giovedì 7 gennaio 2016

Corriere 7.1.16
Corea
La distanza da Pechino
Che il regime nordcoreano non sia più guidato da alcuna strategia diplomatica è provato dal pessimo stato delle relazioni con Pechino
La Cina è sempre stata il grande alleato e il puntello economico di Pyongyang
di Guido Santevecchi


Che cosa spinge Kim Jong-un a giocare con il bottone delle armi nucleari (o termonucleari che siano)? È ancora possibile disinnescare la minaccia nordcoreana con un accordo sul tipo di quello negoziato con l’Iran? Usare la logica, quando si parla degli avvenimenti a Nord del 38° parallelo, è un esercizio disperato: nessun analista politico o dell’intelligence può dire di sapere davvero che cosa passi nella mente del dittatore che domani compie (forse) 33 anni. L’ambasciatore britannico a Pyongyang, per vedere da vicino Kim, dovette accettare di salire su un vagone delle montagne russe che il giovane leader stava inaugurando. L’unico americano noto che abbia avuto un colloquio è l’ex star del basket Dennis Rodman, un tipo come minimo estroso.
D’altra parte, in questi anni la comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, si è dedicata soprattutto a mettere sotto controllo il programma nucleare iraniano, che secondo Teheran aveva solo scopi civili. Nel frattempo Pyongyang si è armata e secondo fonti cinesi ha già 20 atomiche. Nel caso del nucleare nordcoreano ci sono due differenze sostanziali: anzitutto Kim Jong-un non perde occasione per proclamare che l’obiettivo è di dare alle sue forze armate armi di distruzione di massa per incenerire le città americane e, se del caso, anche Seul e Tokyo. E poi, mentre si può escludere che la teocrazia iraniana avesse intenzione di suicidarsi usando un’atomica ed esponendosi a una rappresaglia che cancellerebbe le sue città dalla carta geografica, Kim Jong-un sembra ispirato da una follia autodistruttiva diretta non contro se stesso ma contro il suo Paese. Il dittatore ha visto sicuramente come sono finiti in Libia il potere e la vita di Gheddafi che aveva rinunciato al suo arsenale di armi di distruzione di massa e poi è stato rovesciato. Kim sa che se perdesse il potere militare perderebbe anche la vita e quindi potrebbe davvero usare un’atomica o una bomba all’idrogeno. Queste armi sono la sua polizza di assicurazione personale. Del popolo nordcoreano ovviamente non gli importa niente: la politica della famiglia (il nonno Kim Il Sung, il padre Kim Jong-il) ha già scientificamente condannato il Paese ad essere la peggiore economia del mondo: 179° tra gli Stati «funzionanti», afflitta da carestia continua.
Che il regime nordcoreano non sia più guidato da alcuna strategia diplomatica è provato dallo stato delle relazioni con Pechino. La Cina è sempre stata il grande alleato e il puntello economico del regime di Pyongyang. Ma Kim da quando ha ereditato il potere dal padre nel dicembre 2011 non ha mai incontrato il presidente cinese Xi Jinping, che secondo voci ricorrenti lo disprezza. Xi è il primo leader cinese nato dopo la fine della guerra di Corea e quindi non si sente nemmeno legato sentimentalmente al piccolo Paese dove combatterono e morirono centinaia di migliaia di «volontari cinesi» tra il 1950 e il 1953. Nella Corea del Nord, la Cina di Xi oggi vede solo un interesse (e un rischio strategico): tiene gli americani a Sud del 38° parallelo e quindi più lontano dal suo confine. Un crollo del regime porterebbe a un fiume di profughi e alla possibile dispersione dell’arsenale nucleare. Ma il comportamento irresponsabile di Kim giustifica anche la presenza delle forze armate americane nella regione. C’è da credere che Pechino non romperà formalmente i rapporti con Pyongyang. Ma ieri l’agenzia Xinhua ha messo in risalto che il governo cinese non sapeva del test nucleare e lo condanna con fermezza. È probabile che la Cina appoggi un inasprimento delle sanzioni Onu, che però non serviranno a far disarmare Kim. Onu, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone dovranno cercare altre vie per evitare un disastro. E dovranno trovare un’intesa solida con la Cina