenza che non ha, ma ciò che un lettore avvertito può restituire a quest’uomo che ha insegnato da un paesino del crinale che una delle eroine che ha più commosso il mondo degli ultimi anni è una inguaribile pessimista. Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace, dice che «una penna, un libro e un insegnante possono cambiare il mondo». Don Milani ha dimostrato che delle tre cose solo una è indispensabile: l’insegnante.
«E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso». Le parole di don Milani sono riportate in un volume pubblicato da Ancora editrice: La memoria dei luoghi. Sulle tracce di don Lorenzo Milani (pagine 112, e 22). Francesca Cosi (testi) e Alessandra Repossi (immagini) propongono un viaggio fotografico tra i luoghi del sacerdote come appaiono oggi (gli scatti sono del 2013-2015): la casa di Firenze dell’infanzia, il seminario e soprattutto le parrocchie di San Donato a Calenzano e di Barbiana. Luoghi visitati in compagnia degli allievi di don Milani che hanno condiviso con lui l’esperienza della «scuola popolare». Le testimonianze affiancano le immagini in bianco e nero insieme ai testi scritti dal sacerdote e alla ricostruzione della sua vicenda biografica. «Devo tutto quello che so — scriveva in Esperienze pastorali — ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere».

Corriere La Lettura 3.1.15
Il futuro ha un nuovo futuro Il ritorno (rivisto) delle distopie
John Stuart Mill fu il primo a utilizzare il termine (in un dibattito politico)
Samuel Butler fu uno dei primi a esplorarlo come genere narrativo
Poi sono venuti Eugenij Zamjatkin, Kurt Vonnegut e George Orwell
di Fabio Deotto


Quando nel settembre del 2006 uscì nelle sale cinematografiche I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, diversi critici con il pallino della divinazione si profusero in lunghi articoli che decretavano l’impossibilità di resuscitare un filone irrimediabilmente sterile come quello distopico e post-apocalittico. I tempi di James Ballard erano lontani, quelli di George Orwell ancora di più, i detrattori del genere avevano gioco facile a liquidare le distopie di qualità come episodi isolati. E chissà, magari la storia avrebbe dato loro ragione, se solo pochi mesi dopo la commissione del Pulitzer non avesse fatto saltare il tavolo, assegnando il premio per la narrativa a La strada di Cormac McCarthy, un romanzo post-apocalittico firmato da un autore che in quarant’anni di carriera si era tenuto alla larga da qualsivoglia incursione futuristica.
Oggi, nessuno si azzarderebbe a dare per spacciato questo tipo di immaginario, e non tanto perché le librerie vengono regolarmente svuotate da stormi di adolescenti in astinenza da Hunger Games , quanto perché questa frontiera narrativa ha ormai sedotto anche autori che fino a qualche tempo fa la fantascienza non l’avrebbero toccata nemmeno con i guanti da giardiniere.
Se scrittori come Philip K. Dick vedevano in questo genere più una condanna che un trampolino di lancio, oggi la letteratura d’anticipazione (o «prospettica», per dirla con il critico spagnolo Julián Díez) sembra il treno che nessuno può permettersi di perdere. Dave Eggers avrebbe tranquillamente potuto evitare di cimentarsi in una distopia sul lato oscuro dei colossi tecnologici ( Il cerchio gli ha procurato critiche piuttosto pesanti); Michael Chabon, ancora fresco di Pulitzer per Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay , non aveva alcun bisogno di esporsi allo scetticismo dei critici più conservatori con Il sindacato dei poliziotti yiddish ; e di certo non ne aveva bisogno Howard Jacobson che, dopo aver vinto un Man Booker Prize con L’enigma di Finkler , ha virato su J , una distopia a sfondo razziale.
Come spiegare questa fregola autoriale per la fantascienza distopica? Com’è che, dopo decenni nelle retrovie, il futuro prossimo sembra ormai in grado di sedurre anche il pubblico mainstream e le giurie dei premi letterari più quotati? Prima di rispondere è bene ripassare un po’ di storia, perché la parola «distopia» oggi viene adoperata con eccessiva disinvoltura, spesso a sproposito, da chi spera di battere cassa sfruttando la scia di saghe come Divergent e Maze Runner .
In realtà il termine nasce come contrario di «utopia» e viene utilizzato per la prima volta nel 1868 dal filosofo e deputato britannico John Stuart Mill, per criticare il governo in un dibattito in Parlamento sulla questione irlandese. L’utopia è l’orizzonte perfetto, un modello politico, sociale e religioso in cui ogni ingranaggio si incastra alla perfezione; per contro, la distopia è il luogo in cui i problemi già presenti nella realtà odierna hanno raggiunto un ipotetico estremo. Se il concetto di utopia è funzionale a riflessioni di tipo politico o filosofico, quello di distopia racchiude enormi potenzialità narrative.
Uno dei primi a rendersene conto è Samuel Butler, che nel 1872, nel romanzo Erewhon , descrive una società in cui la malattia è un crimine punito dalla legge, mentre il furto è un sintomo patologico da trattare a livello medico. Perché la distopia cominci a imporsi come genere letterario a sé stante, tuttavia, bisogna aspettare la prima metà del XX secolo, quando lo scrittore russo Evgenij Zamjatin scrive Noi , un romanzo ambientato in una società futura in cui la vita dei cittadini segue rigide regole matematiche e il libero arbitrio è sostanzialmente abolito (una chiara trasfigurazione del totalitarismo comunista). L’intuizione di Zamjatin è così potente che il manoscritto, terminato nel 1921, sarà il primo ad essere bandito dalla censura sovietica. Verrà pubblicato nel 1924, negli Stati Uniti, e la sua influenza sarà tale da ispirare alcune delle opere più significative del secolo scorso, come Piano meccanico di Kurt Vonnegut, Il mondo nuovo di Aldous Huxley e, naturalmente, 1984 di George Orwell.
Se tanti autori mostravano un debole per questo tipo di impostazione narrativa i motivi erano tendenzialmente due: da un lato una cornice distopica consentiva di disancorare la narrazione da riferimenti troppo identificabili, gettando un punto di vista inedito su questioni e tematiche che, se affrontate in maniera realistica, avrebbero polarizzato l’opinione del lettore; dall’altro creava le condizioni per portare a galla, esacerbandole, le problematiche che pregiudicavano il corretto funzionamento della società.
Rispetto a questa tradizione, le distopie letterarie più recenti compiono un ulteriore passo in avanti, sfruttando un contesto più o meno catastrofico per accelerare gli esiti di una crisi reale e duratura, ripulendo così la lavagna da un’equazione socio-economica che in molti hanno rinunciato a risolvere. Basti pensare al nuovo romanzo di Margaret Atwood, The Heart Goes Last , in cui la temperatura della crisi immobiliare raggiunge un livello tale da indurre diverse famiglie a trascorrere volontariamente del tempo in carcere.
Un’altra novità significativa è che in queste opere l’ambientazione futuristica non è quasi mai preponderante, spesso e volentieri viene utilizzata come contraltare per raccontare il presente, o il passato. È il caso di Emily St. John Mandel, che nel suo Stazione Undici (finalista al National Book Award e pubblicato in Italia da Bompiani) racconta una società devastata da una pandemia influenzale che ha spazzato via il solito 99% della popolazione. A differenza del tipico romanzo post-apocalittico, però, una buona metà di Stazione Undici è ambientata negli anni precedenti al collasso. Se in un capitolo il lettore segue le vicende di alcuni personaggi legati al mondo dello show business , in quello successivo li ritrova vent’anni dopo lo scoppio della pandemia, in un mondo dove l’elettricità è scomparsa, ma Shakespeare sopravvive negli spettacoli di una compagnia teatrale itinerante. Questo fare continuamente avanti e indietro consente a Mandel di raccontare un mondo ossessionato dalla fama e dall’immortalità artistica con un approccio del tutto inedito: la componente apocalittica non è più il centro della narrazione, ne è il baricentro; passato e futuro sono amalgamati in un unico intreccio, quasi non fosse possibile inquadrare bene il presente senza utilizzare due diverse posizioni di osservazione.
L’utilizzo duttile che Emily St. John Mandel fa della componente temporale ricorda l’approccio adottato da Jennifer Egan in Il tempo è un bastardo , e dice molto della direzione imboccata dalle nuove distopie letterarie. In queste opere infatti la cornice fantascientifica non è più blindata e totalizzante, è piuttosto una struttura aperta, accessoria, uno strumento narrativo che può essere utilizzato quando serve, senza che il contesto penalizzi le ambizioni e il respiro dell’intera opera.
Nel novembre del 2014, la National Book Foundation ha assegnato la sua ambita Medal for Distinguished Contribution to American Letters a Ursula K. Le Guin. Al momento della premiazione, l’autrice americana ha voluto condividere l’onorificenza con «tutti i colleghi autori di fantasy e fantascienza che negli ultimi cinquant’anni sono rimasti a guardare mentre i premi più belli andavano ai cosiddetti realisti». Per poi aggiungere: «Ci aspettano tempi difficili, e avremo bisogno delle voci di scrittori che riescano a scorgere alternative al nostro attuale modo di vivere, realisti di una realtà più grande».
Quello che ad alcuni può sembrare un convenzionale tributo a una categoria di colleghi, per molti altri è il definitivo coronamento di un processo di emancipazione durato decenni.

