sabato 16 gennaio 2016

Corriere 16.1.16
Fascismo e comunismo sindrome dei nemici immaginari
risponde Sergio Romano

Pur condividendo quanto ha scritto su Pietro Nenni, ho notato che lei ha usato nei suoi confronti una certa indulgenza, forse una velata simpatia. Perché, allora, la stessa indulgenza non l’ha riservata anche per Togliatti che, nel bene e nel male, ha avuto per tanti anni un percorso simile? È vero che Nenni nel 1956 prese le distanze da Pcus, ma è anche vero che nel
1944 Togliatti, appena ritornato da Mosca, fu protagonista del congresso di Salerno del Pci «La via italiana al socialismo nella democrazia e nella libertà». Insomma, due grandi leader della sinistra italiana, con le loro luci e le loro ombre. Mentre oggi, come scrive lei, Nenni è finito ingiustamente nel dimenticatoio ( con i socialisti fagocitati da Berlusconi), Togliatti vive ancora, ma in senso negativo. «Siete figli di Stalin e
di Togliatti», questo slogan è ancora molto popolare
in Italia. Nonostante il comunismo sia morto e sepolto, perché l’anticomunismo è ancora carne viva per tanti italiani? Non crede che sia nocivo alla nostra democrazia far rivivere surrettiziamente un fantasma del passato di cui nessuno ha più nostalgia? E non pensa che questa sia una sconfitta culturale di tutto
il Paese?
Silvio Giovannetti

Caro Giovannetti,
Fra la linea di Nenni nel 1956 e quella di Togliatti nel 1944 esiste una importante differenza. Nel 1956, condannando la repressione sovietica della insurrezione ungherese e restituendo il premio Lenin, Nenni prese le distanze dall’Unione Sovietica. Nel 1944, con la «svolta di Salerno», Togliatti fece esattamente ciò che Stalin gli aveva chiesto di fare durante un incontro notturno al Cremlino prima della partenza da Mosca. È certamente vero, tuttavia, che l’anticomunismo è ormai una linea logora e anacronistica che non riflette la reale situazione del Paese. La responsabilità è in buona parte di Silvio Berlusconi che di quello slogan si è servito per legittimare il suo intervento nella vita politica italiana.
Eppure si trattò di «legge del taglione». Anche i comunisti, dopo la fine delle guerra, avevano cercato di accreditare se stessi nella politica italiana, come la forza politica che avrebbe meglio garantito il Paese contro l’incombente minaccia di un fascismo perenne, eterno virus di un Paese particolarmente esposto ai rischi di una ricaduta. Non era vero. Il fascismo aveva avuto indubbiamente i suoi fedeli e li conservò anche durante la Repubblica di Salò, ma il regime era stato gestito da una costellazione trasformista che si era rapidamente dissolta come neve al sole dopo le dimissioni di Mussolini il 25 luglio 1943. Come spiegare altrimenti il fatto che la Milizia fascista, nelle giornate successive non abbia avuto alcun ruolo nelle vicende nazionali? È questa probabilmente la ragione per cui fu così difficile fare del 25 aprile una festa veramente nazionale. La leadership comunista invitava gli italiani a mobilitarsi contro un nemico di cui il buon senso negava l’esistenza.
Naturalmente né i comunisti né Berlusconi avrebbero fatto uso dei loro slogan se non vi fosse nella società italiana una certa predisposizione a credere nell’esistenza di nemici immaginari.