Corriere La Lettura 10.1.16
La cura del malato (e poi della malattia )
La
lingua del medico deve essere il «medichese» o qualcosa di meno preciso
ma accessibile come il «malatese»? L’iperspecializzazione tecnologica è
una promessa meravigliosa o anche una minaccia alienante? La sfida è
garantire un’assistenza umanamente completa
Scienziati-umanisti si
interrogano su una disciplina che si occupi prima della persona e poi
del paziente. Perché — come ammoniva David Karnowski, protagonista
dell’oncologia americana — è più importante sapere quale tipo di
degente
è colpito da una determinata patologia che non quale patologia affligge il degente
di Claudio Magris
A
un paziente si deve parlare in medichese , ovvero in un linguaggio
tecnico e scientifico, si chiedeva Gian Antonio Stella, ovvero in
malatese , in una lingua imprecisa e abborracciata ma accessibile
all’interessato, vero protagonista del dialogo che riguarda la sua
condizione, la sua salute, la sua vita o la sua morte? Roberto Finzi,
grande studioso di storia economica e autore di libri rigorosi e
godibili che spaziano nei campi più diversi, chiede alla direzione
dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna la cartella clinica di sua moglie
Mirella Bartolotti, deceduta nello stesso ospedale, per chiarire alcuni
suoi dubbi su cure prestate a quest’ultima che non gli sembrano adeguate
e riceve 450 pagine che, egli afferma, dissuadono da ogni lettura.
L’iperspecialità
— ha scritto Gianfranco Sinagra, che dirige in uno degli Ospedali
Riuniti di Trieste uno dei poli cardiologici più efficienti sotto ogni
punto di vista, tecnico e umano — corre il rischio di trascurare le
complesse e specifiche necessità del malato per concentrarsi soltanto
sulla malattia. L’esigenza di porre in primo piano l’individualità del
singolo malato e del suo caso, inquadrato in una determinata patologia e
tuttavia mai riconducibile totalmente e solamente ad essa, appare
sempre più sentita.
Nel suo libro Le trame della cura , Alfredo
Zuppiroli lo sottolinea ed esemplifica vigorosamente con vari casi
clinici e non è un caso che il suo libro esca in una collana di
«Medicina narrativa» curata da Geraldina Fiechter. Non certo il «romanzo
di medici» di una volta, che in Germania costituiva un genere
specifico, l’ Artztroman , drammi di medici impavidi in guerra con i
corrotti oltre che con le epidemie e spesso lacerati tra la loro
missione e toccanti vicende sentimentali. «Medicina narrativa» significa
— e il libro di Zuppiroli lo dimostra — che la scienza e in particolare
quella che affronta le sofferenze degli uomini ha bisogno non solo
dell’analisi tecnica, ma anche del racconto, necessario a ogni vita e a
ogni comprensione della vita, perché si pone contemporaneamente dalla
parte del tutto, della generalità della scienza, e dell’individuo,
sempre unico nella sua vicenda e anche nella sua malattia.
In uno
dei casi clinici illustrati e narrati, Zuppiroli cita Shakespeare: «Dai
voce al dolore!». I medici di domani a scuola d’umanità, ha scritto sul
«Corriere» Giangiacomo Schiavi in un articolo dedicato alla «nuova
filosofia» del Dipartimento di Oncologia della Statale di Milano, nuova
filosofia voluta da tempo da Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi. Una
medicina della persona più che del paziente, capace — scrive Schiavi —
«di gettare un ponte tra l’imbarazzato silenzio del paziente e il
benefico rumore dell’esistenza». Schiavi ricorda pure come un
protagonista dell’oncologia americana, David Karnowski, raccomandasse al
giovane Bonadonna che «è più importante sapere quale tipo di paziente è
colpito da una determinata malattia che non quale malattia affligge il
paziente».