Corriere La Lettura 3.1.15
L’analisi di Bori
E Freud propose un Mosè liberale
di Marco Rizzi


L’ultima opera di Sigmund Freud è L’uomo Mosè e la religione monoteistica . Il padre della psicoanalisi sottrae Mosè all’ebraismo e ne fa un principe egizio, che trasferisce al popolo d’Israele il concetto di monoteismo, elaborato dal faraone Akhenaton, e si pone alla sua guida. Viene però ucciso dal suo popolo di adozione e sostituito da un omonimo: nasce così il dualismo — tra sacerdoti e profeti, tra Yahweh e Adonài — che percorre la storia ebraica sino alla dicotomia tra legge e grazia di Paolo. Per Freud, il parricidio commesso dagli ebrei nei confronti di Mosè sta alla base della forza del fenomeno religioso, che rappresenta a livello sociale ciò che nell’inconscio individuale è il ritorno del rimosso. Pier Cesare Bori, scomparso nel 2012, curò l’edizione italiana del saggio di Freud per Boringhieri nel 1977. Vent’anni dopo tenne una relazione, ora ripubblicata a cura di Gianmaria Zamagni ( È una storia vera? Le tesi storiche dell’uomo Mosè e la religione monoteistica di Sigmund Freud , Castelvecchi, pp. 48, e 6), in cui condensa il significato più duraturo dello scritto freudiano: la prospettiva di una religione liberale, priva di immagini e fondata solo sulla verità e sulla giustizia.

Il Sole Domenica 3.1.16
Storia della medicina
Un bravo medico d’Egitto (antico)
di Gilberto Corbellini


Il rapporto che l’occidente tende a instaurare con l’Egitto antico è ambivalente. In realtà parliamo di una storia che si trascinava appresso esperienze culturali, quindi pratiche e speculative, accumulate nel corso di 20mila anni di cambiamenti adattativi che le popolazioni di cacciatori-raccoglitori e orticoltori avevano sperimentato prima di essere costrette, dai cambiamenti ecologici che interessarono le regioni sahariane, a scoprire i vantaggi demografici ed economici di stabilirsi lungo la Valle del Nilo per sfruttarne il potenziale di fertilità dei terreni. Una visione profonda della storia umana, che tenga conto del fatto che prima dell’età moderna in 1000 anni si susseguivano rapidamente oltre 50 generazioni, le quali si applicavano incessantemente e intelligentemente alla soluzione di problemi pratici tra i quali c’erano anche la spiegazione e il controllo delle malattie e del dolore, aiuterebbe a capire come vi fossero tempo e modi perché non poche importanti scoperte e isole di conoscenza avanzata si creassero e trasmettessero, almeno dopo all’invenzione della scrittura. Del resto dal 2500 al 500 pev, la popolazione crebbe dal 30milioni a 130 milioni.
Il libro che Paola Cosmacini ha dedicato alle conoscenze che la medicina egizia ha elaborato e trasmesso a quella greca, dalla quale discende la nostra medicina scientifica, è sorprendente per chi si sia finora limitato a un esame superficiale dell’argomento. In un libro magistralmente scritto, intelligentemente costruito e documentatissimo, ma non appesantito da apparati bibliografici sterminati, l’autrice dimostra che “la nostra medicina non nasce da, ma passa per Ippocrate”.
Tradizionalmente tutte le medicine pre-ippocratiche, inclusa quella egizia, sono ritenuta preternaturale, dove cioè gli elementi che concorrono alla salute e alla malattia sono collocati in una dimensione religiosa-morale o magica. Ippocrate, si dice, avrebbe riportato la malattia nel mondo terreno, adottando diverse strategie, che Paola Cosmacini in buona parte ritrova negli scritti medici egizi, in particolare nei papiri Ebers (1550 pev) e Edwin Smith (1600 pev). Per esempio gli elementi della dottrina umorale ippocratica derivano da alcune condizioni patologiche, come le infezioni intestinali, dalle quali i medici egizi ricavavano l’idea di una decomposizione in corso che alterava l’equilibrio del corpo. Gli egizi avevano anche sviluppato l’idea di “mal’aere”, dovuto a cadaveri in decomposizione. Le stesse malattie caratteristiche di quelle popolazioni, cioè prevalentemente infettive, si manifestavano con segni clinici tipici, in particolare quelle acute, ovvero con cambiamenti di colore della pelle, o con cambiamenti di colore dei liquidi, per cui i sensi erano già il principale strumento per riconoscerle e fare una prognosi o indicare trattamenti.
Anche il concetto funzionale della salute e della malattia, intese come armonia/equilibrio e disarmonia/disequilibrio riconducibili in occidente ad Alcmeone e poi a Ippocrate, esistevano nella teoria medica egizia e avevano anche in quel caso una radice metaforica nell’idea politico del funzionamento sociale. La dea Maat sovrintendeva all’ordine in generale, che coincideva con la salute, mentre Isefet, era la negazione dell’ordine e la causa di iniquità: quindi ordine significava salute, e la salute si configurava come uno stato di armonioso equilibrio con il tutto; viceversa la malattia era un’alterazione di questo equilibrio. L’idea funzionale della malattia rappresenta, nella storia del pensiero medico, un avanzamento naturalistico o biologicamente più coerente nella spiegazione delle cause della salute e della malattie, rispetto alle idee di tipo ontologico (la malattia reificata in un oggetto o in un essere).
Che la medicina egizia non avesse una nomenclatura e nosografia, e che passasse dai sintomi alla prognosi all’eventuale trattamento (senza diagnosi) è coerente con il fatto che coltivava un’idea funzionale della salute e della malattia. Così come è coerente con tale idea, l’enfasi sui fattori esogeni quali cause di malattie, e l’insistenza su igiene e prevenzione. Il carattere fondamentalmente predittivo dei giudizi espressi dai medici egizi, “io potrò guarirlo” o “io non potrò fare niente”, riflette a sua volta sia l’importanza che viene data all’esperienza sia la necessità di legare questo sapere empirico a una sorta di sentenza oracolare.
Nel libro di Paola Cosmacini vi sono interessanti riflessioni sui rapporti tra magia e religione, e viene confutato il luogo comune che la medicina egizia fosse costituita solo di una componente magico-rituale. “La religione – scrive – permetteva al medico egizio di esercitare la sua arte naturalmente, in base all’idea tutta egizia della continuità naturale della vita con la morte”. E sul fronte della magia si esploravano pratiche ancora legate alla tradizione sciamanica, ma perfezionate, che permettevano di ottenere qualche beneficio per il paziente attraverso gli effetti placebo o l’uso di principi attivi naturali scoperti casualmente.
Nel medico egizio si trovano già le due componenti, razionale ed relazionale, della funzione del medico. Quella razionale si collegava alle pratiche magiche, che hanno sempre una componente procedurale, ovvero si confrontano e cambiano in base all’osservazione degli effetti. Mentre la dimensione relazionale scaturiva dalla radice del termine con cui era denominato il medico, cioè “sunu” o “colui che appartiene a chi soffre, che “si sintonizza” con il paziente. E qui Paola Cosmacini riconosce le origini di una tradizione del pensiero medico che predicherà sempre simpatia, oggi detta empatia, nei riguardi del paziente.
Nei testi medici egizi il cuore svolgeva un ruolo fisiologico centrale e l’autrice sottolinea come i medici di quell’epoca già parlino di “esaminare” e misurare” riferito all’accessibilità delle pulsazioni periferiche del cuore, per ricavarne indicazioni cliniche. Un’idea che sarà meglio sviluppate ad Alessandria d’Egitto intorno al 280 pev con le ricerche medico-fisiologiche di Erofilo.
Paola Cosmacini, Il medico d’oggi è nato in Egitto. Alle origini del pensiero medico moderno , Piccin, Padova, pagg. 148, € 20,00

