mercoledì 6 gennaio 2016

La Stampa 6.1.16
Somalia, vietate le feste religiose ai cattolici
Il governo non vuole “provocare” i jihadisti
Ma nel Paese ormai non ci sono più preti per celebrare messa
di Andrea Tornielli


«Per noi il Natale è una messa seguita di nascosto alla televisione e il conforto di qualche messaggio che arriva da oltre confine...».

Yusuf (il nome è di fantasia), è un cristiano cattolico di Mogadiscio. Uno dei circa trenta autoctoni che sono rimasti nella capitale somala colpita spesso dal terrorismo fondamentalista.
Quest’anno il governo ha proibito di festeggiare Natale e Capodanno, ma per gli ormai pochissimi cristiani «anonimi» il provvedimento non ha cambiato di una virgola la loro situazione: da anni non hanno sacerdoti né la possibilità di assistere alla messa e di ricevere i sacramenti. Ufficialmente, come cristiani, non esistono. Per loro Natale e Pasqua erano feste «proibite» anche prima. Non ci sono infatti preti locali che senza attirare l’attenzione possano visitarli e celebrare segretamente nelle loro case. I missionari provenienti dall’estero non sono in grado di farlo: significherebbe mettere a repentaglio la loro vita e quella di chi li accoglie. Così le pochissime famiglie cristiane rimaste non sono conosciute come tali, se non dai vicini di casa.
«Anche quest’anno sono andato a Mogadiscio per celebrare le messe di Natale - spiega alla Stampa monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio - ma tutto è avvenuto nel compound delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, vicino all’aeroporto. Lì ho celebrato una prima messa in italiano e inglese per le truppe e i civili del gruppo italo-europeo, e una seconda in francese e inglese per il gruppo di militari del Burundi e dell’Uganda. I pochissimi cristiani rimasti in città non li ho potuti incontrare. Negli Anni Novanta ero potuto andare a trovarli e celebrare la messa per loro. Ma da allora non è stato più possibile».
Il divieto del governo
Secondo il vescovo Bertin, l’annuncio della proibizione di festeggiare le feste ha il sapore di un atto propagandistico per calmate i fondamentalisti di al-Shabaab, «ma ho pensato anche - confida - che servisse di monito per i somali che vivono in Europa o negli Usa e sono di passaggio in patria nel periodo delle vacanze: potrebbero aver preso l’abitudine di condividere qualche segno del Natale».
Sulla trentina di cristiani rimasti a Mogadiscio, il vescovo Bertin non vuole dire molto. Ammette di sapere che ci sono e di averli incontrati nell’agosto 2013, di sfuggita, in un hotel della città, poco prima di ripartire per Gibuti. Mantiene dei contatti telefonici e scambia con loro qualche email. «La popolazione non è fanaticamente anticristiana. Ciò che manca è uno Stato che garantisca protezione, ordine, legge. Tutto è stato distrutto da 24 anni di guerra civile». La principale preoccupazione dei cristiani «anonimi» di Mogadiscio non riguarda innanzitutto la libertà di culto, ma la sopravvivenza. «Non hanno i sacramenti, seguono qualche cerimonia alla tv, fanno la comunione spirituale. Ma le loro famiglie, come tante altre nel Paese, hanno bisogno di aiuti materiali, concreti. Manca il lavoro, manca il cibo. L’unica attività che la Chiesa cattolica svolge nel Paese è quella della Caritas. E ovviamente aiutiamo tutti, a qualsiasi gruppo etnico o religioso appartengano».
Le Corti islamiche
Dopo il 2000, con la nascita delle Corti Islamiche, anche gli ultimi missionari rimasti hanno dovuto lasciare il Paese. Gli ultimi sono partiti dopo la morte di suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, uccisa nel settembre 2006, nei giorni infuocati per le strumentalizzazioni seguite al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona. Ma la lista degli italiani consacrati e volontari laici assassinati nel Paese è lunga: l’ultimo vescovo residente a Mogadiscio, Salvatore Colombo, venne assassinato nel 1989, negli anni successivi sono stati uccisi in Somalia Graziella Fumagalli (1995) e Annalena Tonelli (2003).
«Dobbiamo sperare - conclude il vescovo Bertin - che riesca a prevalere la volontà della maggioranza della popolazione, che non è fondamentalista e non ha nulla a che fare con questo islam politico radicalizzato degli al-Shabaab». In Kenya, qualche settimana fa, poco distante dal confine somalo, i musulmani che viaggiavano in un pullman hanno sfidato i terroristi al-Shabaab rifiutandosi di dividersi dai cristiani che viaggiavano con loro e così li hanno protetti evitando la strage. Piccolo ma grande segno di speranza.