lunedì 18 gennaio 2016

Corriere 18.1.16
Il patto tra Gesù e Pilato
di Ernesto Galli della Loggia

A cominciare dall’epilogo ogni cosa ci è nota fin nei più minuti particolari della vicenda narrata in questo libro. Eppure è come se non ne avessimo mai saputo nulla: quasi ogni sua pagina, infatti, ci propone interpretazioni nuove, ci schiude idee e nessi, illumina particolari che finora ignoravamo o ci erano sfuggiti: ogni volta capaci di stupirci. Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi) s’intitola questo libro straordinario, il cui autore, Aldo Schiavone, è, come si sa, un antichista tra i più illustri anche fuori dei nostri confini, conoscitore come pochi della storia e del diritto di Roma. Uno studioso, dunque, ma soprattutto un intellettuale di una molteplicità d’interessi fuori del comune, alimentati da uno spirito fortemente anticonvenzionale.
Schiavone ripercorre la narrazione evangelica delle ore precedenti la crocefissione (in particolare le pagine del Vangelo di Giovanni, che su tali momenti è di gran lunga il più ricco di notizie) illustrando il contesto storico, misurando la credibilità e il significato, le implicazioni e i possibili retroscena, di quella che egli descrive in sostanza come una congiura dell’aristocrazia ebraica sadducea — padrona virtuale del Sinedrio e dell’amministrazione del Tempio, nonché legata da un rapporto di tipo collaborazionistico con il potere romano. Una congiura volta a sbarazzarsi di Gesù, la cui predicazione agli occhi di chi l’aveva ordita — e che in ciò vedeva giusto — avrebbe potuto significare la disintegrazione di fatto dell’identità nazional-religiosa ebraica. Anche a motivo di questo carattere segreto e cospirativo di tutta l’operazione, l’autore contesta in modo convincente la tesi — accreditata invece dal testo evangelico, e poi ancor più dalla successiva tradizione cristiana all’evidente scopo di segnare un’invalicabile linea divisoria tra Cristianesimo e Giudaismo — di una responsabilità collettiva del «popolo» ebraico nella morte di Gesù.
Ma la macchinazione di Caifa e dei suoi è solo la premessa e lo sfondo. Al centro del libro, infatti, sta il drammatico confronto tra Pilato e Cristo, cuore tuttora pulsante e animatore di una memoria che da duemila anni non cessa di alimentare e di plasmare le forme di pensiero dell’Occidente e non solo. Una memoria di cui il prefetto di Giudea è parte così essenziale che il suo nome (non già quello dell’imperatore Tiberio, che in certo senso sarebbe stato più congruo) è il solo nome profano che ricorre in quella che è la confessione di fede basilare del Cristianesimo, il Credo di Nicea: «... patì sotto Ponzio Pilato».
Che cosa avvenne in quel confronto? Schiavone lo rievoca in pagine emozionanti non solo pregne di pathos , ma di alta qualità letteraria, nelle quali le domande dell’uno e le risposte dell’altro, pur conosciutissime nella loro letteralità, acquistano tuttavia — grazie alla luce interpretativa che viene gettata su di esse e alla ricchezza dei nessi istituiti dall’autore — un significato tutto nuovo.
Intrecciata con questo confronto vertiginoso la schermaglia invece tutta politica di Pilato con l’ebraismo ufficiale, il quale vuole che sia l’autorità romana a compiere il disegno di morte che esso da solo non può compiere, perché non ne ha l’autorità. È la schermaglia quanto mai drammatica tra il potere dei dominatori da una parte e dall’altra il necessario consenso dei dominati. È anche, però, in un senso più complesso, la schermaglia tra il rappresentante di un «ordine del mondo fondato sulla ragione e sulla misura», profondamente venato di scetticismo, e dall’altra parte, invece, un popolo antico immerso in una dimensione religiosa assoluta, cemento di un’appartenenza etnica che lo stringe in una Legge che non può conoscere né novità né dubbi. Non fu in alcun modo un processo. Fu da subito, dopo le prime battute e sotto la formale parvenza di un interrogatorio, uno straordinario dialogo, una sorta di duello disperato — così per l’appunto lo riviviamo in queste pagine — tra Pilato, convinto fino all’ultimo della sostanziale innocenza dell’uomo che aveva davanti, desideroso nel proprio intimo di salvarlo, e il Nazareno, incurante di difendersi, ma interessato solo a ribadire il senso della missione profetica assegnatagli dal «Padre». Un dialogo disperato, ho detto, perché nella ricostruzione di Schiavone esso si tramuta ben presto, da parte del prefetto romano, nella spasmodica ricerca di una verità in qualche modo sempre più intuita, ma destinata a restargli fino alla fine inattingibile. «Di dove sei?», pur certamente sapendo tutto di lui, egli chiede smarrito alla fine al prigioniero, sopraffatto dalla presenza dell’ignoto che sente in quell’uomo.