Il Sole Domenica 3.1.16
Oltre le due culture
Una nuova idea di scienza
di Lamberto Maffei


Risulta da indagini statistiche ripetute per vari anni che i giovani, per i loro studi e in particolare per la scelta universitaria, sono sempre meno attratti verso le materie scientifiche di base come la matematica, la fisica, la chimica e in parte anche la biologia, in favore di discipline più applicative come l’informatica, le comunicazioni e l’economia. La spiegazione che normalmente viene data è che le prime presentano impegno di studio e difficoltà di apprendimento maggiori e che comparativamente non offrono migliori opportunità di lavoro.
Anche io penso che in questa spiegazione ci sia del vero, ma nel dubbio che sempre si impone nell’impostare qualsiasi ragionamento, mi domando se questa sia la sola causa. Se si va indietro di qualche decennio ci si imbatte in una generazione che nutriva un’ammirazione perfino eccessiva - c on la conseguente accettazione -, per il metodo di indagine scientifica proprio della fisica che pretende di descrivere la natura con leggi formali che ne rivelino le verità ultime.
Questo intendeva Galileo quando quattrocento anni fa scriveva che la natura è scritta in lingua matematica e ancor oggi i modelli fisici appaiono al grande pubblico, anche acculturato, come verità definitive.
Ma è proprio così? Per quanto riguarda la biologia sono molto scettico in quanto, in questo ambito, giocano ruoli essenziali numerose variabili imprevedibili con alti livelli di rumore e di conseguenza le leggi che possono matematicamente predire il comportamento di un dato fenomeno sono assai rare o forse non esistono affatto. Il mondo biologico, ma direi tutta la natura, è in continua evoluzione, con cambiamenti a causa dei quali è quasi impossibile trovare leggi formali attendibili se non per tempi circoscritti: si pensi ad esempio al cambiamento climatico. Si potrebbe pensare che il giovane, consciamente o inconsciamente sia diventato consapevole che la ricerca delle verità ultime in un mondo in divenire non è poi intellettualmente così attraente e stimolante (si veda, per approfondimenti, il Simbionte di Giuseppe Longo, Melteni 2003)
Il premio Nobel della fisica (1932) Heisenberg, nel suo saggio sul ruolo della fisica (Die Naturbild der heutigen Physik, 1953 ) scriveva che la conoscenza avanzava salendo una scala formata da scalini alternati di tecnologia, cioè di ricerca applicata, e di scienza, cioè di ricerca pura. Nelle neuroscienze, campo in cui ho svolto tutto il mio lavoro scientifico, questa affermazione era facilmente verificabile: ad esempio le scoperte sulla trasmissione elettrica nel sistema nervoso avevano avuto un apporto sostanziale dall’avanzamento tecnologico e dalla messa a punto di strumenti sempre più sofisticati.
Ora però i tempi sono cambiati e lo scalino della tecnologia, per usare la metafora di Heisenberg, è diventato molto più grande e importante di quello della ricerca; ciò è avvenuto principalmente sotto la spinta di ragioni di mercato e quindi economiche, mentre per le stesse ragioni la ricerca di base è stata trascurata in quanto comporta investimenti notevoli che forse daranno risultati in un futuro non precisabile.
In un mondo che corre velocemente, l’applicazione rapida di un programma o di un’idea è diventata dominante ed è cogente la possibilità di vederne un uso immediato e i vantaggi economici. La capacità rivoluzionaria e l’eleganza di nuovi modelli teorici o la loro ricaduta sulla formazione e in generale sulla civiltà sono, velatamente, ma talvolta anche apertamente, considerate di secondaria importanza. Come in passato la legge formale che descriveva un fenomeno naturale era assunta a fine del lavoro del pensiero, così oggi è l’applicazione il traguardo, il risultato che sancisce la bontà e il successo del percorso seguito, in un certo senso la sua verità. Si potrebbe concludere che alla grande fascinazione esercitata dal metodo conoscitivo della fisica, si sia sostituita quella del metodo conoscitivo che mira all’applicazione. Ritengo che il giovane, prima dell’anziano, abbia assorbito questa nuova epistemologia, ed è quindi portato a trascurare indirizzi scientifici che ritiene obsoleti. Il giovane vive il suo tempo, la sua cultura, ed io, posso non esser d’accordo con lui, ma vedo le sue ragioni e riconosco che proprio noi anziani abbiamo creato le condizioni per il prevalere di questa nuova idea di scienza non priva di pesanti implicazioni culturali.

