venerdì 8 gennaio 2016

Corriere 8.1.16
Così il gioco al ribasso saudita ha acceso la grande polveriera
di Giuseppe Sarcina


NEW YORK Ali al-Naimi è il ministro del petrolio dell’Arabia Saudita. Ma ora, forse, sarebbe più corretto definirlo per quello che è effettivamente diventato: ministro della guerra ombra. La dinastia Saud siede su riserve di greggio pari a 267 miliardi di barili, una quantità seconda solo ai 297 miliardi del Venezuela. Fino a oggi al-Naimi ha dettato legge nell’Opec, l’organizzazione di 13 Paesi produttori cui fa capo un terzo dell’offerta planetaria.
La quotazione del petrolio è scesa sotto i 30 dollari al barile certamente per motivi economici, a cominciare dalla frenata cinese. Ma la vicenda ha molto a che fare con le fratture geopolitiche del Medio Oriente.
Nell’ultima riunione dell’Opec a Vienna, lo scorso 4 dicembre, le delegazioni di Arabia Saudita e Iran sono quasi arrivate agli insulti. Il motivo è molto semplice. Nell’ultimo anno i sauditi hanno continuato a pompare petrolio, contribuendo al calo record del prezzo del 45% su base annua che si è tradotto in una perdita pari a circa 500 miliardi di dollari sofferta dai Paesi del cartello. Eppure al-Naimi insiste: l’Arabia Saudita continuerà a rovesciare quantità enormi di greggio sul mercato. L’obiettivo, si è detto mille volte, è rendere poco conveniente lo shale gas degli americani. Vero, ma non è tutto. Da qualche mese si è aggiunta un’altra priorità: ostacolare il più possibile il rientro degli iraniani. Gli ayatollah di Teheran, a loro volta, riposano su giacimenti pari a 154 miliardi di barili. Sono stati esclusi dal circuito commerciale con le sanzioni del 2012. Ma dopo l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti si preparano a tornare. Una volta i loro clienti principali erano i Paesi europei, nel frattempo passati a rifornirsi con l’Arabia Saudita. Da due anni il presidente iraniano Hassan Rouhani ha avviato contatti con gli olandesi della Shell, i britannici della Bp, i francesi di Total, gli italiani di Eni. L’Iran offre greggio, ma anche interessanti opportunità di investimento nei pozzi e nelle infrastrutture.
In parallelo il governo di Teheran ha più volte chiesto all’Arabia Saudita e agli altri membri Opec di ridurre la produzione, in modo da potere ritagliarsi una quota di mercato senza far cadere ulteriormente i prezzi. La risposta dei Saud è stata netta: «Non se ne parla». Ecco allora che negli ultimi mesi le tensioni geoeconomiche si sono sommate alla storica contrapposizione religiosa tra i sunniti dell’Arabia Saudita e gli sciiti dell’Iran. Da qui in avanti i fatti verificabili lasciano spazio agli scenari costruiti dai servizi segreti israeliani e sauditi, rilanciati soprattutto dai parlamentari repubblicani di Washington e dal candidato Donald Trump. Lo schema è questo: l’Iran starebbe destabilizzando l’intera regione per fiaccare l’economia dell’Arabia Saudita, già provata dal ribasso prolungato dei prezzi del petrolio. Sarebbe Teheran, dunque, ad aizzare le proteste nelle regioni orientali saudite, ricche di oro nero, e nei satelliti del Golfo, come il Bahrein.
A tutto questo va aggiunta la variabile Isis. Anche lo Stato Islamico segue la pista del greggio, fonte centrale del suo finanziamento. L’ultima controffensiva del governo iracheno ha chiuso l’accesso ai campi petroliferi più redditizi. Ed ecco allora che lo sceicco Al-Baghdadi punta le sue bandiere nere verso la Libia. Prima della rivoluzione del 2011 i pozzi di Gheddafi procuravano 1,6 milioni di barili al giorno di un ottimo prodotto, a basso contenuto di zolfo: l’ideale per la trasformazione in benzina.
Nel sottosuolo riserve per 46 miliardi di barili attendono che finisca la guerra civile. Un enorme potenziale. I miliziani dell’Isis sono convinti di poter arrivare prima di tutti gli altri, almeno nelle aree sfuggite da tempo al controllo dei due Parlamenti di Tripoli e di Tobruk. È vitale fermarli: almeno su questo punto Arabia Saudita, Iran, Europa e anche Russia dovrebbero trovarsi d’accordo.
Occorrerebbe una tregua non solo spirituale, tra le diverse confessioni dell’Islam, ma anche materiale tra appetiti petroliferi che, invece, si somigliano molto.