mercoledì 9 dicembre 2015

Repubblica 9.12.15
Per la prima volta nella sua storia la capitale cinese, avvolta da una nuvola marrone, viene bloccata per smog: auto e camion fermi, scuole chiuse, trasporti nel caos. Monta la rabbia contro il potere, che avvelena il popolo in nome del Pil. Diario di una giornata nelle strade della città, tra coprifuoco da inquinamento e persone con la mascherina in fuga dai veleni
Pechino
respiro
di Giampaolo Visetti


PECHINO QUANDO lo smog è esagerato, in un sistema autoritario ha un’antipatica controindicazione politica: si vede. Neppure la censura, a Pechino, è oggi più potente di questa densa nube marrone che inghiotte e unge grattacieli, tangenziali, parchi, ciò che rimane dei monumenti imperiali e prima di tutto il resto, gli esseri umani. La capitale della seconda economia del mondo è semplicemente sparita e appena il chiarore conferma che è di nuovo giorno, un popolo di spettri atterriti è costretto a tuffarsi nel nulla per non sospendere anche la propria vita. La maggioranza vorrebbe, chiudersi in casa, oppure scappare via, lontano, scacciando per sempre l’incubo di carbone in cui si è obbligati a restare per non cessare di essere fedeli e obbedienti consumatori del partito-Stato socialista. La tragedia però, appena scesi per strada, presenta senza complimenti il suo biglietto da visita: le persone, tutte, non hanno più una faccia. Sopra ogni bocca e ogni naso, dal mento alla fronte, milioni di mascherine da chirurgo nascondono al pianeta la faccia della gente di Pechino. Tutti irriconoscibili, muti, senza volto, concentrati a raggiungere precipitosamente la fabbrica o la scrivania, con la speranza che nessuno ti rivolga la parola costringendoti parlare, sospendendo la corsa nel vuoto. Chi può spendere si nasconde dietro maschere da pompiere, quelle dotate di filtro anti-gas, che donano il profilo da insetto. I vecchi si arrangiano alzando la sciarpa, abbassando il berretto, calzando gli occhiali da sole, simili a rock-star avvolte dal ghiaccio secco di un muto concerto. Pechino però non è in maschera: per la prima volta nella sua millenaria storia è chiusa per smog, chiusa fino a giovedì per ordine delle autorità, come fosse una bottega che non ha più qualcosa da offrire. Nemmeno il potere cinese, scosso da un sisma interno senza precedenti, può ovviamente sigillare per decreto una megalopoli di 23 milioni di abitanti, per evitare che le vittime del veleno trasformino presto l’imbarazzo in vergogna. Può, al massimo della disperazione, intimare ai cittadini di smettere di essere tali: rinunciando, se non a respirare, almeno a muoversi nella loro esausta città. Oltre alla faccia, lo smog ruba oggi ai pechinesi altre tre essenziali ovvietà quotidiane: i colori, i pensieri e la pelle. Gas e volumi si fondono in una indistinguibile sfumatura polverosa, come se nevicasse sabbia di piombo. La mente è ostaggio di un’ossessione collettiva, un solo pensiero, quello, dal risveglio all’assopimento: lo smog, l’inquinamento, i gas, il veleno che penetra nella carne e nelle ossa, silenzioso, da ogni parte, non necessariamente dalle narici. Infine la pelle: brucia, si secca, si squama, come una vecchia abbronzatura, e ognuno la copre fino all’estremo lembo per non sentirla ardere e ungersi, infilata dentro una pira. Così, mascherati e mummificati, simili a disinfestatori in una silenziosa centrale atomica esplosa, i pechinesi affrontano il loro primo giorno di «allarme rosso». Le strade sono svuotate: 2,5 milioni di auto fermate dalle targhe alterne, 1 milione di camion spenti, stop anche al 30% delle berline dei funzionari. Lo spostamento che ieri imponeva due ore bloccati nel traffico, richiede all’improvviso pochi minuti, come se le piste libere del cuore della notte fossero dilatate all’infinito. Sull’asfalto solo bus, taxi e i