Il Sole Domenica 3.1.16
Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646 - 1716)
L’ultimo genio universale
È una splendida biografia quella scritta da Maria Rosa Antognazza sul poliedrico filosofo, matematico, fisico diplomatico
di Franco Giudice


Scrivere una biografia è impresa quanto mai ardua. Se non altro per la necessità di riassumere nello spazio ragionevole di un libro la storia di una vita che, oltre a essere inafferrabile per definizione, è stata ovviamente sempre molto più complessa e variegata di qualsiasi resoconto. Senza questa consapevolezza, che implica scelte selettive e inevitabili omissioni, il biografo farebbe la stessa inutile fatica di quei cartografi descritti da Borges che, dovendo tracciare la mappa dell’impero, ne realizzarono una le cui dimensioni coincidevano puntualmente con esso.
Non è però semplice trovare il giusto equilibrio tra l’aspirazione alla completezza e il vincolo della sintesi. E se questo vale per le biografie in generale, per alcune vale ancor di più. Soprattutto quando si tratta di personalità fuori dal comune e straordinariamente poliedriche, come nel caso di Gottfried Wilhelm Leibniz. Ma è proprio ciò che è riuscita a fare Maria Rosa Antognazza, offrendocene appunto un superbo e pionieristico ritratto a tutto tondo. Pubblicato in inglese nel 2009 da Cambridge University Press, il suo libro ha anche il pregio di essere avvincente e di godibile lettura, qualità ben rese dalla traduzione italiana di Stefano Di Bella.
La sfida con cui si è cimentata Antognazza era davvero immane. Leibniz fu uno dei maggiori protagonisti della vita culturale europea del Seicento, un genio versatile che conseguì risultati sostanziali e durevoli in molte e diverse aree del sapere: dalla filosofia alla matematica, dalla fisica all’astronomia, dalla storia alla linguistica, dall’etica alla teologia. Ma fu anche un diplomatico, un ingegnere, un bibliotecario, un promotore di società scientifiche, un uomo di corte impegnato in una serie incredibile di questioni politiche, amministrative e tecnologiche. L’intensa corrispondenza che intrattenne con mecenati e intellettuali, sia europei sia di paesi lontani come la Russia e la Cina, è così ampia da non avere forse eguali tra i suoi contemporanei.
Un ulteriore elemento di complicazione proviene poi dalle sue stesse opere. Quelle da lui pubblicate rappresentano soltanto una piccolissima parte della sua produzione intellettuale. Che si è rivelata, alla luce dei manoscritti che ci ha lasciato, davvero sterminata: «una massa di migliaia e migliaia di lettere e di centinaia e centinaia di abbozzi di trattati, frammenti, schizzi, annotazioni». Basti pensare che, una volta ultimata, l’edizione integrale delle sue opere, avviata nel 1923 e tuttora in corso, sarà costituita da ben 120 volumi.
Si può dunque comprendere perché i molteplici interessi di Leibniz, insieme alle difficoltà oggettive di maneggiare una mole così imponente di testi, abbiano quasi inevitabilmente finito per favorirne un approccio settoriale. Che iniziò già nel 1717, un anno dopo la sua morte, con l’Éloge scritto da Fontenelle per l’Académie Royale des Sciences, di cui era segretario. Preoccupato infatti di non riuscire a trattare in una narrazione biografica unitaria i diversi contributi di Leibniz alla filosofia e alle altre scienze, Fontenelle decise di analizzarli separatamente, abbandonando «l’abituale ordine cronologico» e seguendone uno tematico. Da lì in avanti il corpus degli scritti leibniziani è stato via via suddiviso «tra un esercito di studiosi in rappresentanza dell’intera enciclopedia del sapere».
Questo approccio ha portato non solo al frazionamento del sistema intellettuale di Leibniz, ma anche a privilegiare alcune sue componenti a discapito di altre. Certo, molti studi recenti hanno l’indubbio merito di aver chiarito importanti aspetti specifici del suo pensiero e della sua vita. A mancare finora è stato però un lavoro di ampio respiro, che collocasse Leibniz nel suo preciso contesto storico, e che fosse al tempo stesso il più esaustivo e dettagliato possibile. Una lacuna colmata da Antognazza, che ricompone «l’uomo smembrato da Fontenelle e dai suoi epigoni» in un quadro unitario e armonico.
Le attività teoriche e pratiche di Leibniz, in apparenza così eterogenee, rivelano – a ben guardare – un progetto dominante e comprensivo che scaturì da un sogno molto audace: «ricondurre la molteplicità della conoscenza umana a un’unità logica, metafisica e pedagogica, centrata intorno alla concezione teistica propria della tradizione cristiana e finalizzata al bene comune». Tanto più poi se consideriamo che Leibniz crebbe e visse in mondo attraversato da profonde divisioni politiche e confessionali, quello cioè del Sacro Romano Impero tedesco all’indomani della pace di Westfalia (1648).
Fu invece proprio tale contesto ad alimentare le aspirazioni di Leibniz. E per perseguirle si smarcò subito dalla rigida ortodossia luterana dei suoi docenti dell’Università di Lipsia, aderendo a quell’eclettismo filosofico che, ormai ben radicato in altre aree dell’impero, proponeva modelli enciclopedici e pedagogici innovativi per la riforma del sapere e della società nel suo complesso. Così, non appena completò la sua formazione accademica, agli inizi del 1668 Leibniz era già in grado di abbozzare un piano globale per il progresso di tutte le scienze. Che non era però qualcosa di astratto, poiché il suo obiettivo pratico era il miglioramento della condizione umana e di conseguenza la celebrazione della gloria di Dio. Al quale se ne aggiungeva un altro non meno ambizioso: la riconciliazione delle diverse chiese cristiane sulla base di principi razionali universalmente condivisibili.
Una «visione originaria» insomma, che avrebbe catalizzato gran parte delle energie e dell’entusiasmo di Leibniz per il resto della sua vita, nella convinzione che i diversi ambiti del sapere potessero e dovessero integrarsi in modo unitario nel sistema intellettuale e morale di una persona. Di qui il grande progetto di una scientia generalis, destinata a essere esposta in un’«enciclopedia dimostrativa», che comprendeva tutta la conoscenza disponibile, insieme ai metodi della sua scoperta nel passato e a quelli del suo futuro sviluppo. E che era strettamente legato alla creazione di una characteristica universalis: un linguaggio cioè di simboli logici per eliminare le ambiguità delle lingue naturali e risolvere in modo pacifico ogni tipo di controversia. Il tutto in vista del bene supremo, che per Leibniz consisteva nella ricerca dell’autentica felicità del genere umano.
È dunque alla luce di questa «visione» che Antognazza ricostruisce la biografia intellettuale di Leibniz, che si snoda in due parti. La prima racconta gli anni dei suoi studi universitari a Lipsia, a Jena e ad Altdorf, per arrivare al 1668 quando il giovane luterano diventò consigliere giuridico presso la corte cattolica di Magonza. E culmina in un lungo soggiorno a Parigi (1672-1676), coronato da due viaggi a Londra e uno in Olanda, che segnò un momento chiave della sua formazione. Egli infatti ebbe modo non solo di ampliare le sue conoscenze, soprattutto nel campo della matematica, ma anche di entrare in contatto con tutti quelli che avevano una reputazione nel mondo scientifico e filosofico europeo. La seconda parte invece copre gli ultimi quarant’anni della sua vita come consigliere di corte e bibliotecario del duca di Hannover, incarico che Leibniz fu costretto ad accettare quando sfumò la prospettiva di stabilirsi definitivamente a Parigi. E che videro l’urto tra i suoi sogni e la realtà, tra l’aspirazione a portare avanti i suoi ambiziosi programmi giovanili e la pretesa dei suoi datori di lavoro che egli si applicasse a servire gli angusti interessi della loro famiglia. In questi anni, nonostante il fardello degli incarichi amministrativi, Leibniz continuò a diffondere le sue idee in saggi, lettere e articoli per riviste, senza mai rinunciare al suo grande progetto ecumenico.
In questo libro, appassionato e ricco di informazioni, il lettore troverà una guida sicura per districarsi nella filosofia di Leibniz, per seguirne la complessa struttura metafisica, dove le monadi sono le «unità reali» di cui è fatto tutto l’universo, per capire perché ognuna di esse riflette l’«armonia universale» dell’eterno disegno divino, e perché quello che Dio ha scelto di creare è il migliore dei mondi possibili. Ma troverà anche un’accurata descrizione della sua attività più propriamente scientifica. A partire dall’invenzione del calcolo infinitesimale che realizzò nel 1675, indipendentemente da Newton, e di cui ci viene documenta la genesi, la formulazione e la diffusione. E lo stesso vale per le ricerche nel campo della fisica dove, in polemica con la meccanica cartesiana, egli contribuì a chiarire il concetto di forza, fondando la nuova scienza da lui denominata appunto «dinamica». Ma più di tutto, forse, il lettore apprezzerà l’attenzione per i contributi meno noti di Leibniz alla medicina, che andavano dalla proposta di un servizio sanitario pubblico alla compilazione di statistiche per registrare le principali cause di malattie e decessi. Un ulteriore esempio di come i suoi studi fossero sempre finalizzati al benessere della collettività.
Maria Rosa Antognazza, Leibniz. Una biografia intellettuale, traduzione di Stefano Di Bella, Hoepli, Milano, pagg. 694, € 44,90.

