Repubblica 10.1.16
Il corpo delle donne e il desiderio di libertà di quegli uomini sradicati dalla loro terra
Lo
scrittore algerino sui fatti di Colonia: “Del rifugiato vediamo lo
status, non la cultura. E così l’accoglienza si limita a burocrazia e
carità, senza tenere conto dei pregiudizi culturali e delle trappole
religiose”
Nel mondo di Allah il sesso rappresenta la miseria più grande
L’islamismo è attentato a quel desiderio che esplode in Occidente
di Kamel Daoud.
Cos’è
accaduto a Colonia? Leggendo i resoconti si fa fatica a comprenderlo
con chiarezza. Forse però sappiamo cosa passava nella testa degli
aggressori e come di sicuro come la pensano gli occidentali.
Il
“fatto” in se” è espressione fedele dell’immagine che gli occidentali
hanno dell’Altro, il rifugiato/immigrato: spiritualismo esasperato,
terrore, riaffiorare della paura di antiche invasioni e base del binomio
barbaro/civilizzato. Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le
“nostre” donne, aggredendole e stuprandole. Una nozione che la destra e
l’estrema destra non tralasciano mai di esporre quando si pronunciano
contro l’accoglienza ai rifugiati. I colpevoli sono immigrati arrivati
da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o
sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che
queste domande abbiano risposta. Il “fatto” ha già riaperto il dibattito
sull’opportunità di rispondere alle miserie del mondo “accogliendo o
asserragliandosi”.
Spiritualismo esasperato? Già. In Occidente
l’accoglienza pecca di un eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo
stato ma non la cultura. È la vittima sulla quale gli occidentali
proiettano pregiudizi, senso del dovere o di colpa. Si scorge in lui il
sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima di una trappola
culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna.
In
Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà salvare il suo corpo ma non
patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne
dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a
sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi
il rapporto con la donna — fondamentale per la modernità dell’Occidente
— rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura,
compromesso o desiderio di conservare la “propria cultura”. Ma tutto ciò
può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di
ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici e si esplicano
attraverso la carità.
Il rifugiato è dunque un “selvaggio”? No. È
semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un
giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre
dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da
quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel
mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con
la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è
negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un
desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine
orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare
palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di
tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima.
Il corpo
della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma
non a lei. Qualche anno fa, a proposito dell’immagine della donna nel
mondo detto arabo si scrisse: «La donna è la posta in gioco, senza
volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per
tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio
proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano,
escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di
vivere».
È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato, desidera
ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la
libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che
è lecito o della “virtù”.
Il corpo della donna non è visto come
luogo stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di
degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una
nefandezza da “velare”. La libertà di cui la donna gode in Occidente non
è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del
suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente
(quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata “l’essenza”
stessa della sua modernità — laddove l’aggressore non ha visto altro che
un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute.
Colonia
è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli elaborati dall’estrema destra
che evoca le invasioni barbariche e quelli degli aggressori, che
vogliono che il corpo sia nudo perché è “pubblico” e non appartiene a
nessuno. Non si è aspettato di sapere chi fossero i responsabili, perché
nei giochi di immagini, riflessi e luoghi comuni, tale dato non conta
poi molto. E non si vuole ancora capire che dare asilo non significa
semplicemente distribuire “carte” ma richiede di accettare un contratto
sociale con la modernità.
Nel mondo di “Allah”, il sesso
rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare vita a un
porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri
“fedeli”, evocando un paradiso che più che a una ricompensa per credenti
somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai
corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka.
L’islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo
desiderio esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente.
Perché “da noi” non esiste via d’uscita se non dopo la morte e il
giudizio universale. Ritardo che fa dell’uomo uno zombie, o un kamikaze
che sogna di confondere la morte con l’orgasmo, o un frustrato che spera
di raggiungere l’Europa per sfuggire alla trappola sociale della
propria debolezza.
Ritornando alla domanda iniziale: Colonia ci
insegna che dobbiamo chiudere le porte o chiudere gli occhi? Nessuna
delle due opzioni: chiudere le porte ci obbligherebbe un giorno a
sparare dalle finestre, un crimine contro l’umanità. Ma anche quello di
chiudere gli occhi sulla lunga opera di accoglienza e di aiuto, e su ciò
che questa comporta in termini di lavoro su se stessi e sugli altri,
sarebbe un atteggiamento di spiritualismo esasperato, in grado di
uccidere.
I rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a
una minoranza delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei
“valori” da condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il
problema del dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci
carico.
( traduzione di Marzia Porta)