sabato 16 gennaio 2016

Repubblica 16.1.16
Stefano, il killer della classe accanto
Colto ma senza un lavoro, alle spalle anni di tossicodipendenza: viveva con la mamma
di Massimo Pisa

BREBBIA ( VARESE). Ai fari d’auto accesi all’alba non sono abituati qui alla Brüghera, corte di villette tirate su in cima a un viottolo dove un tempo c’erano i bachi da seta. Ci sono gli investigatori della Squadra mobile, adesso, su in casa e davanti al cancelletto dei Binda. Al signor Mauro, che li aveva visti anche a settembre e che sta andando a lavorare, dicono che sono solo «accertamenti giudiziari». Il vicino intuisce: «Sapevo che erano per Stefano. E per la storia di quella ragazza. In paese lo dicevamo da allora che qualcosa di storto c’era». Un presunto assassino, portato in carcere diecimilaseicento giorni dopo l’omicidio del Sass Pinin. In casa rimangono mamma Mariuccia, vedova da quel 1987 che si portò via il marito Piero costruttore di camini, e la sorella maggiore Patrizia che col suo impiego alle Generali porta l’unico stipendio in casa. Tapparelle socchiuse, voci dall’interno, citofono muto per tutto il giorno. «Povera donna, che strazio — sospira l’anziana madre del signor Mauro mentre rientra in casa — ma chi ha fatto male si aspetti male». Non si vedevano mai in cortile, nemmeno per le feste e gli aperitivi estivi.
Stefano Binda è andato a letto presto in questi 29 anni. «Non ha una famiglia propria, non ha figli minori, non ha un’attività lavorativa avviata», lo incornicia il gip Anna Giorgetti quando sottolinea le probabilità di una sua fuga. Passava da qualche anno le giornate nei bar di Brebbia, chiacchieroni finché non si presenta un forestiero. Al Relax, al Manzoni, all’albergo, fumava e chiacchierava, sempre gentile, «la persona più buona del mondo. Poi in parrocchia e coi ragazzi di Magre Sponde, associazione culturale di paese. All’epoca dell’omicidio Macchi non andavano nemmeno alle elementari. Ora scuotono la testa, ripetono che è impossibile: «Una personalità complessa — lo ritraggono — con tanti aspetti ma non farebbe male a nessuno ed è un uomo molto colto: ha un PhD, oltre alla laurea in Filosofia». Per loro curava «Camera scura», la rassegna cinematografica del Festival di fine estate di Brebbia. «E parlavamo di tutto, anche dei problemi e degli errori del passato».
L’antica fascinazione per l’eroina la mise a verbale lo stesso Stefano Binda, lo scorso 7 agosto, e risale alla fine del 1984. Lo aveva iniziato il suo amico Fulvio, che poi morirà nell’88 fulminato da un’overdose. Lo sapeva Giuseppe, che oggi fa il prete ma nel febbraio dell’87 provò a fornire un alibi (poi smentito da altri testimoni) a Binda, quando nemmeno era sospettato: disse che era in gita con un gruppo di Gioventù Studentesca, a Pragelato, fino al 6 gennaio, per poi cambiare versione quattro giorni dopo. L’aveva intuito, quel legame con la droga, Patrizia. Oggi professoressa, allora infatuata, poi solo amica: «Ne ammiravo cuore, anima e intelligenza — confidò agli investigatori — ma si è sempre dichiarato misogino, una volta mi ha baciata ma poi si è pentito di essersi lasciato andare». È lei il perno della nuova inchiesta. Va una prima volta alla Mobile di Varese dopo aver visto uno speciale di Quarto Grado su Lidia: dice che al Sass Pinin, quella boscaglia piena di siringhe dove l’amica fu massacrata, aveva visto Fulvio e Stefano bucarsi; e poi che quei versi di Cesare Pavese («Verrà la morte e avrà i tuoi occhi») trovati nella borsa di Lidia, erano un cavallo di battaglia di Stefano. A metà 2015, dopo aver visto su un quotidiano la grafia della lettera anonima «In morte di un’amica», arrivata alla famiglia Macchi nel giorno dei funerali della vittima, porta alla Mobile le cartoline speditele da Binda, con i quali i grafologi lo inchiodano.
Ma lo sapeva, doveva saperlo anche Lidia, del vizio di Stefano. Quello che lo portò in comunità dal ‘93 al ‘95, e la signora Mariuccia giù in paese a dire di avere un figlio al militare, poi obiettore, pietosa bugia. E ancora pizzicato da una pattuglia per guida sotto l’effetto dell’eroina nel 2010. A Natale 1986 la giovane aveva comprato libri sulle tossicodipendenze. Si erano conosciuti al Liceo Cairoli, poi Binda era andato a studiare ad Arona ma era rimasto sempre in giro, tra scout e Cl. E poi a casa di Lidia, ben accolto dai genitori, tanto che oggi la signora Paola, madre della ragazza, sospira: «Fosse così sarebbe ancora più triste, era uno di casa. Nicoletta, Fabrizio, Francesco, Giovanna, don Fabio, il gruppo di allora riascoltato dagli investigatori, lo tratteggiavano come «ironico», «affabulatore», «intellettualone, «baudeleriano», «una sorta di capoclasse». Per il gip, una personalità tormentata da fede, sentimento ed eroina. Capace ancora di conservare a casa una vecchia foto di Lidia e le agende del 1987, con le pagine strappate tra il 4 e l’8 gennaio. Qualche giorno dopo annotava: «Distrutto tutto. Giuro».