sabato 16 gennaio 2016

La Stampa 16.1.16
Le regole della partita europea
di Marta Dassù

Il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, è chiaramente in difficoltà. Il suo famoso piano di investimenti è rimasto in larga parte sulla carta; le misure enunciate in materia di immigrazione hanno trovato forti ostacoli nelle divergenze fra Stati nazionali; il sistema di Schengen perde pezzi. La realtà, insomma, è che il perno del sistema decisionale europeo si è ormai spostato verso il Consiglio, dove siedono gli Stati nazionali. La Commissione decide poco, conta meno di prima e sta vivendo una crisi. Il nervosismo di Juncker lo conferma, inclusa la sua discutibile decisione di attaccare in modo così esplicito il premier di uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea, che dal 1994 è anche uno dei principali contribuenti al bilancio comunitario.
Si dirà che la carica polemica di Matteo Renzi nei confronti di Bruxelles (utilizzata anche per le ragioni di politica interna già illustrate da questo giornale) è stata parte del problema. D’accordo: ma la reazione di Juncker non è certo parte della soluzione. Anche perché il presidente della Commissione europea sembra dimenticare un dato essenziale: la Commissione non è più l’organo tecnico e neutrale degli esordi della costruzione europea. E non è più percepita così.
Con le ultime elezioni europee – attraverso il meccanismo della «pre-indicazione» del proprio Presidente da parte di ciascuno dei grandi gruppi politici – la Commissione si è di fatto politicizzata, mentre sono aumentati i poteri del Parlamento europeo. Gli scambi polemici con Bruxelles riflettono anche questa nuova realtà, confermando i dubbi di chi riteneva che non fosse una buona idea indebolire la «neutralità» (vera o presunta) della Commissione europea.
In ogni caso: un presidente scelto nel modo in cui lo è stato Juncker non può pretendere di essere al riparo da attacchi politici. Mentre il governo di Roma deve seriamente chiedersi fino a che punto questa escalation di toni risponda ai propri interessi.
Quali interessi? L’approccio europeo di Matteo Renzi si basa sul superamento della vecchia teoria del «vincolo esterno»: la convinzione di larga parte dell’élite politica italiana (dagli Anni 50 fino all’euro) che solo in nome (e per conto) dell’Europa sarebbe stato possibile introdurre riforme serie in Italia. Per il premier italiano sembra valere una regola quasi opposta: è interesse nazionale dell’Italia che l’Unione europea cambi radicalmente, dal momento che il «vincolo esterno», da incentivo positivo alle riforme, si è ormai trasformato in ostacolo negativo. Il dibattito austerità versus flessibilità – per quanto forzato da entrambe le parti – rispecchia questa tensione; così come le polemiche di Roma sui doppi standard a favore di un’Europa baltica che penalizza in vari campi (migrazioni, energia) l’Europa mediterranea. A differenza dell’europeismo tradizionale, Renzi sottolinea così che l’integrazione non elimina la competizione accesa e continua fra interessi nazionali. A differenza delle posizioni euro-scettiche, il premier è consapevole che, marginalizzandosi dall’Unione europea, l’Italia sarebbe penalizzata prima di tutto dai mercati, più che da Bruxelles.
Se l’impostazione mi pare essere questa, giocare sul tavolo europeo una partita seria richiede tre condizioni. La prima è che il governo definisca in modo più preciso e complessivo gli interessi italiani in Europa, con i relativi trade-off. Ad esempio, sulla questione del raddoppio del gasdotto Nord Stream la posizione italiana appare oscillante; e non è così chiara sul Fondo da destinare alla Turchia in materia di rifugiati.
Si tratta di due dossier cruciali per Angela Merkel: la seconda condizione, infatti, è che l’Italia riesca a giocare la sua partita europea con i paesi che contano piuttosto che contro. Dalla Germania, Roma vuole e deve soprattutto ottenere progressi sulle politiche economiche. In materia di immigrazione, può compiere degli sforzi in più per aiutare la Cancelliera, dopo Colonia, a non indebolirsi troppo sul piano interno. Vedremo se Renzi giocherà questa mano nella visita a Berlino di fine gennaio. Con la Francia conviene ancora seguire, io credo, la vecchia regola aurea: di fronte a lacerazioni nell’euro-zona, Parigi penderà sempre verso Berlino. E sarà più vicina a Londra, che a Roma, nel Mediterraneo. Infine, l’Italia ha interesse a consolidare la propria posizione contrattuale, fra i Paesi dell’euro, aiutando la Gran Bretagna (Roma lo sta del resto facendo) a rinegoziare la propria posizione in Europa.
Una terza condizione importante è di non pregiudicare risultati parziali (i margini di flessibilità concordati in vista della legge di Stabilità) per la fretta di rilanciare ogni volta - anche se l’Europa di oggi è certamente un caso di «too little, too late».
L’Italia ha bisogno di riforme in Italia (e qui è un problema soprattutto nostro). Ha bisogno altrettanto di riforme in Europa (e qui contano anzitutto i rapporti di fiducia fra le principali capitali). Se Matteo Renzi vuole vincere la partita che ha dichiarato, deve giocarsela fino in fondo sia in casa che a Bruxelles. Mantenendo, sui due tavoli, uguale credibilità. Un’Italia marginale in Europa avrebbe tutto da perdere. Ma esercitare una vera influenza nell’Ue di oggi - allargata e divisa - è più difficile di quanto sia mai stato in passato. Esserne consci è il primo passo necessario per non varcare una linea sottile: quella che separa questo giusto obiettivo dall’illusione che basti poco per conseguirlo davvero.