mercoledì 20 gennaio 2016

La Stampa 20.1.16
Sanders sulle orme di Luther King per strappare a Hillary il voto dei neri
In Alabama il senatore liberal del Vermont fa il pieno di entusiasmo parlando di tasse ai ricchi, lotta alla povertà e welfare per tutti
di Paolo Mastrolilli

Bernie Sanders, 75 anni, senatore del Vermont, punta a conquistare i consensi anche negli stati del Sud dove, secondo l’entourage di Hillary, sarebbe uno sconosciuto

Questo è un affronto, una provocazione, un’invasione di campo. Bernie Sanders che passeggia per le strade di Birmingham nel giorno della festa dedicata a Martin Luther King, indossando il mantello del martire dei diritti civili per portare via a Hillary Clinton l’elettorato afro americano del Sud. «Onorare King - dice Bernie - non significa metterlo sul piedistallo, ma continuare la sua missione contro l’ingiustizia e la diseguaglianza. Solo io lo sto facendo».
A questo punto della campagna presidenziale, Hillary dava per scontato di aver già vinto, e invece Sanders la tallona nei sondaggi dell’Iowa, dove si vota il primo febbraio, ed è in lieve vantaggio in quelli del New Hampshire, dove i seggi aprono il 9. La teoria dei manager della Clinton è che se pure Bernie vincesse le primarie iniziali, poi andrebbe a sbattere contro il loro muro eretto al sud, dove la minoranza nera e quella ispanica non sanno chi sia questo senatore bianco del Vermont. Fonti interne della campagna, però, ammettono che «questa stessa strategia aveva fallito nel 2008 contro Obama. Abbiamo sottovalutato Sanders». Lui lo sa, e perciò viene a sfidare Hillary sul suo terreno.
Bernie arriva di primo pomeriggio nella città dove King aveva predicato, e dove nel 1963 era stato arrestato, pubblicando la «Letter from Birmingham Jail» che sarebbe diventata il manifesto della lotta contro il segregazionismo. Come prima cosa va in pellegrinaggio alla 16th Street Baptist Church, dove in quello stesso anno il Ku Klux Klan aveva messo una bomba, uccidendo quattro bambine, tra cui un’amica di Condoleezza Rice. «Questo - dice Sanders - era terrorismo». Una parola che non pronuncerà più in tutta la giornata, neppure per ricordare la minaccia dell’Isis.
Acclamato dai supporters
L’appuntamento con i fans è alle sette di sera al Boutwell, lo storico auditorium di Birmingham, dove ci sono ancora i manifesti dei concerti dei «Jackson Five». Ad accoglierlo trova 5.700 spettatori dentro, e 1.400 rimasti fuori al gelo per guardarlo sul maxischermo. Hans Koehler, studente liceale che vota quest’anno per la prima volta, spiega perché i giovani stanno con Bernie: «Ho sempre pensato di non contare nulla, ma lui mi ha convinto del contrario. Sta riportando la democrazia in America».
Gli altoparlanti sparano a tutto volume «Talking about a Revolution» di Tracy Chapman, e Claudia Croxton si commuove: «Sono una figlia dei fiori. Con Sanders stanno tornando gli anni ‘60». Poi urla lo slogan che accompagna ovunque i suoi comizi: «Feel the Bern!», senti il calore della fiamma. Ann Gitonga è nata in Kenya ma è cresciuta a Birmingham, e quando le fai notare che secondo Hillary i neri stanno con lei, si mette a ridere: «Ah sì? Questa l’avevo già sentita nel 2007, quando qui venne a parlare un senatore di nome Obama». Ci sono persino i «Veterans for Sanders», a smentire che è inaffidabile sulla sicurezza nazionale, e i pentiti come Darryl Weatherspoon: «Io faccio il poliziotto e sto con Hillary, perché ha più esperienza». D’accordo, ma allora cosa ci fa qui? «Beh, le idee di Bernie sono interessanti. Ci sto riflettendo...».
Sul palco per introdurre Sanders sale Cornel West, l’ex professore nero di Princeton che era stato un grande elettore di Clinton, ma ora ha mollato la moglie: «Sorella Hillary - urla - tu sei una “Wall Street Democrat”, stai nelle tasche di ricchi banchieri. Solo Bernie ha l’integrità per salvare l’America».
«Noi, gli anti Wall Street»
Quando lui finalmente appare, nella sala scoppia un boato: «Mi avevano detto che l’Alabama era uno stato conservatore. Devono essersi sbagliati». Ringrazia perché ha ricevuto 2,5 milioni di donazioni individuali, il massimo di sempre nella storia delle elezioni americane, per una media di 27 dollari l’una: «La nostra campagna non rappresenta Wall Street, non vogliamo i loro soldi». Così, però, nell’ultimo trimestre del 2015 ha raccolto comunque 33 milioni di dollari, solo 4 meno di Hillary. «Lo sapete cosa stava facendo King a Memphis, quando fu ucciso? Preparava una grande marcia contro la povertà, che avrebbe dovuto unire tutti, neri, latini, bianchi. Noi vogliamo portare avanti questa eredità, perché non è possibile che nel paese più ricco del mondo ci siano 47 milioni di poveri».
Lancia pure un appello all’Europa, in crisi economica e di identità, da cui vuole importare negli Usa il welfare che garantisce la sanità gratuita a tutti: «Non rinunciate a queste conquiste, sono prove di civiltà!». Le parole d’ordine usate per attirare i suoi elettori sono chiare: «Tasse ai super ricchi per finanziare la rinascita della classe media, investire nell’istruzione invece delle carceri, combattere l’eroina ma depenalizzare la marijuana, università pubblica gratis, lotta alla disoccupazione giovanile che colpisce il 51% degli afroamericani, alzare la paga minima a 15 dollari e garantire alle donne le stesse retribuzioni degli uomini, aspettativa pagata di tre mesi per i genitori quando nascono i figli, abbandonare i combustibili fossili».
A ogni slogan i fan urlano, ma lui li avverte: «Questa è una rivoluzione, ma non posso farla da solo. La rivoluzione siete voi, e riuscirà solo se il giorno dopo che sarò eletto continuerete a mobilitarvi a milioni. Così cambieremo l’agenda di questo paese, rendendolo più giusto, come voleva King».