Il Sole Domenica 3.1.16
Richard P. Feynman
Un’icona del secolo ventesimo
di Gianfranco Bangone


Fra tutti i grandi nomi della fisica del XX secolo quello di Richard Feynman è nella percezione popolare un gradino al di sopra di tutti i colleghi della sua generazione. Brillante, acuto, eccellente oratore, si descriveva come «fisico premio Nobel, insegnante, cantastorie e suonatore di bongo». Alle tante biografie, scientifiche e non, che gli sono state dedicate si aggiungono alcuni suoi libri che ne disegnano un profilo scherzoso e divertente. È probabile che le sue umanissime qualità abbiano contribuito enormemente alla popolarità di cui ha goduto, e gode tuttora, fra la gente comune.
Le sue soluzioni ad alcuni problemi della fisica sono di enorme valore – Freeman Dyson, e con lui molti altri, lo ha definito come «la mente più brillante della sua generazione» - ma resta sempre il fatto che si considerava un «ragazzo un po’ rozzo» del Queens (quartiere newyorchese in cui era nato), che aveva avuto una C in lingua e letteratura inglese quando andava a scuola. Cosa di cui si è lamentato per tutta la vita. Citare questo episodio forse è stato solo un vezzo, ma a modo suo lo rappresenta egregiamente si si resta al lato umano del personaggio.
La figlia Michelle ha dedicato parte della sua vita a raccogliere e catalogare testimonianze scritte e trascrizioni di conferenze, per cui oggi si può dire che di Feynman conosciamo ogni parola, ogni lato della sua personalità anche privata. The Quotable Feynman è una raccolta ragionata di lettere private, di spezzoni dei suoi interventi pubblici, divisa in 27 capitoli: vanno dalla sua prima infanzia – «non sono mai riuscito ad applicarmi quanto volevo, perché mia madre mi portava sempre fuori a giocare», dice riferendosi a quel periodo – sino alle commemorazioni dopo la sua morte nel febbraio dell’88. Usava grande ironia anche per riferirsi al lavoro che aveva fatto: «Non c’è talento, nessuna abilità speciale per capire la meccanica quantistica o per immaginare i campi elettromagnetici che arrivi senza esercizio, letture e studio. Sono nato che non capivo la meccanica quantistica e ancora oggi non la capisco» dice suscitando ilarità in una serie televisiva della BBC. Pur essendo un personaggio di enorme levatura nella fisica del suo periodo ne sdrammatizzava il senso dicendo: «Anche se siete fra gli ultimi della classe questo non significa che non avete qualità. Dovete semplicemente paragonarvi a un ragionevole gruppo di persone, piuttosto che a questa insana collezione di gente che abbiamo raccolto qui al CalTech». Insomma umano, umanissimo e qualche volta inarrivabile. Un’icona del suo tempo.
Richard P. Feynman, The Quotable Feynman, a cura di Michelle Feynman, con una prefazione di Brian Cox e riflessioni di Yo-Yo Ma, Princeton university press,  pagg. 432, $24.95

Il Sole Domenica 3.1.16
Toni Negri
Un soliloquio di 600 pagine
di Raffaele Liucci


È un peccato che Thomas Bernhard non abbia mai incontrato Toni Negri, perché questi gli avrebbe senz’altro fornito ispirazione per i suoi personaggi maniacali: «Riformatori del mondo», imprigionati nel loro febbrile solipsismo.
Storia di un comunista, s’intitola l’autobiografia di Negri (nato nel 1933), che s’interrompe bruscamente all’imbrunire degli anni Settanta, con il suo arresto. Ma forse i veri comunisti dovrebbero querelarlo, per appropriazione indebita. Ci troviamo di fronte, infatti, non a un comunista, bensì a un piccolo borghese anarcoide: esponente di quel «ribellismo estremizzante» che l’antropologo Carlo Tullio-Altan ha eretto a «sottofondo» latente della nostra storia. A seconda dei frangenti, questa corrente carsica ha assunto coloriture ora di destra ora di sinistra, finendo sempre, paradossalmente, per puntellare l’ordine costituito.
Da buon piccolo borghese, Toni Negri è persuaso che il valore di un libro dipenda dal numero di pagine e dalla quantità di iperboli con cui infarcirle («passaggio ricompositivo di classe», «ristrutturazione immateriale dell’antagonismo», «rottura della dialettica in un convenzionalismo istituzionale»). Avesse vergato un memoir più calibrato, forse ne sarebbe scaturito un lavoro incisivo, come quello di Enrico Fenzi, Armi e bagagli, capace di restituire la Weltanschauung (seppur deviata) di un intellettuale umanista e rivoluzionario. Invece, questo sbrodolatissimo tomo di oltre 600 pagine risulta indigesto. Non solo per la tediosità, ma anche per lo stile egolatrico.
«Negli anni Settanta eravamo riusciti a interpretare la forte capacità di trasformazione dell’intera società», proclama l’autore. In verità, in questo libro c’è esclusivamente lui, Toni Negri. A un certo punto, sembra che la Guerra Fredda, i cambiamenti del Veneto rurale, lo sviluppo di Porto Marghera, l’autunno caldo, la strategia della tensione, la repressione poliziesca, la ristrutturazione capitalistica, siano avvenute per lui, affinché potesse poi raccontarle in una prosa magniloquente, sprovvista di ogni senso del tragico. Monade sguarnita di oblò, il nostro professore ricorda davvero un personaggio bernhardiano, monologante all’infinito. Non senza lampi d’involontaria comicità. Come quando dipinge il leggendario grecista patavino Carlo Diano (non certo un fior di progressista) quasi alla stregua di un proprio antesignano. O quando si arrampica sugli specchi per giustificare il fatto che lui, teorico della distruzione dello Stato, tenesse a Padova la cattedra di Dottrina dello Stato.
Inoltre, il vittimismo civettuolo di Toni Negri suona parecchio irritante. È vero: il «teorema Calogero» – secondo cui l’Autonomia Operaia di Negri sarebbe stata il “cervello” di un progetto d’insurrezione armata, condiviso con le Br – non ha avuto piena accoglienza in sede processuale. Però non va dimenticato che lo stesso Negri, con tre distinte sentenze, è stato condannato in via definitiva a una pena complessiva superiore ai 16 anni di reclusione, per reati sia di natura associativa sia specifica. Mica bruscolini!
Ridimensionata sul piano giudiziario, la pista investigativa del magistrato padovano Pietro Calogero ha in ogni caso depositato fecondi semi storiografici, come testimoniano alcune ricerche di Alessandro Naccarato e Carlo Fumian. Gli storici, infatti, a differenza dei giudici, non accertano solo le responsabilità penali, ma anche quelle morali e culturali, decisive per illuminare il contesto.
Già che ci siamo, dovremmo anche rispolverare gli studi di Angelo Ventura sugli anni Settanta e l’estremismo di sinistra, raccolti qualche anno fa in un volume Donzelli (Per una storia del terrorismo italiano): sono fondamentali per inquadrare la forma mentis ballerina degli intellettuali formatisi nel crogiolo dell’operaismo. Personaggi del calibro di Toni Negri, Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Franco Piperno, poi protagonisti, nei decenni successivi, di numerose piroette, sempre guidati dall’immodestia di essere dalla parte giusta della Storia. Per costoro, i fatti non hanno mai contato nulla, soltanto le interpretazioni. «Quei cattivi fatti che rovinano le belle idee», diceva un caustico Lucien Febvre. Forse è il don Ferrante manzoniano l’archetipo di questi chierici, nei quali, scrive Ventura, «la radicata tradizione di un sapere prevalentemente libresco, astratto e deduttivo, si combina con una cultura fortemente ideologizzante, incline allo spirito sistematico e ai miti».
Il mondo a mia immagine e somiglianza. O, meglio ancora, «Il mondo sono io», come esclamava Giovanni Papini.
Toni Negri, Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, Milano, pagg. 608, € 18,00

