Repubblica 4.12.15
“Grazie a Rada sono tornato un uomo libero”
Boris Pahor racconta la relazione con la moglie. Tra passione, ironia e ricordi dal lager
intervista di Simonetta Fiori
TRIESTE «Rada aveva capito il mio grande bisogno di libertà, perché chi proviene dal paese della morte è destinato a vivere come un naufrago». Della moglie parla quasi con soggezione, come se non bastasse un secolo di esperienze – centodue anni tra guerre mondiali, lager, totalitarismi – per accostarsi a quelle vette di intelligenza e ironia. «Forse non l’ho mai meritata», ripete oggi Boris Pahor mentre infila la scalinata che conduce alla sua casa sul mare, gli ultimi gradini discesi con passo saltellante («Li conosco bene, sono del mio giardino», rassicura chi l’osserva preoccupato). È nato a Trieste nel 1913, sotto l’impero asburgico. Ha visto
l’orrore del Novecento e forse anche per questo sa parlare d’amore. Quello di Radoslava Premrl, un’intellettuale slovena dal tratto aristocratico, «era come l’antico amore del mare per la propria costa, fedele come le volute delle doline carsiche». Le ha dedicato Libro per Rada, non ancora tradotto in italiano, «anche per dimostrarle che aveva torto. Lei era convinta che scrivendo di noi sarei stato tentato dall’autocelebrazione. Invece non ho tralasciato nulla, anche i miei difetti peggiori».
Come vi siete conosciuti?
«Durante un viaggio in treno, nel 1951. Io non sono proprio un tipo da conversazione, però le dissi che somigliava a Ingrid Bergman. “Ah, bella scoperta”, mi gelò lei. Era una giovane donna dalla battuta pronta».
E questo naturalmente le piacque?
«Era un tratto che mi affascinava anche se un po’ ne ho sofferto. Quando le sfiorai le labbra, nel mare di Barcola, lei fece il gesto di cancellare il bacio con l’acqua salata. Rideva, però era come se volesse scansare la tenerezza».
Forse aveva bisogno di sdrammatizzare.
«Sì, era un modo per dirmi che era forte e che aveva superato i momenti più brutti della sua vita».
A cosa si riferisce?
«Il legame tra me e Rada nacque anche perché avevamo un passato doloroso. Io ero sopravvissuto al fascismo e ai lager di Dachau e Natzweiler-Struthof, lei aveva subito il carcere, il confino e la tragedia di un fratello e di una sorella ammazzati».
Il passato doloroso può unire sentimentalmente?
«Sì, perché ci si riconosce l’uno nell’altro. Rada era pura vita. Una delle prime volte le dissi che doveva essere tenuta come riserva dell’intero universo. “Persone come te dovrebbero essere portate sulla terra alla fine delle guerre, dei lager, delle carceri”. Lei si adombrò sotto la frangetta dorata: “Ah, come se io non fossi stata in prigione” ».
Lei non lo sapeva?
«No. Rada sapeva tutto di me avendo letto le mie prime novelle pubblicate nel 1948, ma io non sapevo ancora che i fascisti l’avevano messa in galera a Gorizia insieme alla madre. Fu allora che mi accorsi di essermi innamorato ».
Come lo capì?
«Avevo voglia di accarezzarla, di avere più vicino quel vissuto che lei mi raccontava. E desideravo impadronirmi del suo buonumore, della grande felicità del vivere che restituiva nonostante la casa bruciata e l’orrore dei fratelli uccisi».
Il suo più grande gesto d’amore verso Rada è stato quello di aiutarla a liberarsi da una storia molto dolorosa.
«Le chiesi di scrivere di suo fratello Janko, un comandante partigiano divenuto eroe nazionale in Jugoslavia. Rada aveva scoperto che a spezzare la vita di Janko non erano stati i fascisti ma gli stessi compagni comunisti, intolleranti della sua libertà. Una vera tragedia».
