il manifesto 12.1.16
Voi al governo, che cosa avete capito?
Pubblichiamo
ampi stralci dell’intervento del professore Zagrebelsky, letto ieri
davanti all’assemblea del comitato del No dal professore Francesco
Pallante
di Gustavo Zagrebelsky
Coloro che vedono
le riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si
aggrappano alla Costituzione perché è «la più bella del mondo». Sono gli
zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare
degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in
gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale
che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole
«democrazia» e «lavoro» che campeggiano nel primo comma dell’art. 1.
Quali
credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A
parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della
legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la
falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza
la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto
ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita
politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è
un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto
accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se
si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di
efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e
funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la «riforma»
come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere
acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato
eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice
d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro
politico.
Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto».
Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni
istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato
un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime
tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di
riferimento l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecutivi»! La politica esce
di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei
luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella
versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi
principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione
politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione
del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle
aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da
coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori
sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive
nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che
ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel
rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure che
ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti
sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori
siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa
problema: anzi il ritorno a condizioni pre-costituzionali si considera
un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti
come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a
intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno
cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola.
A questa desertificazione social-politica corrisponde perfettamente la
legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare «la sera stessa
delle elezioni» il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni
potrà governare controllando il parlamento attraverso il controllo del
partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e
non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle
larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime
guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle
responsabilità democratiche.
L’informazione si allinea; la vita
pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è
da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando
esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la
pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario
internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine;
nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i
nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a
produrre non cultura ma tecnica esecutiva. Può essere che questo è
quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo
sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che
non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti
dei più deboli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più
veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il
nostro paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza
sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in
termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci,
approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento
dello stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che
provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della
finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce
lo chiede l’Europa») sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari
(gli «analisti» della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella
quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le
costituzioni antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli
usciti dalle dittature (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità
che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione, ha
protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta
dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il «non detto» è
qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste.
Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a
«portare a casa» il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi
esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di
loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica.
La
chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva».
Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia
politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a
subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli
occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma
costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino
simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede
da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono
oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un
voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico
che di popolare non ha nulla.
I singoli contenuti della riforma
importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così
poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci
si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo
di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i
fautori della riforma — innanzitutto il presidente della Repubblica di
allora, il presidente del Consiglio, il ministro — e chiedere, come ci
chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui,
addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero
rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?