Il Sole Domenica 3.1.16
Falcone e «l’oro di Mosca»
di Andrea Di Consoli

Giovanni Falcone, prima di morire, stava iniziando a indagare sul cosiddetto “oro di Mosca”, ovvero sul legame economico illecito tra Pcus e Pci. Falcone aveva già in agenda un viaggio in Russia, concordato con Valentin Stepankov, procuratore generale della Federazione russa, ma un quintale di tritolo, il 23 maggio del 1992, lo eliminò dalla scena. Il “sistema” che Francesco Bigazzi prova a svelare – con l’aiuto dello stesso Stepankov e di numerosi documenti inediti – ne Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano (Mondadori, pagg. 144, € 20,00) è assai aggrovigliato. In pratica il meccanismo che portava i danari dal Pcus ai «partiti fratelli» era governato da mafie e servizi segreti con l’obiettivo di riciclare danaro sporco – e tutto questo con l’avallo di aziende e cooperative “comuniste” compiacenti. Al di là della complessità politica e finanziaria della vicenda, una cosa sembra certa: almeno in sede storiografica i rapporti economici tra Pcus e Pci andrebbero affrontati definitivamente, senza lasciare in vita zone d’ombra o sospette reticenze.

Il Sole Domenica 3.1.16
Parigi
Picasso ben ristrutturato
Sotto la guida del nuovo direttore Laurent Le Bon, il Musée National dedicato al pittore spagnolo ha rinnovato il suo ordinamento
di Ada Masoero


È stata ferita, sfregiata, offesa dalla barbarie jihadista, ma a chi vorrà rispondere a quella barbarie con un gesto di libertà, Parigi continua a regalare tesori di arte e di cultura. Uno è il Musée National Picasso (nel cuore del Marais ebraico, lo diciamo subito), che a un anno soltanto dalla riapertura dell’ottobre 2014 dopo un lunghissimo restauro, si presenta già completamente rinnovato, nell’ordinamento pensato dal nuovo direttore, Laurent Le Bon, e dai suoi curatori. Nominato nel 2014, non molto tempo prima della riapertura del museo, Laurent Le Bon, che andava a sostituire la “spigolosa” Anne Baldassari, aveva accettato con fair play di lasciarle l’onore di riaprire con il proprio allestimento il museo restaurato. Ora però, nel trentennale dell’inaugurazione del museo, Le Bon ha messo mano ai cinque piani del magnifico palazzo seicentesco che lo ospita e ha ridisegnato radicalmente percorsi e temi espositivi: «Principio della nuova esposizione – ci racconta mentre attraversiamo le sale - è la volontà di mostrare un Picasso meno noto al pubblico e di esplorare piuttosto i fondamentali del suo lavoro d’artista e penetrare il mistero del suo processo creativo, grazie soprattutto al nostro archivio, i cui documenti sono qui costantemente intrecciati alle opere, per gettare su esse una nuova luce».
Sono 200 mila i documenti dell’archivio del museo (17 mila le fotografie: Picasso non buttava nulla) ma ricchissime sono anche le collezioni, che contano 5 mila opere, frutto della donazione della raccolta personale subito dopo la sua morte, nel 1973; del lascito, nel 1990, dell’ultima moglie Jacqueline Roque ma, più ancora, della dation del 1979, quando gli eredi scelsero di pagare le colossali tasse di successione in opere d’arte. Un autentico tesoro, dunque, e di una completezza senza eguali, che ha permesso di festeggiare questo trentesimo anniversario dell’inaugurazione del museo (aperto nel settembre 1985) prestando contemporaneamente centinaia di opere alla superba mostra di sculture del MoMA e a quella del Grand Palais (si veda qui accanto), nonché di inviare numerosi capolavori al Louvre e ad altri musei.
Il nuovo percorso è sorprendente sin dall’inizio, nel sotterraneo: qui, fra fotografie, documenti e dipinti, scorre un raro filmato del 1955 di Henri-Georges Clouzot, Le Mystère Picasso, davvero prezioso per penetrarne il processo creativo. Per immergersi a fondo nel suo percorso d’artista occorre però salire al piano terreno, dove le opere sono ordinate cronologicamente e per temi. Ci s’imbatte dapprima negli autoritratti, poi in alcuni magnifici dipinti dei periodi blu e rosa, poi nel focus sull'incontro del 1905 con Guillaume Apollinaire, che ne decreterà il successo dopo anni di vera miseria, e infine nei «cubismi», come li chiamano qui, tutti rappresentati da vere “icone”: il cubismo cézanniano del 1908-1909; quello analitico, quasi astratto, del 1910-11, e quello sintetico, dal 1912, con i collage, le sculpto-peintures (montaggi di materie ordinarie) e gli oggetti tridimensionali. Il piano terreno si chiude con un’altra sezione diacronica, dedicata alla prima moglie Olga Khokhlova, danzatrice dei Ballets Russes conosciuta nel 1917 a Roma, che dalle preziose forme à-la-Ingres dei primi, amorosi ritratti, quando nel 1929 scoppia la crisi coniugale, si trasforma in una figura molle, mostruosa e urlante. Al piano superiore vanno in scena con l’identico criterio gli anni dal 1922 al 1973, con la vera sorpresa della parentesi di silenzio pittorico tra il 1935 e il 1936 quando Picasso, separatosi da Olga e ormai nel pieno della stagione surrealista, per 16 mesi lascia il pennello e si esprime solo con una “scrittura visiva”, dove le parole s'inframmezzano a schizzi, numeri, cancellature: per lui, opere a tutti gli effetti, firmate e puntigliosamente datate.
Al secondo piano, ecco la dimensione pubblica di Picasso: quella dell’impegno politico, siglata dall’adesione nel 1944 al Partito comunista francese e dalle molte battaglie civili e, sin dagli anni ’50, quella del divo dei rotocalchi. Di sopra, infine, va in scena il Picasso privato: la sua collezione di pittura (Le Nain, Chardin, Courbet, Cézanne…), i dipinti dell’amico Miró e quelli dell’amico-rivale Matisse («noi siamo come il Polo nord e il Polo sud» diceva lui), le fotografie di Brassaï, ma anche i biglietti d'ingresso all’amato Circo Medrano e allo zoo di Roma, e l’agenda in cui, il 4 febbraio 1921, annota la nascita di Paulo e il suo peso («6 libbre e 80 grammi»), che accendono lampi di umanità su un artista diventato già in vita un mito irraggiungibile.

