martedì 12 gennaio 2016

Corriere 12.1.16
Tradurre significa comprendersi Arabi e bizantini ce lo insegnano
Il mediatore Hunain ibn-Ishaq fece conoscere i medici e i filosofi greci nel Califfato del IX secolo
Scelte controverse Nonostante le esperienze negative del passato, i governanti perseverano spesso nelle mosse incaute
Scritti della diaspora ebraica esaltano il ruolo interculturale di Alessandria d’Egitto
La ricchezza degli scambi culturali nel secolo d’oro di Costantinopoli e Bagdad
di Luciano Canfora

Non vi è nulla di più sciocco della adozione del termine «Califfato» da parte dei banditi xenofobi e xenoctoni dell’Isis. Il vero Califfato, quello di Bagdad, con le sue diramazioni in Egitto, nel Nord Africa, nella Spagna meridionale, fu invece, nel IX secolo, un faro di cultura non solo tollerante, ma anche avido di aprirsi alle altre culture. Veicolo principale di tale scelta, che segnò il mondo arabo per vari secoli (prima che venisse travolto dalla violenza turca), fu la sistematica opera di traduzione.
In pieno IX secolo, cioè in quello che fu il secolo «d’oro» anche per l’Impero bizantino oltre che per il Califfato di Bagdad, un grande interprete cui solo l’Enciclopedia Italiana tra le grandi enciclopedie occidentali dedica una voce, Hunain ibn-Ishaq (809-877), nato ad al-Hirah da famiglia nestoriana che parlava siriaco, tradusse — prima sotto il califfo al Mamun poi sotto al Mutawakkil — dal greco in siriaco e in arabo i filosofi e i medici greci. Quei testi divennero, così, per la cultura araba, il germe di una originale filosofia e di un vivace e innovativo pensiero scientifico.
Nel suo libro autobiografico Sulle traduzioni siriache e arabe di Galeno , Hunain descrive, tra l’altro, la sua pratica di studio, ed evoca Alessandria: metropoli che non cessò certo di essere un centro di cultura quando, alla metà circa del VII secolo, gli Arabi la conquistarono; al contrario fu terreno d’incontro tra le due culture.
Scrive tra l’altro, Hunain a proposito del trattato di Galeno intitolato Metodo terapeutico : «Questi sono i libri alla cui lettura ci si dedicava nelle istituzioni mediche ad Alessandria; in particolare li si leggeva nell’ordine in cui li vengo esponendo io. Si usava radunarsi ogni giorno per la lettura e interpretazione di un’opera principale, esattamente come ancora oggi i nostri amici cristiani sono soliti radunarsi negli stabilimenti dedicati allo studio, noti con il nome di Scuole , ogni giorno, per approfondire un’opera principale tra i libri degli antichi».
È — a ben vedere — la stessa pratica di studio collettivo intorno ad un testo rilevante che è documentata, negli stessi anni, nel cuore dell’Impero bizantino dal patriarca-umanista Fozio in una celebre e polemica lettera al Papa di Roma.
Qualche decennio più tardi un altro ecclesiastico-umanista bizantino, Areta, cercava e otteneva libri greci dall’Egitto musulmano.
Analoga traslazione della cultura greca questa volta verso l’Occidente avevano al tempo loro attuato, traducendo e creando così la letteratura latina, i Romani tra III e I secolo a.C. Quel che ha fatto Hunain verso il mondo arabo, nel campo della filosofia, lo avevano fatto nel I a.C. Lucrezio e Cicerone nell’Occidente parlante latino.
A loro volta i Greci — ed è questo il punto di partenza del bel saggio di Tullio Gregory in uscita da Olschki Translatio Linguarum. Traduzioni e storia della cultura — non persero (almeno i più consapevoli) la certezza di aver imparato «traducendo» dai mondi mesopotamico ed egizio, con i quali erano stati in contatto sin da subito. Gregory, che in questo saggio traccia un profilo storico che giunge fino al rogo nazista dei libri «malsani», è da sempre un esploratore del nesso indissolubile tra parola e civiltà e perciò ha fondato, or sono cinquant’anni, il «Lessico intellettuale europeo».
Da tempo egli ha concepito una sana passione per la monumentale Biblioteca storica di Diodoro di Sicilia (40 libri, 15 giunti a noi integri), che è, secondo me, il nume tutelare di questa sua ultima fatica. Nel primo secolo a.C., Diodoro apriva la sua opera con la proclamazione, ben documentata, del debito dei Greci verso il mondo egizio, nei più diversi ambiti, a cominciare dalla religione. Epoca felice quella in cui senza patemi, anzi con gioia, si inneggiava alla genesi comune delle varie fedi! Forse Diodoro — che era un siciliano — si ispirava alle concezioni di un autore da lui messo intensamente a frutto, il grande Posidonio, che era originario di Apamea, ed era cioè un siriaco parlante greco. Questa loro origine li metteva in grado, entrambi, di apprezzare più e meglio di altri il fenomeno, tipicamente ellenistico della «mescolanza». Simbolo della quale potremmo considerare l’ultima sovrana dell’Egitto tolemaico, Cleopatra, greco-macedone per discendenza dinastica, ma attenta a tutte le parlate dei suoi sudditi indigeni, come ce la raffigura Plutarco.
Del resto è proprio ad Alessandria che, nel periodo più fiorente della dinastia tolemaica (III secolo a.C.), si instaurò la sistematica prassi della traduzione da tutte le lingue in tutte le lingue: compreso il latino, sostiene, più di un millennio più tardi, il dotto bizantino Giovanni Tzetzes.
Un testo della diaspora ebraica, la Lettera di Aristea a Filocrate , esalta questo ruolo interculturale di Alessandria e della sua biblioteca. Giustamente Gregory dedica a questo testo molta attenzione. Non sarà superfluo ricordare che la ricezione della Lettera di Aristea ha un intero ramo nella cultura araba, dalla Cronaca di Al Tabari al Fihrist di Al Nadim.
Il debito del primo grande teologo greco, Esiodo, «santone» forse più antico di Omero, verso l’epica mesopotamica fu studiato mezzo secolo fa da un grande grecista inglese recentemente scomparso, Martin West. Per fortuna lo scandalo suscitato decenni addietro dall’ Atena nera di Martin Bernal è ormai un incidente dimenticato.
Le guerre che incombono sul nostro presente si colorano sempre più di truce autosufficienza culturale e religiosa. Un libro come quello di Gregory, che ripropone il fenomeno dei trasferimenti di civiltà, è una goccia di saggezza illuministica in un mare turbato, sempre più di frequente, da ondate di oscurantismo.