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La legge morale nei nostri neuroni
di Nico Pitrelli
Kathinka
Evers è una filosofa svedese, esperta di neuroscienze, il cui percorso
non è facilmente inseribile negli schemi della tradizione accademica.
Studiosa di logica e fisica, ha poi ampliato il suo interesse alla zona
di confine tra scienze del cervello, filosofia morale, etica e
sociologia, con un’influente attività di ricerca espressa anche in un
articolo-manifesto del 2015 apparso sul magazine letterario 3:AM,
simbolo della controcultura londinese degli anni Zero.
La
neuroetica è una giovane disciplina, che da un lato indaga e riflette
sulle implicazioni etiche e giuridiche della ricerca neuroscientifica,
dall’altro mira a comprendere le basi cerebrali dei comportamenti
morali. Il peso della filosofa svedese in questo campo deriva dalla sua
carica di co-direttrice dello Human Brain Project (Hbp), una delle più
ambiziose iniziative di neuroscienze mai intraprese a livello mondiale.
Selezionato dalla Commissione europea nel 2013 tra i due progetti “faro”
su cui l’Unione ha deciso di investire più di un miliardo di euro fino
al 2023, l’Hbp ha lo scopo di simulare attraverso un supercomputer il
funzionamento completo del cervello umano, un obiettivo scientifico e
tecnologico mastodontico.
«È ovvio immaginarsi che tipo di
interrogativi susciterà un cervello umano simulato, se mai verrà
realizzato», afferma la studiosa dell’Università di Uppsala. «Essi
riguarderanno la sfera personale, sociale ed etica (ad esempio, si può
“uccidere” un cervello simulato, interrompendone il funzionamento, in un
modo pertinente sul piano morale?)». La neuroetica avrebbe gli
strumenti concettuali per disinnescare il rischio di trasformare gli
ambiziosi progetti sul cervello in potenziali minacce e paure per gli
individui e la collettività, presunte o reali che esse siano.
Ma,
spiega a pagina99 Stefano Canali, filosofo delle neuroscienze alla Sissa
(Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste, «siamo
ancora molto lontani dall’avere a disposizione cervelli sintetici. Le
simulazioni dell’Hbp potranno riguardare a breve meccanismi fisiologici
precisi o specifici disturbi neurologici. Altra cosa è usare queste
macchine per comprendere i comportamenti morali». Un’ambizione che si
scontra con un nodo filosofico di fondo: il fatto che, continua Canali,
«per realizzare le nostre esperienze coscienti e soprattutto mediare le
azioni morali, il cervello ha bisogno di un corpo e di poter interagire
con altri individui, abitando e allo stesso tempo costruendo e
modificando insieme ad essi uno spazio di simboli e valori».
È un
aspetto che il progetto europeo del supercomputer sottovaluterebbe,
secondo lo studioso italiano, ma che rappresenta efficacemente la
direzione in cui, secondo Evers e colleghi, si dovrebbero dirigere più
incisivamente gli sforzi di ricerca nei prossimi anni: verso la
neuroscienza dell’etica, un’area dove i dati neurologici e la
riflessione filosofica s’incontrino su temi fondamentali come il libero
arbitrio, l’autonomia, l’autocontrollo, la responsabilità, il conflitto
tra ragione ed emozione.
Quali sono le basi neuronali del nostro
senso morale? Come funziona il nostro cervello quando eseguiamo atti che
associamo alla libera scelta? Sono interrogativi che hanno trovato
diritto di cittadinanza scientifica grazie agli sviluppi delle
neuroscienze. «Gli studi sul cervello», afferma Canali, ideatore e
organizzatore di una scuola di formazione in neuroetica, tra le poche
strutturate in quest’ambito nel nostro paese, «hanno dimostrato che
linguaggio, memoria, emozioni, percezioni, controllo volontario del
comportamento sono sistemi funzionali semi-indipendenti tra di loro,
seppur integrati. La dissoluzione dell’integrità dell’Io rende assai
problematica l’indagine sulla natura e il funzionamento dell’agente
morale. A quale parte della nostra mente dobbiamo attribuire la
responsabilità morale? Ad esempio è possibile che una lesione o una
malattia, ma anche eventi traumatici o stress protratti, compromettano i
sistemi cerebrali che permettono il controllo volontario del
comportamento. In questo caso, gli altri apparati funzionali possono
continuare a operare normalmente, compreso quello che media le reazioni
emotive». Può così accadere che un comportamento «impulsivo, violento o
immorale, non venga frenato anche quando la persona riconosce la sua
inadeguatezza e desidera inibirlo».
Le neuroscienze attuali stanno
dimostrando che gli eccessi di stimoli, i sovraccarichi di microscelte,
il multitasking, sembrano erodere il controllo volontario del
comportamento e le capacità empatiche, mettendo costantemente a rischio
le nostre competenze morali. Si pensi ad esempio alle moltiplicazioni
delle interazioni digitali, all’overload informativo sul web, alle
sollecitazioni appetitive a cui siamo sottoposti nei corridoi di
qualsiasi supermercato. Sono tutti processi che richiedono al cervello
dosi cospicue di risorse computazionali e anche tempi congrui di
elaborazione. Oggi però è richiesta anche una velocità di analisi che
può interferire con le modalità con cui interpretiamo i segnali emotivi
propri e altrui. I sovraccarichi cognitivi, dunque, possono farci agire
in modo eticamente problematico: ad esempio non prestando aiuto a
qualcuno in difficoltà, manifestando apertamente un pregiudizio, agendo
in modo esclusivamente utilitaristico e con questo causando danno ad
altri.
La neuroetica a questo proposito sottolinea come gli studi
sperimentali stiano rivalutando in termini scientifici il peso della
società nella responsabilità etica personale. A rinnovare profondamente e
rendere dirompenti gli interrogativi sul libero arbitrio è stato poi
soprattutto lo sviluppo delle cosiddette tecniche di neuroimaging, in
grado di misurare la relazione tra attività di determinate aree
celebrali e specifiche funzioni.
In Italia, negli ultimi anni,
diversi testi hanno affrontato questi temi. Tra essi si possono
segnalare Neuroetica. La morale prima della morale, edito da Raffaello
Cortina nel 2008 e scritto da Laura Boella, filosofa dell’Università di
Milano, e più recentemente Lo spazio della responsabilità, pubblicato
nel 2015 da Il Mulino e curato da Marina Lalatta Costerbosa
dell’Università di Bologna. Sono opere in cui si invita alla prudenza
quando ci si trova di fronte ai risultati che provengono dalle tecniche
di neuroimmaginie e che invocano una convergenza di saperi e competenze
plurali.
Approccio in linea con l’appello generale del manifesto
di Evers che chiama a una necessaria interdisciplinarietà di cui la
neuroetica dovrebbe farsi portavoce, sia «per contribuire a una migliore
definizione degli oggetti della ricerca, sia per rendere indagabili i
problemi che la filosofia affronta da millenni soltanto in modo
astratto», conclude Canali.