lunedì 4 gennaio 2016

Il Sole 4.1.16
Sanità
Il federalismo della fecondazione
Ogni Regione ha regole diverse . Nel Sud costi a carico delle coppie
di Bianca Lucia Mazzei


Nel nostro Paese le coppie che per diventare genitori hanno bisogno di ricorrere alla fecondazione assistita devono fare i conti con regole e costi diversi da Regione a Regione. Accesso alle prestazioni e spese cambiano infatti da zona a zona, con un profondo divario fra il Sud e il resto d’Italia. La scarsità di centri pubblici o convenzionati - si vedano le grafiche) e le situazioni di deficit sanitario penalizzano soprattutto le coppie meridionali e si traducono in liste di attesa più lunghe, costi più alti e spostamenti obbligati verso le Regioni del Centro-Nord.
Dalla fotografia della situazione emerge un mosaico complesso caratterizzato, da una parte da una forte frammentazione regionale e, dall’altra, dalla progressiva demolizione della legge 40/2004, caduta, verdetto dopo verdetto, sotto i colpi della Corte Costituzionale.
La situazione territoriale
«La discrepanza fra Nord e Sud è notevole», dice Giulia Scaravelli, responsabile del Registro nazionale per la procreazione medicalmente assistita (Pma)dell’Istituto superiore di sanità. «Nel Lazio, in Sicilia, in Campania e in Calabria più dell’80% dei centri è costituito da strutture private non convenzionate, in cui i trattamenti vanno pagati integralmente».
Molte Regioni meridionali sono inoltre soggette a piani di rientro dai deficit sanitari. Una condizione che danneggia in particolar modo le coppie interessate alla fecondazione assistita perché le prestazioni di Pma (procreazione medicalmente assistita, sia omologa che eterologa) ancora non rientrano nei Livelli essenziali di assistenza nazionali (Lea). Si tratta, cioè, di prestazioni aggiuntive che le Autonomie con un piano di rientro non possono finanziare. «Non possiamo aggiungere voci non presenti nei Lea nazionali - spiega Elena Memeo, funzionario della Regione Puglia che si occupa dell’assistenza ospedaliera - e quindi tutti i trattamenti sono a carico degli utenti, anche quelle effettuate nei centri pubblici».
La Puglia è stata anche la prima Regione a decidere di non rimborsare più le prestazioni effettuate in altre Regioni. Una scelta via via seguita anche da altre autonomie meridionali. Oltre ai costi dei trasferimenti le coppie devono quindi farsi carico anche delle spese dei trattamenti. «Essendo a pagamento in Regione - continua Memeo - non era più possibile rimborsare prestazioni fatte altrove».
«È in atto una macroscopica lesione del diritto di uguaglianza rispetto alla stessa prestazione sanitaria, con grave penalizzazione tra Nord e Sud e tra Regione e Regione», accusa Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Anche nel Lazio, Regione non meridionale ma pure in piano di rientro, la situazione è complicata. Un provvedimento in fase di predisposizione dovrebbe prevedere una parziale compartecipazione pubblica alle spese, così come ai rimborsi. Nel frattempo, però, la situazione è alquanto confusa, visto che i pochi centri pubblici autorizzati si regolano in maniera differente e con tariffe diverse.
Uniformità cercasi
Per uniformare le normative regionali ed evitare disparità, nel settembre 2014, all’indomani della sentenza con cui la Consulta aveva cancellato il divieto all’eterologa, la Conferenza dei presidenti delle Regioni varò un atto di indirizzo che prevedeva l’inserimento della Pma nei Lea regionali (visto che non erano presenti nei Lea nazionali). A recepirlo sono state però solo alcune Regioni del Centro-Nord, come Emilia Romagna, il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, mentre la Toscana lo aveva addirittura anticipato.
Nessun inserimento nei Lea regionali invece in Liguria, che però rimborsa le prestazioni effettuate in altre Regioni mentre il Piemonte, che ha posto la Pma omologa a carico del servizio sanitario regionale già dal 2009, non ha ancora fissato le tariffe per l’eterologa perché in piano di rientro.
La ricomposizione di un quadro così frammentato è affidata all’introduzione della Pma nei Lea nazionali. Promesso da tempo dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin, dovrebbe avvenire con il loro aggiornamento (sono fermi dal 2001) che la legge di Stabilità 2016 (legge 208 del 28 dicembre scorso)?ha fissato entro febbraio . A quel punto i trattamenti diventeranno a carico del servizio sanitario nazionale: non dovrebbero quindi più esserci né differenze di costi, né negazioni di rimborsi per le coppie che “emigrano” in Regioni diverse da quelle di residenza. Rimarrà la disparità nella distribuzione fra centri pubblici e privati. Su questo fronte dovranno essere le Regioni ad attivarsi per potenziare le erogazioni delle strutture pubbliche e fare nuove convenzioni con quelle private.
Quel che resta della normativa
Mentre, a livello territoriale, sono cresciute le differenze regionali, sul piano nazionale la legge 40 è stata via via demolita dalle sentenze della Corte costituzionale. Peraltro, il destino della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita è apparso segnato fin dal suo esordio, nel marzo 2004: dopo l’insuccesso del referendum abrogativo (non fu raggiunto il quorum), la nuova disciplina cominciò infatti subito a infiammare le aule dei tribunali, arrivando più volte all’esame dei giudici delle leggi.
Nel 2009 la Consulta cancellò il tetto massimo di tre embrioni che potevano essere prodotti in ogni singolo trattamento e nel giugno 2014 diede il via libera alla fecondazione eterologa dichiarandone illegittimo il divieto. Nel 2015 venne invece eliminata l’esclusione per le coppie non sterili ma a rischio di procreazione di figli affetti da malattie genetiche, mentre l’ultima sentenza, quella dell’11 novembre scorso, ha bocciato l’ipotesi di reato relativa alla selezione degli embrioni finalizzata solo ad evitare l’impianto di embrioni da malattie genetiche di una certa gravità.