sabato 16 gennaio 2016

Repubblica 16.1.16
E ora scricchiola la ripresa europea
Sui mercati vendite da panico, ma la crisi della Cina può creare un’ondata di sfiducia
Ferdinando Giugliano

L’ANALISI
Dopo due settimane di forti vendite sui mercati azionari mondiali, si avverte un’aria di cupo pessimismo sulle sorti dell’economia mondiale. Ma per quanto il rischio di essere all’inizio di una nuova crisi resti concreto, è troppo presto per convincersi che la catastrofe sia ineluttabile.
Pur riflettendo in teoria le prospettive delle aziende quotate, le Borse possono essere dominate da umori ben lontani dall’andamento dell’economia. Gli investitori si fiutano a vicenda e vendono in momenti di panico anche quando non c’è una ragione reale per farlo. Queste turbolenze sono diventate ancora maggiori da quando le Banche centrali hanno immesso nel mercato centinaia di miliardi di liquidità. Per anni le Borse sono salite a dispetto di dati di crescita mediocri. Non è da escludere che oggi stia accadendo il contrario.
Un problema di fondo però c’è: l’economia mondiale resta fragile. La debolezza riguarda principalmente i mercati emergenti, che dopo una lunga fase di espansione riscoprono gli spettri della recessione e delle crisi valutarie. Al centro di questo terremoto vi sono il Brasile e la Russia, ma anche la situazione del Sud Africa va progressivamente peggiorando, mentre l’India resta per ora al riparo dalle scosse più forti.
Le previsioni di crescita dei Paesi emergenti – tagliate piuttosto nettamente dalla Banca Mondiale solo poche settimane fa – scontano il crollo del prezzo delle materie prime, di cui sono spesso produttori, nonché il rialzo dei tassi d’interesse della Federal Reserve, che ha riportato molti capitali da Asia, Sud America e Africa verso gli Stati Uniti.
Il nodo centrale di questa fase di incertezza rimane la Cina, un Paese impegnato in una difficilissima transizione da un’economia dominata dagli investimenti e dall’industria pesante, a una più orientata verso i consumi e i servizi. A far paura non è soltanto l’incertezza sulle statistiche ufficiali, spesso in distonia con altri indicatori quali i consumi di elettricità, ma anche i tanti errori recenti delle autorità di Pechino. Per anni, la classe politica occidentale ha guardato ai colleghi cinesi con un misto di stupore e invidia per tassi di crescita intorno al 10 per cento annuo. Negli ultimi mesi, decisioni confuse e contraddittorie su come regolare le Borse hanno scalfito questa fiducia, causando diffuso pessimismo anche sulla gestione dell’economia.
Attribuire le perdite dei mercati a questi fattori si scontra però con un problema. Le difficoltà dei mercati emergenti e le paure su un possibile crollo improvviso della Cina erano ben note negli scorsi mesi. Il primo rialzo dei tassi della Fed, poi, accuratamente telegrafato dal presidente Janet Yellen, non aveva inizialmente causato particolari scossoni. Da inizio anno i dati economici dei Paesi in via di sviluppo sono continuati a peggiorare, ma non abbastanza da giustificare il crollo dei mercati di questi giorni.
I due veri punti interrogativi riguardano dunque la crescita negli Stati Uniti e in Europa che, in quanto Paesi prevalentemente consumatori di materie prime, dovrebbero beneficiare dell’abbassamento del loro prezzo. In particolare, la caduta verticale del prezzo del petrolio, che è andato sotto i 30 dollari al barile dagli oltre 100 di metà 2014, dovrebbe abbassare i costi di produzione della maggioranza delle aziende, oltre a rendere i consumatori un po’ più ricchi.
In Europa, questi benefici si sono visti per la maggior parte del 2015, con una ripresa che è stata in larga parte trainata proprio dalle spese delle famiglie. Ancora oggi, gli indici di fiducia sono molto alti, grazie anche a un’occupazione in ripresa e a un potere d’acquisto che aumenta. Nelle ultime settimane, però, dati negativi sulla produzione industriale fanno temere che il contraccolpo del rallentamento dei mercati emergenti possa essere più forte del previsto. Il consiglio direttivo della Banca centrale europea, che si riunisce questa settimana per decidere sulla politica monetaria dell’area euro, potrebbe vedersi obbligato già nei prossimi mesi a rafforzare il suo programma di quantitative easing per riportare l’inflazione verso il livello obbiettivo, appena sotto il 2 per cento.
Negli Stati Uniti la situazione è ancora meno chiara. Se è vero che l’industria sembra un po’ in affanno, anche a causa del rafforzamento del dollaro che ha accompagnato il rialzo dei tassi della Fed penalizzando le esportazioni, l’occupazione continua a crescere a ritmi sostenuti. Un pericolo ancora difficile da stimare è legato all’effetto che il crollo del prezzo del greggio possa avere sulle banche che hanno finanziato l’industria petrolifera. La crescita repentina del cosiddetto shale oil potrebbe aver creato una bolla che rischia di scoppiare in faccia ai creditori.
Per l’Italia, il rallentamento dei mercati emergenti costituisce un rischio ma anche una piccola opportunità. Molte nostre aziende, soprattutto nel settore del lusso o dell’alimentare, potrebbero perdere quella spinta che gli veniva dall’export verso paesi come Russia, Brasile e Cina. Un improvviso arresto della crescita globale, legato a una perdita di fiducia generalizzata, avrebbe poi effetti molto gravi sulla nostra timida ripresa.
Allo stesso tempo, la sfida per il nostro governo sta nel cercare di intercettare quei flussi di capitale che oggi lasciano i mercati emergenti. Per farlo, però, serve un’economia che dia agli investitori la sicurezza di mettere i loro soldi in un Paese dalla burocrazia leggera e dove la giustizia è amministrata in tempi rapidi. Un obbiettivo che, al di là dei piccoli passi avanti di questi mesi, resta ancora molto lontano.