martedì 5 gennaio 2016

La Stampa 5.1.16
Non stare al gioco di chi contrappone Riad e Teheran
di Stefano Stefanini


Le vie per far fallire la pace sono infinite. Il Medio Oriente le ha sperimentate tutte con successo. La brusca rottura dei rapporti diplomatici fra Arabia Saudita e Iran mette un grosso bastone fra le ruote alla soluzione della guerra in Siria. L’alacrità con cui Riad e Teheran si sono precipitate sul piano inclinato del confronto bilaterale fa pensare che i rispettivi «partiti della guerra» non chiedano di meglio che ritrascinare la Siria nel baratro dell’ostilità fra sunniti e sciiti e costringere gli altri paesi a schierarsi da una parte o dall’altra. Questo il gioco cui non prestarsi.
Il processo negoziale siriano rischia di essere vittima delle reazioni a catena innescate dall’esecuzione dello sceicco Nimr-al-Nimr. Sarà ben difficile far nuovamente sedere Iran e Arabia Saudita allo stesso tavolo. La spaccatura sciita-sunnita riemerge come nota dominante della regione, non soltanto in Siria ma anche in Yemen e in Iraq – aprendo fronti di scontro nel Golfo dove regimi sunniti governano su minoranze, e persino maggioranze (in Bahrein), sciite. I protestanti iraniani, nei falò che accomunavano bandiere saudite, americane e israeliane, dichiaravano solidarietà ai fratelli sciiti in Arabia Saudita.
Da quattro anni la Siria è campo di battaglia dello scontro sciita-sunnita. La soluzione della crisi siriana è appesa al filo di un compromesso senza vinti né vincitori. Richiede che il fronte sunnita riconosca di non poter far piazza pulita della componente sciita-alauita su cui poggia il regime di Assad e che l’Iran rinunci alla predominanza su tutta la Siria, con l’appendice Hezbollah in Libano. E’ un boccone amaro da mandar giù per gli uni e per gli altri.
Era sembrato digeribile perché, fra alterne fortune, sul campo nessuno riusciva ad aver la meglio, e solo quando la serie di attentati (Ankara, Sharm el Sheikh, Parigi, Bamako) aveva messo la guerra all’Isis in testa alle priorità internazionali. L’obiettivo è condiviso da tutti – almeno a parole. Per eliminare lo Stato islamico è necessario che sunniti (Arabia Saudita e Golfo), sciiti (Iran, Hezbollah), Occidente e Russia facciano causa comune contro lo Stato islamico e accettino una soluzione politica per il futuro della Siria.
La prima incrinatura fra Russia e Turchia, in seguito all’abbattimento del Sukhoi-24 russo, non rompe l’unità d’intenti nella misura in cui sia Mosca che Ankara vogliono sbarazzarsi dell’Isis. La rottura fra Riad e Teheran profila invece il persistere della vecchia divisione di campi; per di più è adesso possibile trovare la Russia risolutamente in quello sciita e la Turchia in quello sunnita. Convinti, se non di vincere la guerra in Siria, di poter così negoziare la pace da posizioni di forza. A beneficiarne sarebbe l’Isis, sia per l’attenuarsi della pressione militare sia per le possibili connivenze della parte sunnita – ci sono state in passato.
Questo il motivo, per tutti gli altri, di non schierarsi da una parte o dall’altra.
L’anno elettorale limita, se non l’influenza, l’azione americana. Interlocutori come Putin o Erdogan non fanno sconti a un Presidente uscente; aspettano il prossimo. La diplomazia americana si muove con questa palla al piede, in parte compensata dal fatto che gli Usa restano il perno della coalizione anti-Isis.
La rottura fra Iran e Arabia Saudita non può non preoccupare l’Europa. Negli ultimi mesi del 2015 l’Ue si è finalmente risvegliata al fatto che non c’è soluzione alla crisi rifugiati senza soluzione in Siria. Senza ambire di sostituirsi agli Stati Uniti l’Ue può ora fare più vigorosamente da spalla all’iniziativa diplomatica in corso. Nel negoziato iraniano, Federica Mogherini ha guadagnato credibilità e rispetto con Teheran, con Kerry, con Lavrov. Può spendere questo capitale nel negoziato sulla Siria.
Nella nuova crisi, l’Europa deve però resistere a una doppia tentazione. La prima è di dare torti e ragioni: alla radice c’è una lotta di potere per la supremazia regionale che ha ben poco di moralità. La seconda è di fare dichiarazioni tanto banali quanto inascoltate, come un’educanda in un’osteria di porto. Meglio la laconicità pubblica, e la fermezza del linguaggio privato – se si vuol far politica estera.
Se vuole avere voce in capitolo, ed è il momento di averla, l’Europa deve evitare di farsi trascinare nella partigianeria sciita-sunnita e rinunciare a far la morale.