Il Sole Domenica 3.1.16
Rivedendo Goya a Londra
di Alvar González-Palacios


Uno dei pensatori più acuti del secolo passato, José Ortega y Gasset, cercò di spiegare la natura di Francisco Goya ma persino ad uno spirito sottile come il suo non riuscì facile decifrare un soggetto così complesso. La mente dell’artista resta enigmatica comunque. La conclusione di Ortega si può riassumere nella frase finale del suo scritto: «la obra de Goya no germina nunca en inteligencia: o es vulgar oficio o es videncia de sonámbulo». Parole difficili: Goya sarebbe padrone assoluto del mestiere pur restando posseduto dai suoi sogni. Non a caso una delle sue immagini più note venne da lui stesso iscritta «El sueño de la razón produce monstruos»: la stampa raffigura Goya stesso, oberato dal peso dei suoi incubi, fra fogli e matite, perseguitato da uccellini e uccellacci e da un gatto immenso che guarda cose ignote e diaboliche. La conclusione di Ortega è giusta? L’arte di Goya non genera comprensione ed è dunque frutto di sublime tecnica e della chiaroveggenza di un sonnambulo?
Gli antichi credevano che nulla è vero se non è vero anche il suo opposto. La vasta umanità, i singoli individui che Goya ritrasse sono irripetibili: non sono né buoni né cattivi, né belli né brutti. Sono come sono, cioè come un pittore in parte simile a loro ma diverso da loro, credette di indovinarli. Seguiamo Ortega: siamo dinanzi ad una cosa nuova, l’opera di un pittore che ci costringe a vedere così come lui aveva visto. Osserviamo, pensiamo, forse capiamo con gli occhi di un altro. I mezzi tecnici sono molto diversi, mutano lungo i decenni. I ritratti più antichi, verso gli anni Ottanta del Settecento, sono leggeri ma con un impatto cromatico ricco che si sovrappone strato su strato e sembra frusciare come la seta. Poi si incupisce via via, a misura che l’ironia mondana si trasforma in monologo drammatico e i tessuti chiari e delicati diventano velluti rembrandtiani. Dal secolo dei Borbone si è passati a quello di Napoleone e i modelli non sono più gli aristocratici illuminati della gioventù ma funzionari imborghesiti, meno azzimati, poco inclini al sorriso, non più sensuali.
Non solo di esseri umani si tratta. Gli animali contano molto nel mondo di Goya, i cani innanzitutto, siano fedeli assistenti della caccia siano bestiole di compagnia, piccoli maltesi infiocchettati come quelli così ben descritti dal milanese Carlo Porta. E poi cavalli, gatti imperscrutabili e merli ammaestrati (come nel ritratto del figliolino del Conte di Altamira, del Metropolitan Museum). Talvolta gli uomini si confondono con gli animali: il tronfio Ferdinando VII col bastone di comando e il Duca di San Carlos, suo onnipossente ministro, appaiono come un orso in piedi e una volpe riverente nelle due magistrali tele del Prado e di Saragozza.
Mi sono spesso chiesto per quale curiosa magia o per quale bizzarra cecità Goya sia riuscito ad imporre a Carlos IV e alla Regina Maria Luisa le sembianze che non solo li raffigurano ma li insultano. Ambedue si intendevano d’arte ed erano in grado di decodificare un ritratto. Sorprendentemente né loro né alcuno a corte ebbe nulla da dire: solo un visitatore francese, molti anni dopo, scrisse che la famiglia reale di Goya sembrava quella di un pizzicagnolo che aveva vinto la lotteria. Eppure nelle collezioni di Madrid esistevano molti dipinti dello stesso genere, e senza pensare ai ritratti imperiali di Carlo V o di Filippo II dovuti alla grandiosità imperiale di Tiziano, basta guardare Filippo V in mezzo a figli e parenti nell'immensa tela di Van Loo, in cui ogni persona reale veniva presentata senza alcun sarcasmo. E Goya non fu insolente solo una volta, in ogni sua effige Maria Luisa appare come una megera arrogante e ridicola - è pur vero che era costretta a portare una dentiera di legno e di porcellana (non so se di Sèvres o del Buen Retiro) ma ritrattisti come Winterhalter, pochi decenni dopo, seppero sublimare ben altri difetti fisici.
Per commentare la mostra che si tiene alla National Gallery fino al 10 gennaio si è pubblicato un volume con una introduzione di Manuela Mena Marquéz e un lungo saggio di Xavier Bray: sono due studi di prim’ordine ma non si tratta di un catalogo. Le illustrazioni sono ottime ma la consultazione del libro è poco pratica e penso sia opportuno che per occasioni di questo tipo si ritorni ai cataloghi veri e propri dove si intende senza confusione quale quadro sia veramente esposto e studiato. Il tema della mostra riguardava specificamente i ritratti di Goya ma si è forzati a trattare di altri aspetti della personalità di uno dei geni della pittura europea. Il mondo che scorre sotto i nostri occhi, dalla grande tela con La famiglia dell’Infante Don Luis del 1783-4 all’autoritratto di Goya malato fra le braccia del suo medico del 1820, illustra due modi antitetici di concepire l’esistenza. Pulsante di vita benché malinconico il gruppo attorno al vecchio principe e alla sua giovane moglie morganatica riesce ad essere malizioso. Don Luis di Borbone ispira simpatia e un po’ di commiserazione con la consorte troppo bella e i figli troppo piccoli. Quarant’anni dopo, l’immagine di Goya sofferente è una visione scaramantica che allontana il male (le creature demoniache sul retro). È lo stesso pittore ad eseguire due opere così diverse ma il modo di condurre il lavoro è quasi opposto: attorno a Don Luis i personaggi appaiono illuminati dal di dentro, come di colpo; nel ritratto della vecchiezza ogni cosa è lenta, creata centimetro per centimetro.
Goya non fu mai un uomo allegro ma col nuovo secolo, quando giunsero le malattie e la sordità, il suo spirito si ammantò di una tristezza cupa. Non gli mancano mai la forza e persino la violenza ma sembra inseguito da ombre sinistre o di quel che un grande scrittore spagnolo chiamò poi il sentimento tragico della vita.

