il manifesto 21.1.16
Renzi chiama il popolo
Senato.
Ultimo voto di palazzo Madama sulla riforma costituzionale. Il premier
si prende la scena e lancia, direttamente in aula, la campagna per il sì
al referendum
di Andrea Fabozzi
«Andiamo a
vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il
plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a
Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica
sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del
Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a
maggioranza assoluta — 180 favorevoli — la sua riduzione a dopolavoro
per consiglieri regionali.
Un pomeriggio, quello di martedì, e una
mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali,
quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato
Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava
Weber. E Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della
crisi di rappresentanza» — lo sta facendo per motivare il suo voto a
favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua
replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.
Poi
il presidente del Consiglio in 35 minuti — chiusi da «viva l’Italia» —
ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del
paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere
riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una
delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal
giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da
visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere
passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro,
anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle “sue”
elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze
per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.
Siamo
già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale
casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il
presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però,
come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da
continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a
vedere con chi sta il popolo».
Con lui intanto stanno 180
senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale
la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della
maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità
in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli
stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima
lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha
votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per
appartenenza».
Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e
la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici
Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha
misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è
accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori
della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo
trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al
merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la
maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza
Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex
leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali,
perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il
cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre
Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di
mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.
Solo in un
punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a
modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il
sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo
ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il
governo — la fiducia monocamerale, le leggi a data certa — e la
maggioranza — la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del
Csm, del presidente della Repubblica — che Renzi ha aggiunto:
«Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole
della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più.
E molto
di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della
senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la
benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco). Per
quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima
commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha
uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il
contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e
sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo
ha capito meglio di tutti è Renzi.