Repubblica 26.1.16
Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti
Né diritti né futuro la vita ai tempi degli Immortali
Nel
nuovo saggio Gustavo Zagrebelsky analizza come medicina, genetica e
stili di vita ci regalino l’illusione di un’esistenza eterna
Rompendo il patto con le generazioni che verranno
di Ezio Mauro
VIVENDO
come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e
il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia
dell’umanità la curva dell’esistenza — com’è stata chiamata sempre — in
una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire:
e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia
gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.
Non è un
autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita
ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la
genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma
anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei
trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la
realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che
la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e
infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei
figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più
fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo
naturale percorso, che è ciò che la rende appunto “vita” con un suo
inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase
illusoriamente fissata per sempre.
Al suo posto viviamo
un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età
altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce
è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere,
la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i
diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si
disimpara è la preparazione
alla vecchiaia, il modo di accoglierla
dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione.
Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di
non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma
il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la
fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta.
Senza
adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da
Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle
generazioni, legandolo alla de-generazione e alla ri-generazione in
quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al
mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la
distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani
gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma
era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che
temeva i giovani “impetuosi” e “feroci” come li chiama Machiavelli
assegnando però loro il compito di afferrare la “fortuna”.
Oggi
poi questa riserva di credito dei “saggi” è messa a dura prova dalla
nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile
risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una
vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo
così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente
dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché
utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di
considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una
pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non
c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo
tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente
agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello
sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica
è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità,
figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto
indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo
societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione,
perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non
la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una
bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è
eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno
dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky
porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola
di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a
111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir
meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per
gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva
letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano
le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza
che si autodistrugge. Anche oggi la generazione dominante si comporta
come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse
naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse
genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano
l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson
annunciò che «la Terra appartiene alla generazione vivente» intendeva
affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al
passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono
essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali
rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per
sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È
come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro
successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il
calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il
futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento
dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza
trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto
psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e
il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività
generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in
discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso.
D’altra parte — Zagrebelsky ricorda Canetti — quante persone
scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo
più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza,
l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a
consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è
dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in
generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti
all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema
più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni
future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di
coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente
davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici:
semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i
futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del
diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che
in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo,
quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori,
tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può
reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli
avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri
non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con
la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere,
senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo
che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga
nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque
tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo,
riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot:
«Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo /
sognando di entrambe queste età».
IL LIBRO Senza adulti, di Gustavo Zagrebelsky ( Einaudi pagg. XIII -106 euro 12)