La Stampa 25.1.16
Il giudice tutto d’un pezzo e quel “no” galeotto sulla conoscenza di Boschi
di Gia. Pao.
C’è
un momento esatto, nella carriera di Roberto Rossi, 56 anni,
procuratore capo di Arezzo dall’estate del 2014, che può cambiare la sua
storia umana e quello che qui interessa il destino dell’inchiesta più
delicata e scottante tra le tante che affollano le procure italiane.
Quel momento è un “no” pronunciato da Rossi il 28 dicembre scorso e
l’inchiesta è ovviamente quella su Banca Etruria. Fino ad allora, la sua
storia era quella di una limpida e cristallina carriera di un
magistrato inquirente di provincia.
Ai giornalisti che chiedono
ormai ossessivamente del ruolo nell’inchiesta di Pierluigi Boschi,
risponde sempre: “Non parlo degli indagati, figuriamoci se parlo di chi
non è indagato”.
Fino al 28 dicembre, quando è stato sentito dalla
prima commissione del Csm per la presunta incompatibilità tra
l’indagine su Banca Etruria e il suo incarico di consulenza con il
governo, era abituato che a parlare per lui fossero le carte dei
processi istruiti e le condanne definitive assegnate agli imputati.
Perché
questo magistrato determinato e ambizioso dai modi garbati, che parla
sempre a bassa voce è uno che di risultati in carriera ne ha portati. La
sua storia di magistrato inizia alla procura dei Mantova, poi passa a
Siena. Arriva ad Arezzo alla fine degli anni ’90 e alcune delle vicende
più clamorose per questa città portano il suo nome. Nel 2005 la sua
inchiesta sulla gestione urbanistica della città fa cadere la giunta di
centrodestra. Tre consiglieri comunali arrestati, l’allora sindaco
Lucherini indagato. Un terremoto. In Cassazione molte condanne e qualche
prescrizione. Ce n’è anche per l’altra parte: lo scorso anno, a poche
settimane dal voto amministrativo, mette sotto indagine Pasquale Macrì,
assessore alla cultura della giunta di centrosinistra.
Secondo
qualcuno è anche per questo se dalle elezioni esce vincitore il
centrodestra, nella città considerata il feudo politico di Maria Elena
Boschi. Che è anche la città di Licio Gelli: Rossi indaga, salta fuori
una storia di evasione fiscale che riguarda proprio gli affari del fu
Venerabile. Arriva a ottenere il sequestro di Villa Wanda, ma il
processo si conclude con una prescrizione. Si occupa anche di finanza,
con il crac di Eutelia. Il patron Samuele Landi si è preso 9 anni in
primo grado per bancarotta fraudolenta.
Quando nel 2014 viene
nominato procuratore, il primo troncone d’inchiesta su Etruria è già
partito, sulla base della relazione recapitata in procura da Bankitalia.
Contesta all’ex presidente Giuseppe Fornasari una vita nella Dc, era
stato anche sottosegretario in due governi Andreotti e ad altri due
manager il reato di ostacolo alla vigilanza per aver nascosto a
Bankitalia la reale condizione della banca. A questo si aggiungerà poi
un fascicolo per false fatture, uno sui conflitti d’interesse dei
consiglieri e un altro ancora sulla truffa a danno dei risparmiatori.
Quando arriverà la ormai scontata dichiarazione d’insolvenza, ci sarà da
mettere in conto anche la bancarotta.
In mezzo però c’è quel 28
dicembre. Davanti alla Commissione gli viene chieste se conoscesse papà
Boschi o altri componenti della famiglia e Rossi risponde di no. La
settimana scorsa salta fuori su Panorama una vecchia inchiesta che
coinvolge proprio il papà della Boschi. Una storia di compravendite
immobiliari, l’accusa di turbativa d’asta ed estorsione conclusa con
un’archiviazione.
Il sospetto del Csm, che ha congelato
l’archivizione del procedimento, è che abbia mentito. La sua difesa è
che non ha mentito, intendendo la conoscenza come consuetudine o almeno
saltuaria frequentazione. E che lui Boschi non lo ha mai incontrato.
Intanto però anche la Corte di Cassazione ha chiesto al Csm gli atti. La
possibilità sempre più concreta è che l’indagine su Etruria passi a
qualcun altro.