Lei parlava con Rada dell’esperienza in campo di concentramento?
«No. Niente. Né a casa dei miei né con lei. Pensavo: se vogliono sapere, che leggano quello che scrivo».
Quindi Rada ha saputo dai suoi libri?
«Sì. Io battevo a macchina da mattina a sera, poi correggevo a mano, e Rada ricopiava la versione pulita. Sa, degli stati interiori è più facile scrivere che parlarne con la propria compagna. In Necropoli ho cercato di dire l’indicibile, ma è molto più complicato trovare il modo di spiegarlo a voce a chi non l’ha vissuto».
Il lager restava fuori dalla relazione.
«Poteva affiorare a brandelli nel quotidiano, le mollichine di pane posate vicino al piatto o il ricordo improvviso delle brodaglie che ci propinavano».
Come si ricomincia ad amare dopo il campo di concentramento?
«La prima pulsione l’avevo provata in sanatorio, vicino a Parigi, dopo la reclusione a Bergen-Belsen. Madeleine, una giovane infermiera francese, mi fece tornare la fiducia nell’essere umano. Facevamo l’amore nel boschetto, sull’erba. Mi sembrò una cosa del tutto naturale».
Però ha raccontato di aver avuto difficoltà a esprimere una vicinanza affettiva, anche con i figli.
«Ho maturato tardi il sentimento di paternità. Quando nacquero i miei due figli li osservavo da un punto di vista storico, come due esseri umani che non dipendevano da me. Avevo vissuto per un anno e mezzo nel paese della morte. Ci ho messo tanto per diventare normale».
Il più grande merito di Rada, lei ha scritto, è stato quello di rispettare il suo bisogno di libertà.
«La morte lascia un grande desiderio di libertà. Quando fui ricoverato in ospedale per la tisi, subito dopo il campo, non sopportavo che ogni giorno venissero a misurarmi la febbre. Io mi sentivo come un naufrago. E mia moglie questo lo comprese da subito».
Lei non volle sposarla in Chiesa.
«Non mi sentivo di giurarle fedeltà eterna. E qualche volta sono andato fuori del patto coniugale. Rada sapeva e non faceva storie. Una volta mi invaghii di un’attrice jugoslava molto bella, ma mia moglie era come condiscendente. Mi trascrisse una frase tratta da Colette: “Piuttosto infelice con lui che non senza di lui”. Parlava di noi due».
Fece finta di niente anche quando lei si innamorò di una francese che aveva subito violenza dal padre.
«Avevo già ottant’anni quando conobbi una donna più giovane. Alla fine della presentazione di La primavera difficile mi si avvicinò per dirmi: “Probabilmente noi ci conosciamo”. Più tardi avrei capito cosa voleva dirmi: io ero stato violato nella mia dignità, ma lei era stata violata dal padre. Ancora più atroce».
Lei avrebbe raccontato la storia del vostro incontro in “Petalo Giallo”.
«Quando uscì l’edizione slovena la diedi da leggere a Rada senza una dedica. “Dopo che mi darai un giudizio scriverò la dedica”. Non lo lesse».
Lei una volta a proposito di Rada ha usato le parole di Camus: “Eravamo solitari e solidali l’uno con l’altro”.
«Anche Rada si teneva un mondo dentro. Quando era ricoverata in sanatorio, ormai consapevole che non sarebbe mai più tornata a casa, le dissi. “Lo sai Cioci che ti voglio bene”. E lei, pronta: “Quando te ne sei accorto?”. Gli feci un gesto come per dire: eh, da tanto...».
Rada, Cioci, Zivka. Lei la chiamava in tanti modi.
«Cioci è un vezzeggiativo che si usa con i bambini. Le piaceva molto, come se l’accarezzassi. Una mattina sono arrivato in ospedale un po’ tardi, “Buongiorno Cioci”. Ho sentito due grandi sospiri, poi niente. Forse mi stava aspettando. Aspettava l’ultima carezza».