il manifesto 14.1.16
Rimescolare le carte per vincere la partita
Si
tergiversa troppo. La battaglia referendaria, le lotte sul lavoro e
sulle iniziative internazionali non consentono tempi biblici. E’ il
momento del coraggio di provare
di Luciana Castellina
Domenica
si riunirà il Comitato Nazionale dell’Altra Europa per Tsipras ,
l’organismo — un centinaio di persone — eletto ormai parecchio tempo fa,
quando si decise di rendere stabile la rete dei comitati che aveva
partecipato alla campagna elettorale europea del maggio 2014. Sarà il
primo incontro dopo la così detta rottura del famoso tavolo incaricato
di negoziare come far partire il processo di costituzione di un nuovo
soggetto della sinistra, un passaggio dunque importante per tutti quelli
che ancora insistono nel puntare a questo obiettivo.
Dico “così
detta” rottura, perché una percezione così drammatica di quanto è
accaduto quel giorno io francamente non la condivido. Sebbene speri in
una sua ulteriore riflessione, ho compreso la posizione espressa con
molta onestà da Paolo Ferrero quando ha dichiarato l’indisponibilità del
suo partito anche solo di ipotizzare il proprio scioglimento, perché
Rifondazione è un partito molto strutturato e identitariamente
determinato. E ho pensato che per ora occorresse prenderne atto,
indicando subito, però, come stabilire un’intesa per continuare a
collaborare.
Il processo costituente del resto non è chiuso, è
appena aperto, e se funzionerà gli innesti potranno (e dovranno) essere
ancora molti.
Ho capito meno le reazioni che ho visto espresse on
line da molti dell’Altra Europa, perché non vedo francamente in cosa
consista il colpo di stato che sarebbe stato operato da chi ha deciso di
procedere con chi sia d’accordo nell’avviare un processo — che tutti
sappiamo lungo e per niente garantito — al termine del quale, e solo
allora, nascerà — forse — un soggetto unitario. Non un’alleanza
elettorale, e dunque non fondata soltanto sulla cessione di ciascuna
componente della sovranità in questa peraltro quantomai scivolosa
materia: questa l’abbiamo già sperimentata e non è stata mai brillante.
Fino
a quando non si rimescolano le carte — e cioè non ci si mischia anche
umanamente nelle stesse sedi; non si creano nuove amicizie e nuove
solidarietà; non si discute assieme senza la paura che un’ipotesi o
l’altra privilegi questo o quello; non ci si senta solidali anziché
pronti all’accusa reciproca; non ci si impegni a capire le ragioni
dell’altro, che non vanno solo rispettate ma anche usate come risorsa
critica per se stessi — non si andrà da nessuna parte. Per questo la
formula “arcobaleno” non va bene: significa immobilizzare le diversità
anziché farle vivere come positivo innesco.
Ho detto che quanto si
discute importa a chi ancora insiste nel puntare all’obiettivo del
nuovo soggetto, perché mi rendo conto che siamo sempre meno a sperarci e
io che sono piuttosto attempata comincio a sentirmi persino un po’
ridicola. Gli amici e compagni — tanti — che so che potrebbero esser
coinvolti nell’avventura cominciano a guardarmi come personaggio un po’
patetico. Il linguaggio del dibattito che si è sviluppato on line è di
per sé sufficiente a farsi passare la voglia: grondante di sospetti; a
prendere qualsiasi perplessità — pur comprensibile — da parte di chi ha
passato anni impegnato in questa o quella amministrazione locale come
mero desiderio di mantenere uno sgabello; qualsiasi impazienza per
intenzione di tagliar fuori questo o quello; un’intervista di Fassina
per indebito protagonismo (che qualcuno esca dal comodo Pd per unirsi
alla nostra, per ora almeno, armata brancaleone, non c’è tutti i giorni,
non vi pare?); e così via. Ce l’ho anche con chi, a una come me e a
tanti compagni anche parecchio più giovani di me, dice che siamo
compromessi col ‘900: certo che lo siamo, perché lo abbiamo vissuto
pienamente senza tirarci indietro. Ogni generazione ha evidentemente il
diritto di ricominciare daccapo: ma lasciamo a Renzi (e a Berlusconi)
giudicare quel secolo come fosse stato solo immondizia, gli serve a
cancellare tutte le cose che bene o male, e in mezzo a tanti errori, si
sono pur conquistate.