Altresì una sorta di confronto ravvicinato tra cielo e terra che a un tratto diviene — e come poteva essere altrimenti? — un confronto tra Dio e Cesare. In nessun altra pagina scritta della tradizione occidentale i due poteri si sono misurati, viene da dire si sono parlati, in una misura altrettanto intensa e in un modo altrettanto ultimativo. Così contribuendo in modo determinante a segnare il percorso storico della nostra civiltà. Davanti a Pilato, Cristo, con le sue parole («il mio regno non è di questo mondo...»), avvia una gigantesca rivoluzione concettuale e pratica. Egli rompe l’identità tra potere religioso e civile, l’identità tra comunità politica e ordinamento religioso, tra potere e salvezza: insomma l’«incontenibile dimensione teocratica» che era stata propria del monoteismo ebraico. Grazie all’introduzione in tale monoteismo della presenza del Figlio, l’Uno infatti si divide nel Due. In una pagina di grande profondità Schiavone osserva acutamente come s’innesti così nella costituzione pur sempre unitaria del divino una sorta di principio dialettico, «una riforma di portata incalcolabile, che innesta la tensione del movimento, della negazione, della contraddizione perfino — in una parola della storicità — dove prima, nella tradizione monoteista, era impensabile cercarla». Attraverso questa porta aperta potrà dunque transitare la diversità dell’umano, l’immensa e sempre cangiante molteplicità delle sue prospettive. «L’alleanza con Dio esalta l’umano ma modifica anche la forma di Dio».
Senza contare che con quell’affermazione di Cristo veniva altresì avviata una virtuale depoliticizzazione del monoteismo, e aperta, di conseguenza, quella «breccia di secolarizzazione» entro la quale la parte del mondo che noi oggi abitiamo avrebbe avuto modo di sviluppare il suo pensiero e le sue forme straordinariamente peculiari di civiltà all’insegna dell’autonomia dei due regni. Il che forse, osservo io, dovrebbe forse far sorgere qualche dubbio ai tanti orecchianti che, senza sapere ciò di cui parlano, vanno cianciando oggi di monoteismi che «sono tutti eguali», dal momento che in fin dei conti adorerebbero tutti «il medesimo Dio».
Siamo comunque all’acme di quelle ore fatali, al momento dello scioglimento del dramma nella condanna del prigioniero. È in queste pagine conclusive che il lettore è preso più che mai dal racconto dell’autore, dalla sua capacità di interpretare il dramma, di scorgervi ciò che è solo implicito. Dove egli mette al servizio di tale capacità, si direbbe, anche un crescente coinvolgimento personale. Quasi — se posso permettermi di manifestare una tale impressione — che nella rievocazione di quell’evento, nel succedersi logico ma insieme tragicamente enigmatico di quei fatti, di quei dialoghi, gli sia occorso di scorgere a un tratto come il riflesso di quell’«alta luce che da sé è vera» di cui si legge nella Commedia : qualcosa che effettivamente gli è sembrato giungere da un altrove per andare oltre.
Fu senz’altro qualcosa del genere che dovette comunque avvertire Pilato, secondo Schiavone. Il governatore della Giudea era convinto dell’innocenza del prigioniero ai sensi della legge romana, e neppure la subdola insinuazione dei capi del Sinedrio che se egli lo avesse mandato libero allora non si sarebbe mostrato «amico di Cesare», e tanto meno la loro accusa che Cristo avrebbe attentato al potere imperiale con il proclamarsi re, sarebbero state ciò che davvero lo indusse a consentirne la morte.
Fu qualcos’altro. Qualcosa di completamente diverso. L’oscura ma acutissima percezione (e si può ben immaginare quanto sconvolgente) che colui che egli aveva davanti voleva morire. E che doveva morire perché altra conclusione non era possibile alla sua vita. Che in qualche modo la profezia a cui quell’uomo aveva dato voce doveva compiersi senza che nessuno potesse osare di fermarne il corso. Schiavone avanza addirittura l’idea che ad un certo momento, nell’ora fatale, tra il prigioniero e il suo giudice «si sia stretto come un tacito e indicibile patto». E che in qualche modo l’evangelista lo abbia intuito, senza però che nulla potesse dirne. Solo indicando chiaramente negli ebrei i responsabili della morte del Cristo, infatti, solo mettendo l’accento sulla loro libera volontà non condizionata da alcuna predestinazione, solo così Gesù poteva divenire ciò che aveva voluto essere: colui che aveva «liberato la storia d’Israele in un orizzonte che sentiva infinitamente più vasto», facendo «della Bibbia non (solo) il libro di un’identità “nazionale” sia pure d’eccezione, ma di una fede universale senza confini». Tutto dunque quel giorno si compì come doveva compiersi. Mentre nel tempo successivo la tradizione cristiana avrebbe mantenuto intorno a Pilato l’ombra dell’ambiguità, in qualche modo sancita da quel singolare riconoscimento alla sua persona, contenuto nella professione di fede della nuova religione.
Un’ambiguità che oggi vediamo illuminata fino in fondo, in un certo senso finalmente risolta, grazie a questo libro prezioso, frutto di un’alta erudizione come poche altre volte così pronta a risolversi in una qualità letteraria avvincente, che fino all’ultimo rende il lettore incapace di staccarsi dalla pagina.