In quale rapporto si pone con l’imperativo di questa
attenzione al singolo individuo la tecnologia, depositaria sempre più
tirannica del potere spirituale e temporale del nostro tempo? Osannata e
ancor più spesso vituperata, la tecnologia promette e minaccia,
contribuisce a salvare innumerevoli vite e crea possibilità di
distruggerne tante di più, sfida la fame e altera la stessa natura
dell’uomo, almeno quella che eravamo abituati a considerare la sua
natura immutabile. Nella medicina, specialmente nella chirurgia, i
progressi dovuti alla tecnologia sono stati e sono incredibili e hanno
contribuito a salvare tante vite umane. E tuttavia essa appare, a torto o
a ragione, spersonalizzante, livellatrice, il regno dei protocolli
generici e dell’indifferenza all’irripetibile unicità e particolarità
del singolo e delle sue necessità fisiche e psicologiche.
Gianfranco
Sinagra ha scritto un interessantissimo saggio su questo tema,
incentrato sulla sua specialità ma esemplare per l’analisi di tale
problema in ogni campo, La cardiologia del futuro: fra tecnologia,
empatia e sostenibilità . Egli si misura col duplice effetto della
tecnologia che, scrive, allontana e avvicina. Il suo è un serrato,
pacato e lucidissimo discorso sul rapporto fra malattia e malato e
relative modalità di terapia; egli sottolinea il grande abbattimento dei
tassi di mortalità a esempio nei casi di infarto miocardico, scompenso
cardiaco e aritmie ventricolari maligne, ma anche il pericolo che
l’iperspecialità e la categorizzazione ancorché raffinata delle malattie
trascurino le specifiche necessità del malato, che non ha solo un
preciso problema clinico chiaramente definito nei manuali, ma anche «la
sua età, il suo profilo di comorbidità, il suo contesto sociale
religioso culturale, la sua esigenza differenziata di interventi».
Le
«Linee Guida» generali sono dunque necessarie, ma non possono essere
l’unico strumento di approccio a tutte le situazioni. Si affaccia sempre
più imperiosa l’esigenza di coniugare preparazione generalista e
attenzione al particolare, la necessità di coordinare le relazioni tra i
vari terapeuti che seguono i diversi aspetti del male o dei mali che
aggrediscono il malato, per evitare che un’organizzazione cardiologica
si declassi a «federazione di isole specialistiche poco coordinate». Il
rapporto con il paziente, sottolinea con forza Sinagra, va inteso «in
senso moderno, non sterilmente nostalgico e paternalistico, e può,
talora deve, giovarsi di moderne tecnologie di telemonitoraggio e
teleassistenza», purché vi sia una regia umana qualificata e unitaria
attenta all’individuo concreto sofferente.
Attenta a evitare
aggressività ipertecnologica e supponenza ideologica, la medicina deve
partecipare alla ricerca del significato della morte e dei riti sociali e
culturali con cui si cerca di affrontarla, senza accanimento
terapeutico né petulanza eutanasica.
A monte di tutto questo c’è
quella che Sinagra chiama «l’equità di accesso alle cure». Equità che
per secoli e sino a epoca recente è stata calpestata dalle ingiustizie
sociali e che è ancora negata a centinaia di milioni di dannati della
terra. Anche in Italia — dove pure ci sono eccessi e sprechi di cure,
medicinali non necessari distribuiti a spese dello Stato e dunque di
ogni cittadino — esistono sacche di arretratezza, di equità negata, di
disuguaglianza feroce. Ma, aldilà di ogni buona e cattiva volontà e di
ogni buona e cattiva organizzazione sanitaria, quell’equità di accesso
alle cure e soprattutto l’attenzione alle specifiche esigenze del
singolo malato, la terapia individualizzata, l’empatia potrebbero venir
rese materialmente impossibili dal numero crescente di sofferenti, dalle
masse di diseredati che premono alle porte del nostro mondo o vivono in
condizioni subumane (foriere pure di malattie) nei più diversi Paesi.