Io capisco i timori di molti compagni di
comitati locali per la possibilità che le organizzazioni nazionalmente
strutturate e persino dotate di una rappresentanza parlamentare possano
prevaricare le altre. Ma, suvvia, avete paura della “corazzata” Sel?
(Magari fosse una nave un po’ più solida!). Se si sentisse tanto
autosufficiente non si sarebbe resa disponibile a sciogliersi, tanto più
che c’è — ancora, per fortuna — aspettativa in una parte del popolo di
sinistra per uno nuovo corso, un’area che non si esaurisce con chi stava
a quel famoso tavolo e cui Sel potrebbe guardare. Credo che se Sel
insiste nel rapporto in particolare con l’Altra Europa sia per il
desiderio di non perdere una esperienza e una cultura — quella che è
stata chiamata “generazione di Genova” — che è propria invece ai
comitati o reti che a quel tavolo avevano fatto capo.
Sia pure
quantitativamente non decisivi, quelle forze sono importanti per
caratterizzare il nuovo soggetto che intendiamo costruire; ed è perciò
che l’apporto dell’ “Altra Europa” è importante. Ma non si può neppure
pensare che questa area rappresenti tutta la forza potenzialmente
aggregabile. Se tergiversa troppo, rischia di ignorare pericolosamente
l’importanza dei tempi politici: siamo alla vigilia di una battaglia
referendaria decisiva, di scadenze di lotta sui temi del lavoro e a
urgenze di iniziativa internazionale che non consentono tempi biblici.
Credo
sia il momento di avere il coraggio di provare. Cosa sarà il nuovo
soggetto della sinistra dipenderà da chi nel corso del processo ne
conquisterà l’egemonia (non il controllo, fido che tutti abbiano letto
Gramsci) . Perché di una egemonia c’è bisogno, perché se non riusciamo
ad esprimere una leadership, resteremo sempre paralizzati.
La
costruzione di un gruppo dirigente è stata per qualsiasi forza che
ambisca a cambiare il mondo uno dei processi più delicati e importanti,
non è una “bestemmia novecentesca”. E’ indispensabile se si vuole un
soggetto deliberante e capace di un pensiero lungo, non solo un
aggregato che testimonia confuso malessere. (Il 99% contro l’1% può
sembrare una bella formula ma non è un caso che quel 99 non vinca mai:
perché è facilissimo unirsi sulla protesta, difficilissimo sulle
proposte).
Non si evitano i rischi di prevaricazione, di
autoreferenzialità, di arrogante pretesa di essere il solo soggetto
della politica (questo il difetto maggiore del vecchio Pci), di
separatezza, in cui sono caduti vittime anche i migliori partiti ,
evitando di porsi questo problema. (Pensate al leaderismo estremo di
tutte le formazioni che si sono volute informali, dal Partito radiale, a
Cinque stelle in poi). Si evitano se si riescono a costruire, assieme
al partito (io lo chiamo così, ma anche questo è un tema da discutere),
forme nuove, stabili e partecipate di democrazia organizzata, che
investano il partito e lo costringano a ridefinirsi in rapporto alle
nuove soggettività che crescono nella società.
Ad impedire ogni
separazione interna fra vertice e base serve poi ben più che un insieme
di regolette lo sforzo di ridurre al minimo la distanza fra dirigenti e
diretti, che vuol dire anche trovare i modi di una crescita collettiva
che non separi chi sa (o pretende di sapere) da chi davvero non sa.
L’arbitrio ha sempre origine da qui.
E allora: possiamo farcela?
Potremmo se nessuno si ritrae con paura ma se tutti si sentono
abbastanza forti da contribuire a fare questa cosa che vogliamo fare.
Come sarà è esito ancora piuttosto aperto. Ed è naturale che sia così.
Perché la difficoltà dell’operazione non sta nella malafede di questo o
di quello, ma negli stravolgimenti che hanno colpito il mondo e che ci
costringono a ripensare tutto. Uno spaesamento di fronte al quale
purtroppo nessuno è riuscito a trovare strategie vincenti.
Ci sono
fasi della storia così, e noi siamo nel pieno di una di queste fasi. E’
una constatazione che rischia di diventare paralizzante, e infatti è
qui la radice di tanti abbandoni. Credo sia necessario impegnarsi
ugualmente perché c’è speranza di trovare una via se ci parliamo, con la
pazienza di ascoltarci reciprocamente, non se restiamo ciascuno a casa
propria.