Il Sole Domenica 3.1.16
Arte in pericolo
Schianti di civiltà, una lunga storia
Paolo Matthiae indaga fatti e motivazioni che hanno portato ciclicamente l’umanità ad assalire e distruggere il patrimonio altrui
di Marco Carminati


Nell’osservare il pericolo in cui si trovano oggi i siti archeologici dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, molti di noi sono dispiaciuti e sconcertati. Ma c’è chi sta soffrendo enormemente, come ad esempio Paolo Matthiae, uno dei più grandi archeologi italiani, l’uomo che ha scoperto la città e la civiltà di Ebla in Siria, e che in quella nazione ha compiuto dal 1964 al 2010 ben 47 missioni di scavo, ogni anno, a settembre, senza alcuna interruzione. E ora, bloccato in Italia, è costretto a osservare impotente le belve dell’Isis che si accaniscono contro il patrimonio archeologico di quelle amate regioni e soprattutto che uccidono con efferata crudeltà i suoi più cari amici, come il collega Khalid al-Asaad, il conservatore degli scavi di Palmira, che Matthiae definisce con un’unica, potente parola: un giusto.
Il dolore e la costernazione di Paolo Matthiae sono sfociati in un libro che - pur non nascondendo il tumulto interiore che lo ha ispirato - riesce a offrirci un quadro razionale e oggettivo dei motivi che hanno spinto l’umanità, sin dalla notte dei tempi, ad accanirsi contro il patrimonio artistico e monumentale per trasformarlo - nella migliore delle ipotesi – in sublimi rovine, e - nella peggiore - per annientarlo del tutto.
Nell’incipit del libro, Matthiae confessa che «mai avrebbe pensato di affrontare» questo tema se non fosse divenuto di «angosciante attualità» e «di agghiacciante rilievo» dopo i fatti legati al dilagare del fondamentalismo islamico. Anche Matthiae, infatti, era tra quelli che pensavano che dopo l’ecatombe vissuta dall’Europa durante la Seconda Guerra mondiale l’umanità avesse imparato la lezione. Invece si sbagliava, perché l’argomento degli attacchi al patrimonio artistico dell’umanità è tornato drammaticamente all’ordine del giorno.
Allora è diventato urgente per il nostro autore studiare e capire perché si è di nuovo arrivati a tanto, mettendosi ad indagare il tema nel più vasto arco cronologico possibile (dalle civiltà della Mesopotamia ai nostri giorni) e abbracciando la maggior estensione geografica possibile, dalle civiltà mesoamericane alla Cina, passando per l’Europa, il Medio Oriente e l’India.
Da navigato archeologo, Matthiae sa che il primo “nemico” che assedia città e complessi monumentali è il tempo, un agente micidiale capace di annientare metropoli come Babilonia e Ur. Poi, sa che subentrano cause diverse, quali l’abbandono dei siti (e Matthiae elenca e discute tutte le possibili motivazioni), le distruzioni provocate da cause naturali (terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, eccetera) e le distruzioni provocate direttamente dall’uomo (guerre, assedi, saccheggi, eccetera).
Dagli schianti provocati da tempo, abbandono, calamità e guerre, alcune realtà urbane sono sopravvissute in forma di rovine inserite in paesaggi sorti spontaneamente attorno a esse. Oggi siamo consapevoli che le rovine inserite nel paesaggio abbiano un fascino e un valore culturale incomparabile, e come tali vadano gelosamente protette e conservate. Ma se si osserva la storia, molti dei nostri antenati sarebbe andati perfettamente a braccetto dell’Isis nel condividere l’odio, il disprezzo e l’indifferenza per le venerande rovine del passato, soprattutto se espressione di civiltà diverse dalla propria.
Per secoli si guardò e meditò (spesso con le lacrime agli occhi), le condizioni di rovina in cui erano cadute Atene o Roma, e si tentò di perpetuarne la grandezza estirpando da esse statue, bassorilievi, marmi e cimeli da riutilizzare come manufatti o come modelli di ispirazione. Ma, ad esempio, davanti alle immani architetture rinvenute dopo la scoperta dell’America gli stessi europei che piangevano sulle ruinae di Roma espressero il più sovrano disprezzo per quelle mirabili antichità (l’archeologia mesoamericana si attivò, di fatto, solo nel Novecento).
Il “disprezzo per gli altri” è stato certamente uno dei motori più potenti per attivare le distruzioni. Ma non lo sono stati da meno l’invidia per il patrimonio altrui, la sete di possesso e la damnatio memoriae di civiltà sgradite. Matthiae svolge questi tre temi in tre possenti capitoli centrali, accompagnando il lettore in un’eccezionale cavalcata nello spazio e nel tempo. Roma depreda la Grecia per impossessarsi del suo patrimonio e della sua cultura, e così faranno le truppe di Napoleone con i paesi europei “liberati” dalle antiche tirannie. Ma c’è chi saccheggia città, siti e tombe per impossessarsi semplicemente della refurtiva. E si fanno gli esempi: dai tombaroli dell’antico Egitto alla conquista di Gerusalemme da parte di Tito, dal sacco di Roma di Alarico a quello di Costantinopoli perpetrato dai Crociati, dall’assalto al patrimonio artistico mesoamericano da parte degli spagnoli agli attualissimi furti d’arte su commissione compiuti durante la guerra del Golfo contro Saddam Hussein. E in mezzo a questi drammatici racconti trovano posto gli inenarrabili guai provocati dalle guerre di religione in Europa ma anche dall’impeto iconoclasta della Rivoluzione francese.
Tuttavia, anche Matthiae deve ammettere che non tutto il male è venuto per nuocere. Da tante “rimozioni” di opere d’arte dai loro contesti originari sarebbero sorti scrigni di civiltà come i grandi musei occidentali, avrebbe preso vita la miglior tradizione degli studi archeologici, e sarebbe sorta la coscienza del valore assoluto delle rovine e dell'eredità del passato.
Davanti all’insorgere di una nuova barbarie, il nostro compito – conclude Matthiae – è di quello di ammonire, ricordare e indicare una via. Per ammonire, l’autore revoca ciò che accadde a Coventry, Amburgo, Dresda, Montecassino e Hiroshima settanta anni fa. Per ricordare, riporta le parole dell’abate Henri Gregoire rivolte ai rivoluzionari francesi: «I barbari distruggono il patrimonio artistico… gli uomini liberi lo conservano». E per indicare la via, evoca una bellissima immagine di “viandanti”: quella dei carovanieri musulmani che, percorrendo la Via della Seta, passavano davanti alle statue colossali dei Buddha e si fermavano ad osservarle pieni di venerazione e ammirazione. Questo per sottolineare che il patrimonio artistico di “ogni” civiltà appartiene davvero a “ogni” uomo. Picasso diceva: «Non giudicare sbagliato ciò che non conosci. Cogli l'occasione per comprendere». E Matthiae ci invita a fare altrettanto.
Paolo Matthiae, Distruzioni, saccheggi e rinascite. Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’Isis, Electa, Milano, pagg. 264, euro 24,90