La Stampa 23.1.16
Il viaggio al termine della notte è una nuova vita in Europa
Dove comincia l’inferno dei migranti
Lo scrittore turco più amato dai giovani e più iconoclasta racconta l’inferno dei migranti e dei trafficanti di clandestini
di Domenico Quirico
Una
volta in una stradina di un villaggio nigeriano, Paese dell’Africa da
cui partono a migliaia i migranti, ho visto fabbricare una cassa da
morto. Un vecchio e un ragazzo ci lavoravano attorno, alacremente,
squadrando con cura le assi, inchiodando, dando forma. Come fosse un
mobile qualsiasi, un tavolo o una credenza. La scena mi torna in mente
ogni qualvolta sento parlare dei «passeur», dei mercanti che trasportano
uomini da una terra ad un’altra terra in cambio di denaro e di
violenza. E mi è venuta in mente quando ho chiuso l’ultima pagina di
Ancòra, il nuovo duro, vibrante romanzo dello scrittore turco Hakan
Günday (in libreria dalla prossima settimana). Giovane talento che usa,
santamente, la letteratura come esplosivo, per mettere a nudo le viscere
marce del mondo: in particolare della sua Turchia a cui dedica nel
libro una definizione fulminante: «la differenza tra l’oriente e
l’occidente è la Turchia…»
Il protagonista Ahad, un bambino, è
appunto un passeur in erba: con il padre trasporta i migranti in un
camion dalle frontiere del dolore e della guerra fino agli imbarchi
sulle rive dell’Egeo, verso quella che chiamiamo la «rotta balcanica».
Ho
pensato a quella scena perché trasportare l’umanità della Migrazione,
farne un «lavoro» redditizio, è in fondo come fabbricare casse da morto.
Davanti a una simile scena e a simili storie puoi avere due
atteggiamenti: uno alla Amleto di considerazioni sulla vita e la
fugacità di essa. L’altro di interesse per quel lavoro, i suoi riflessi
economici e sociali, il guadagno che se ne trae, le possibilità di
impiego (poiché i migranti sono molti, milioni, quasi quanto sono i
morti rispetto ai vivi).
Ho conosciuto i migranti. E ho conosciuto
i «passeur», a decine : tunisini e maliani, nigeriani e libici, siriani
e turchi. Sono loro e soprattutto i loro inermi, fragili «clienti» che
stanno riscrivendo la storia del terzo millennio, dal suo inizio. Gli
uni e gli altri potrebbero essere la parabola di come nell’uomo si
celino insieme il Bene e il Male, e una sola parabola così sarebbe
sufficiente. Ma né Ahad ne le sue vittime sono esempi unici del nostro
tempo. Non sappiamo quanti migranti siano morti e quanti torturatori
continuino a lavorare proficuamente a quella bara. Scrivere della
Migrazione come della guerra è una iniziazione alla vertigine.
Dopo
averli incontrati (e di alcuni sono stato anche ospite e cliente) con
sincerità devo dire che non comprendo questi uomini. A punzecchiarli con
uno spillo, sanguinano? E’ la stessa domanda di chi alla fine ripensa a
questo libro, un Viaggio al termine della notte del nostro presente,
anche se di Céline in fondo manca la maggiore magia, che sono la lingua e
lo stile.
Dunque il piccolo Ahad porta uomini: afgani e
pachistani, siriani e iracheni, folla indifferenziata che conosce una
sola parola di turco «daha», «ancòra»: ancòra acqua cibo aria, che
chiede per non morire. Lui li chiude nel camion o in una
cisterna-prigione, alcuni per indifferenza o malvagità li lascia anche
morire. Già, perché mentre il padre è un vero passeur, un
professionista, in fondo Ahad è una creatura vigorosamente romanzesca,
totalmente romanzesca. Personaggio, non persona. Di fatto non esiste,
non può esistere. Il padre infatti considera i migranti oggetti: gli
sono affidati , viene pagato per spostarli intatti, vivi. Non sono per
lui esseri umani con sentimenti dolori speranze: sacchi di farina,
bidoni di benzina, cose come scrive sui falsi documenti del suo camion a
cui il capo dei gendarmi turchi finge di credere in cambio di denaro.
Ma
l’economia non è tutto e la tragedia di molti profughi e fuggiaschi non
è fare la fame nei loro paesi di origine: è il fatto che le loro menti e
i loro cuori fanno la fame. Durante il viaggio e quando, e se,
arrivano. Sono degli alieni.
Ahad i profughi li usa: per una sorta
di educazione al Male e per scoprire se stesso e il mondo, violenta le
ragazze in cambio di un pezzo di pane, costringe gli uomini a battersi
tra loro come animali, costruisce all’interno dell’infernale cisterna un
mondo di potere in miniatura che attraverso telecamere osserva come un
entomologo osserverebbe un formicaio.
Questo un passeur non lo
farebbe mai. Perché in realtà, terribile verità, non è un aguzzino che
cerca vittime. è un capitalista ligio alle regole del profitto e della
organizzazione.
I passeur che ho conosciuti trasferiti in
qualsiasi Borsa del mondo si farebbero largo senza problemi, non
dovrebbero imparare nulla: conoscono a menadito le regole per fare
denaro. E forse un giorno dietro fortune molto rapide e misteriose
scopriremo un’ attività di «trasporti», nel Sahel o nel Mediterraneo, o
tra le montagne del Kurdistan… Non è a caso se Robinson, esempio
dell’uomo bianco e della sua capacità di modificare il mondo anche il
più vuoto e ostile, era un... mercante di schiavi!
Scrivere un
libro sulla Migrazione è impresa ardua, fatale. Forse basterebbe
pubblicare i verbali polizieschi, gli interrogatori dei passeur
arrestati, pochi, molto pochi. Eppure i reportage, i saggi, la realtà
non bastano. Ci annoia sentirci ricordare l’agonia di un popolo, e i
migranti sono il popolo nuovo di questo tempo. La morte della
immaginazione, la morte del cuore sono malattie fatali. O forse temiamo
di sapere perché temiamo di dover esaminare le nostre coscienze,
prendere atto delle nostre responsabilità e del nostro immenso egoismo.
Sì, la morte e il dolore di uomini innocenti appartengono al nostro
tempo.
Dobbiamo sapere tutto, dobbiamo riconoscere ogni sintomo,
ogni segnale. Ancòra appartiene a quel piccolo numero di libri in cui,
superata la linea di una scrittura estrema, al limite del brutale,
finite le forti impressioni, si comincia a soffrire e a capire.