il manifesto 24.1.16
Pd, la recita del dissenso
Minoranza. Pier Luigi Bersani e Gianni Cuperlo
di Alberto Burgio
È
sistematico: ogni volta che si approfondisce lo scontro sul governo, il
conflitto nel Pd si surriscalda. Ed è altrettanto sistematico che la
minoranza dem, la sedicente sinistra interna, alzi la voce e minacci
sfracelli. Per poi pentirsene e allinearsi obbediente.
I fatti,
innanzi tutto. La Direzione nazionale del Pd, riunitasi venerdì 22,
segue l’ennesima grave decisione della minoranza interna, quella di
votare compatta in senato lo scempio della Costituzione, fornendo al
governo — insieme ai senatori verdiniani — un contributo indispensabile
(una ventina di voti) all’approvazione della controriforma. È stato un
gesto clamoroso di sostegno al governo e al suo capo, dopo una settimana
nera per Renzi, in gravi difficoltà per lo scontro politico generale
sui diritti delle coppie omosessuali e per il profilarsi di qualche
seria sconfitta alle prossime amministrative. Non solo. La «sinistra»
del Pd ha soccorso il presidente del Consiglio proprio nel momento di
massima sofferenza per lo stringersi di una micidiale tenaglia: da un
lato l’attacco di Juncker per le critiche italiane all’austerità
europea; dall’altro lo stillicidio di indiscrezioni e il procedere della
talpa giudiziaria in merito alle vicende bancario-corruttive di Arezzo,
che vedono pesantemente coinvolti pezzi del cerchio magico renziano e
figure di rilievo degli entourages famigliari del ministro per le
riforme e dello stesso presidente del Consiglio.
Nella riunione
della direzione la minoranza ha lamentato la mancanza di «agibilità
politica» nel partito, ha posto la questione del doppio ruolo del
segretario-premier, che lo indurrebbe a trascurare il lavoro nel
partito, e ha attaccato per i voti dei verdiniani in senato, che
comportano a suo giudizio un allargamento della maggioranza
incompatibile con la vocazione riformista del Pd. Come se nella
maggioranza non ci fosse già Alfano. Come se, considerato il merito
delle «riforme» in questione, l’alleanza con Verdini non fosse più che
appropriata. Quanto al merito di una controriforma che stravolge la
Costituzione cambiando di fatto la forma di governo, di questo non si è
parlato, non era all’ordine del giorno. Del resto Cuperlo ha rivendicato
di averla votata adducendo il fine argomento che, se anche la «riforma»
è pessima, «fallire in questo tentativo produrrebbe una frattura ancora
più grave tra i cittadini e le istituzioni». Perfetto. Un capolavoro di
logica gesuitica che permette già di intuire come la «sinistra» del Pd
si muoverà in occasione del referendum confermativo, del quale pure oggi
osteggia la connotazione plebiscitaria imposta da Renzi.
Con ogni
evidenza, al di là di ogni sofisma, la «sinistra» dem ha un solo
problema: teme di contare domani ancora meno di oggi. Ovviamente è
legittimo che se ne preoccupi. Il punto è come cerca di difendere e di
rafforzare le proprie posizioni.
Che cosa fa la minoranza del Pd?
Ventila «spaccature» (altre inverosimili microscissioni) e avanza
timidamente, fra le righe, la richiesta di un congresso anticipato,
vagheggiato come la resa dei conti in cui inverare finalmente la
strategia bersaniana: riprendersi il partito; quindi, da posizioni di
forza, condizionare il presidente del Consiglio.
Il punto è che a
rendere improbabile questo disegno è proprio la «sinistra» dem, che ogni
qual volta Renzi si trova in difficoltà evita di attaccarlo e anzi
corre in soccorso del governo ogni qual volta c’è bisogno dei suoi voti.
Giacché è chiaro a tutti: Renzi potrebbe accettare di andare al
congresso prima del 2017 solo nel caso di una crisi di governo, proprio
quella crisi di cui la «sinistra» dem, naturalmente per «senso di
responsabilità», non vuole nemmeno sentir parlare.
E così, da
quasi due anni a questa parte, si ripete lo stesso copione. Sussurri,
grida e niente di fatto. Col risultato che, intervenendo in direzione,
Renzi non ha nemmeno risposto a chi lo aveva criticato per l’intesa con
Verdini chiedendo a gran voce «parole chiare» sulle strategie del
partito. Ridicolizzandolo.
Come commentare tutto questo? Ci sono
due possibilità: o la «sinistra» del Pd non ha ancora capito Renzi e non
decifra il conflitto con lui, dal quale per questo esce
sistematicamente sconfitta; oppure ha capito benissimo, e tutta questa è
soltanto una commedia in cui la minoranza dem recita la propria parte
in modo da non creare problemi al governo (e a se stessa) e da non
perdere altri pezzi e altri voti a sinistra. Quest’ultima è senz’altro
l’ipotesi più probabile, e del resto in essa vi è indubbiamente una
razionalità.
I Cuperlo, gli Speranza, i Bersani salvaguardano il
proprio ruolo, anche se dentro una dialettica virtuale e astratta. E,
con il puntuale aiuto dei media, mantengono viva una finzione che
permette ancora al Pd di presentarsi al paese, nonostante ogni evidenza,
come un partito «di sinistra». Ma si tratta di una razionalità ben
misera, a fronte delle conseguenze che la loro azione produce.
Al
riguardo non c’è da inventarsi nulla, basta stare sobriamente
all’evidenza delle cose. In poco meno di due anni il governo Renzi ha
dato alla luce una sequenza di «riforme» devastanti negli assetti
istituzionali della Repubblica, nel mercato e nei diritti del lavoro
dipendente pubblico e privato, nella struttura materiale del welfare,
nella distribuzione della ricchezza nazionale. A conti fatti, la
«sinistra» del Pd ha sempre sostenuto queste scelte, a tratti
recalcitrante, spesso silente, sempre al dunque ossequiosa e cooperante.
Mettendo in scena un conflitto interno fine a se stesso. Mostrando in
definitiva di non esserci. E dando per questa via il contributo di gran
lunga più cospicuo al consolidarsi della nuova specificità italiana:
quella di un paese che da tempo non annovera sulla scena politica
nazionale alcuna forza credibile dalla parte dei diritti sociali e del
lavoro.