numeri pari. E la massa? Alunni di elementari e medie a casa, assieme ai vecchi, a operai e impiegati posti in «recupero ». Gli altri, milioni, in coda nelle stazioni della metropolitana, o asfissiati in vagoni che scoppiano. La rabbia, dalla superficie, penetra nel sottosuolo. Per tutto novembre, poi da lunedì a mercoledì della scorsa settimana, il sindaco si è rifiutato di alzare l’emergenza da «arancione» a «rosso», accettando di riconoscere lo scandalo di Pechino chiusa per smog. Oltre duemila fabbriche, dal Nordest a Tianjin, sono state fermate, riaperte al primo vento e precipitosamente richiuse, assieme alle centrali a carbone. Quel prezzo, ruggiscono adesso i metropolitanizzati automobilisti pechinesi, lo paga chi deve andare al lavoro, o uscire per le provviste, dentro un universo che vanta un numero di mezzi pubblici da villaggio. Rivolta dunque doppia: contro il potere che avvelena il popolo per perpetuare se stesso grazie alla crescita economica, ma pure contro i funzionari che se devono scegliere tra industrie e cittadini, scelgono di fermare i secondi, cronicizzando il morbo nel nome del Pil. L’evidenza dell’inoccultabile disastro, almeno, impone la svolta. Gli stessi leader rossi dalla negazione passano alla denuncia, dall’accusa di un «complotto straniero » si convertono alla promessa di «affrontare il disagio». Il sin-senza daco, già alle sette del mattino, si fa riprendere sorridente dalla tivù di Stato, mentre chiacchiera con manovali perplessi che salgano sul bus. Se la censura deve alzare bandiera bianca, tocca alla propaganda. Verità del giorno, voce del governo su carta, tivù e web: «Compagni, non siamo nel picco peggiore delle particelle PM 2,5. Una settimana fa avevamo sfondato quota 1200, rispetto a 25, il massimo sopportabile dall’organismo. Oggi siamo solo a 256, appena dieci volte oltre la sostenibilità umana: purtroppo però conta la serialità, la ripetizione, la durata del collasso ». Pechino dunque è chiusa anche se è meno velenosa: diciamo così, «per sicurezza». Oltre a tutto ciò che scompare, un’altra assenza impressiona: non un bambino per le vie, non una carrozzella, come se la nube tossica si premurasse di dare la precedenza a chi custodisce il futuro della specie. Non ci sono dati, piani, misure, bilanci capaci di rendere più eloquente la catastrofe di Pechino e della Cina: le madri in queste ore nascondono i figli nell’illusione di proteggerli dall’aria, rea di una rinnovata strage degli innocenti. Gli affari invece, ci mancherebbe, non si fermano. Anzi, fioriscono: mascherine, depuratori, filtri, farmaci, acqua in bottiglia, bicarbonato per lavare il cibo, detersivi, shampoo anti-acidi, i centri commerciali svuotano i magazzini del «day after». E’ però un boom impresentabile: la Cina a Parigi promette di «salvare il pianeta» e le telecamere globali zoomano su una capitale chiusa nel coprifuoco-smog. Il primo «allarme rosso» di Pechino spinge così verso il baratro anche la credibilità dei suoi leader, responsabili di averla trascinata nell’abisso. Risalire sarà difficile, costerà molto, il sacrificio di tre generazioni, forse addirittura il potere: i cinesi sono pronti, ancora una volta, a pagare per vivere? La sera inghiotte piazza Tienanmen: non c’è più la Città Proibita, non c’è il mausoleo di Mao, non c’è la Porta Celeste, non il palazzone dell’Assemblea nazionale del popolo. Il veleno è democratico ed esige la prima vittima del regime solidale corroso dall’oro, accomunando potenti e miserabili. Prima della vita si prende gli occhi e con essi ogni bellezza: Pechino oggi non c’è più.
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Il regime non può censurare il disastro: e passa dalla negazione alla promessa di agire Alunni, vecchi e operai a casa. Gli altri in coda alle stazioni, asfissiati dentro vagoni che scoppiano