Ognuno di essi è un individuo unico e insostituibile, che ha diritto di
essere ascoltato a fondo, ma il numero di chi ha bisogno e diritto di
aiuto potrebbe rendere impossibile dare a ognuno quell’aiuto, quella
cura umanamente completa di cui parla Sinagra.
Proprio nel
dipartimento cardiovascolare da lui diretto ho visto un paziente subire
un arresto cardiaco, istantaneamente segnalato sul monitor, e venir
soccorso dopo due o tre secondi, tanto da superare l’arresto senza la
minima conseguenza. Ma se, quando ha subìto quell’attacco, fosse stato
sistemato insieme ad altre centinaia di malati in qualche reparto
fisicamente lontano da quella sala perfettamente attrezzata, tanto da
rendere inevitabilmente troppo tardivo l’intervento? Come si può curare
con reale empatia un individuo, confrontandosi con tutta la sua
personalità, i suoi valori, i suoi sentimenti, quando se ne devono
curare migliaia? In un articolo sul «Corriere», Giuseppe Remuzzi ha
sottolineato come già adesso, con le disposizioni di legge che regolano i
turni dei medici, solo in Italia sarebbero necessarie molte nuove
assunzioni, per garantire un’assistenza — non ancora peraltro
individualizzata — ai malati.
La «Cardiologia del futuro»
prospettata e anticipata da Sinagra, chiedo a quest’ultimo, non potrebbe
esser resa impossibile, nonostante le tecnologie sempre più
sofisticate, proprio da questo futuro, che talora ci appare una Valle di
Giosafat, una moltitudine smisurata di sofferenti? La congruità
numerica del personale sanitario necessario ai servizi — risponde — in
particolare nel contesto dell’urgenza e terapia intensiva, è fuori
discussione ed esistono standard che consentono di stimare
ragionevolmente le risorse umane necessarie dati i livelli d’intensità
di cura e i volumi di attività di un servizio. Nel nostro lavoro però la
congruità quantitativa deve associarsi necessariamente alla qualità dei
professionisti che devono coniugare conoscenze, competenze nel fare,
rapidità nei tempi di reazione ai problemi e capacità empatiche e di
comunicazione con i pazienti e i familiari. Nei sistemi sanitari
complessi vi è poi la necessità che i professionisti ricerchino il
confronto costante e la condivisione con i colleghi, lavorando in team.
Ciò è particolarmente utile quando si approcciano pazienti cronici che
in genere oltre al problema acuto presentano elementi di fragilità
legati all’età e alle comorbidità. Un approccio collegiale è peraltro un
formidabile antidoto all’autoreferenzialità. Ci sono ovviamente scenari
di patologie acute nei quali l’atto medico è frutto della ricognizione
rapida e dell’azione responsabile del singolo professionista. In questo
caso essere gestiti in contesti qualificati con casistica congrua e con
una rete di servizi efficiente e ben coordinata diviene un potente
valore aggiunto per l’assistenza. La buona organizzazione, sistemi
aperti all’innovazione e al monitoraggio continuo e al miglioramento
delle performance sono fondamentali per l’efficacia delle cure.
Basterebbe ricordare come al di là delle professionalità e tecnologie
qualificate per il trattamento di un infarto miocardico acuto, sia
fondamentale la variabile organizzativa nel garantire tempi rapidi di
accesso alle cure.
La morte per un medico… Nella maggioranza dei
casi è la conclusione «fisiologica» della vita, spesso con il ruolo
favorente o determinante di una malattia e dei provvedimenti ad essa
correlati. Talvolta, purtroppo, è il frutto di una complicanza o di un
errore. La complicanza non è necessariamente frutto di errore poiché,
per quanto difficile da comprendere con gli strumenti umani e correnti
di conoscenza, può essere il decorso sfavorevole di una procedura
ritenuta utile ed essenziale su un essere unico e biologicamente non
sempre prevedibile come l’uomo.