mercoledì 6 gennaio 2016

La Stampa TuttoScienze 6.1.16
Quanta poesia si nasconde in laboratorio
Nei legami inattesi tra formule e versi gli indizi della nostra creatività
di Marco Pivato

Scienziati e poeti sono «ingegneri» della cultura: alla loro creatività spetta il compito di elaborare i messaggi di una civiltà evoluta. Il poeta e critico Leonardo Sinisgalli lo sosteneva nel secolo scorso, auspicando una sinergia tra umanisti e scienziati.
Ho chiesto la collaborazione di molti professionisti delle «due culture» per verificare questa teoria, scoprendo prima conferme su quanti strumenti, metodi e scopi siano coincidenti nel mestiere di scienziati e poeti e poi quanto l’auspicata sinergia sia oggi necessaria. Linguisti, letterati, matematici e fisici, Nobel inclusi, si sono confrontati sulla comunanza di obiettivi nel proprio lavoro e il risultato di questa consultazione è confluito nel pamphlet «Noverar le stelle. Che cosa hanno in comune scienziati e poeti» (Donzelli).
Continuità tra scienza e poesia mi fu suggerita innanzitutto da Ezio Raimondi, oggi scomparso, padre dell’italianistica e filologo. «La poesia - secondo lui - è progettare il destino dell’uomo: ha il compito di colmare le distanze tra noto e ignoto e dunque i suoi messaggi hanno il ruolo, analogo a quello della scienza, di incidere sulla formazione della cultura, che è motore della civiltà». Nulla, per il linguista, esime lo scienziato e il poeta dall’interpretare l’uomo e la natura. L’esistenzialismo di certa poesia «romantica», per esempio, insegue quello della fisica moderna, che «con le sue “grandi domande” - sostiene il Nobel per la Fisica Serge Haroche - mette in scena il dramma della ricerca di un rapporto armonico tra sé e il mondo».
Scienza e poesia invocano risposte su origine e senso dell’Universo e dunque dell’uomo. Per Friedrich Schiller questa ricerca è frustrante, sebbene ineludibile: «Perché leggi in lei quel che tu stesso vi hai scritto?/ Perché ordini in gruppi per l’occhio le sue manifestazioni?/ Tese le tue cordicelle sul suo campo infinito/ T’illudi che il tuo spirito senta e comprenda la grande Natura». E se Leopardi si struggeva, chiedendo conto della ragion d’essere dell’amore, le neuroscienze non sono da meno nel proporre dinamiche biochimiche alla base degli affetti. Semir Zeki, neurobiologo allo University College di Londra, spiega la radice comune della contemplazione «scientifica» e di quella «poetica» che è, come sostiene Raimondi, il desiderio di conoscenza. «Come tutti i processi cognitivi - chiarisce Zeki - la conoscenza è un processo affettivo, perché si svolge grazie alle relazioni che instauriamo con oggetti e persone e quindi la nostra specie impara sia attraverso strumenti razionali sia irrazionali: ora con l’esperimento, ora con l’intuizione».
Scontiamo dunque la necessità di essere nutriti di conoscenza, che le neuroscienze cognitive mostrano essere naturale per la costruzione della società. L’attività contemplativa di scienza e poesia è allora una «tecnologia biologica» esclusiva, per quanto si sa, dei Sapiens. Peccato che scienziati e poeti siano oggi attori minori in un’epoca in cui - ed è la nota polemica del libro - il privilegio di fare il «brutto e cattivo tempo» è prerogativa di politici e opinion leader quasi mai capaci di tradurre la conoscenza in diritti e progresso.