venerdì 22 gennaio 2016

Il Sole 22.1.16
Intrigo internazionale. Agenti segreti e questioni di opportunità politica
Una matrioska di storie che restano opache
La vicenda dell’assassinio di Alexandr Litvienko, in sé degna di una spy story, è parte di un più ampio scontro che si tenne in Russia all’inizio degli anni Duemila fra Vladimir Putin e alcuni oligarchi che erano stati suoi alleati nell’ascesa al potere e poi erano entrati in rotta di collisione con il Cremlino quando il nuovo leader succeduto a Eltsin aveva deciso che lo Stato dovesse riappropriarsi delle immense risorse energetiche. In questo scontro furono coinvolti fazioni dell’ex KGB diventato poi FSB, perché gruppi di agenti, durante la stagione di Eltsin, avevano ritenuto più redditizio integrare, per così dire, i magri stipendi post-sovietici mettendosi informalmente al servizio dei super ricchi.
Questo contesto, naturalmente, non toglie nulla all’estrema gravità delle accuse che sono state mosse a Putin, che se provate, secondo i canoni della civiltà giuridica e non assecondando tendenze letterarie o peggio ancora interessi politici, segnerebbero un punto di non ritorno.
Il 19 ottobre 2003, il giornale inglese «Sunday Times» annunciò con grande clamore l’esistenza di un complotto per uccidere il presidente russo Vladimir Putin: il piano prevedeva che un tiratore scelto lo colpisse durante un viaggio all’estero. Il «Sunday» aggiunse che l’organizzatore chiave del complotto era un ex maggiore dei servizi segreti russi, che avrebbe cercato il sostegno finanziario e la complicità del miliardario russo Berezovskij, entrato in forte dissidio col presidente russo. La notizia venne ripresa da tutti i maggiori quotidiani mondiali. Si aggiunse che la polizia britannica aveva arrestato due uomini, di 36 e 40 anni, che hanno cercato di entrare in contatto con il miliardario russo attraverso la mediazione di un altro ex ufficiale dei servizi segreti, Alexsandr Litvinenko. Putin lo aveva cacciato dall’FSB, quando era stato il capo del servizio segreto, perché lo riteneva infedele.
In quelle settimane l’oligarca Berenzoskij, ex eminenza grigia del Cremlino, era al centro di uno scontro tra le autorità russe – che su mandato della procura generale di Mosca ne chiedevano l’estradizione –, e il governo Blair, che gli aveva concesso l’asilo politico. Litvinenko, sostentato economicamente dall’oligarca, diventa a Londra, il suo braccio operativo. Nel 2002 finanziato da Berenzoskij, promuove un’iniziativa decisamente forte: la pubblicazione di un libro, Blowing Up Russia (Saltare in aria in Russia), da cui sarà anche tratto il documentario Assassination of Russia, nel quale si sosteneva che i sanguinosi attentati del 1998-99 non fossero stati opera dei ceceni, come accertato e condiviso in tutto il mondo, bensì orditi dallo stesso FSB, allo scopo di creare un clima favorevole alla guerra. Una mossa che scatenò l’indignazione di tutto l’apparato militare e dei servizi russi, oltre che dell’opinione pubblica. Una tesi che anche i più accreditati oppositori di Putin giudicarono non fondata.
Dunque, Vladimir Putin aveva molti motivi per avversare Litvinenko, a cominciare da una minaccia di attentato. Ma il leader del Cremlino aveva anche molto da perdere nel mettere in pratica atti violenti che il mondo avrebbe condannato. C’erano, però, sicuramente settori dei servizi segreti russi, ex colleghi di Litvinenko – che con lui avevano fatto parte di quei segmenti che si erano messi a fare lavori sporchi per gli oligarchi, che si erano molto risentiti quando lui aveva cominciato a minacciarli di rivelazioni sul loro recente passato.
L’intera vicenda è difficile da decifrare, oltre che nitida nel distinguere vittime e colpevoli. Una matrioska russa, appunto, perché all’interno di un’apparente verità se ne trova sempre un’altra e poi un’altra ancora.
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Gennaro Sangiuliano