venerdì 4 dicembre 2015

Repubblica 4.12.15
Venezuela
Fame e rischio caos La scomoda eredità del chavismo
Domenica le elezioni Per i sondaggi vinceranno le opposizioni Maduro in bilico E si teme il golpe
Le avanguardie socialiste proporranno un referendum per revocare il presidente
Le milizie del “prezzo giusto” controllano i negozi e obbligano a tenere tariffe politiche
Il presidente del Venezuela Nicolás Maduro. Accanto il funerale di un ragazzo ucciso dalle gang a Caracas
di Omero Ciai


CARACAS HANNO un giubbotto leggero color cachi, il cappelletto da baseball di Charlie Brown, e sono gli uomini più temuti del Venezuela. Sono le milizie bolivariane del “prezzo giusto”, le brigate che setacciano la città imponendo ai commercianti di vendere i prodotti al prezzo calmierato deciso dal governo. L’altra mattina Jesus piangeva, si asciugava le lacrime con la carta che usa per impacchettare la carne. «Vogliono che chiuda. Come faccio a vendere alla metà del prezzo che ho pagato per averla?», bisbigliava a bassa voce mentre piangeva. Macellaio, 45 anni, tre figli, bottega nel centro di Caracas. Dopo settimane di carestia aveva ricevuto una partita di carne bovina che avrebbe venduto, un po’ di nascosto, ai suoi clienti migliori. Qualcuno ha fatto la spia e sono arrivati quelli delle brigate. «Tutta questa carne la devi vendere a prezzo politico », gli hanno detto e sono rimasti nel suo negozio a vigilare finché non ha finito di venderla. La carestia è cominciata anche così. Con la legge del “prezzo giusto” che il presidente Maduro ha imposto più di un anno fa. Secondo il governo, con l’inflazione ormai al 200%, le uova, il latte, la farina, il riso, devono essere venduti ad un prezzo inferiore a quello che costa produrle. Così è sparito anche quel poco che c’era. Ed è cominciata la “borsa nera”, come se ci fosse una guerra. Un pollo vale la metà di un salario minimo, 9mila bolivar, circa 15 dollari al cambio reale. Maria, la moglie di Antonio il barbiere, dice che ha bisogno di almeno 20mila bolivar ogni settimana per fare la spesa. Loro guadagnano molto meno e da mesi sopravvivono con i vecchi risparmi. Sono arrivati qui bambini, sessanta anni fa, dalla provincia di Avellino. Hanno due figlie laureate in medicina. Una è tornata in Italia, l’altra resiste perché suo marito, venezuelano, dice che «presto tutto cambierà».
Una famiglia venezuelana può andare al supermercato solo una volta alla settimana. Il giorno dipende dall’ultimo numero della carta d’identità. Si comprano a prezzi politici prodotti che somministra direttamente il governo attraverso Pdvsa, la holding del petrolio. Le code sono interminabili e le milizie bolivariane supervisionano. Dentro, spesso, si trova pochissimo. Trovar da mangiare fino alla settimana successiva è come partecipare a una lotteria. Così il neologismo di moda a Caracas è “Bachaquear”. La “bachaca” è una grossa formica operaia e oggi serve per indicare quelli che si dedicano a cercare viveri che poi rivendono, casa per casa, ad un prezzo tre o quattro volte superiore a chi può permettersi di pagarlo. L’altro fenomeno è la scomparsa del cash. Il biglietto di taglio più alto della moneta venezuelano è 100 bolivar e, siccome ormai è quasi carta straccia, si paga solo con carte di credito o bancomat, per evitare di presentarsi alla cassa di un negozio con uno zaino di biglietti da cento. E a Natale, naturalmente, dimenticatevi il panettone, così diffuso in Venezuela per le migliaia di discendenti di italiani, perché quello prodotto in Brasile che arriva qui, a “borsa nera” costa mezzo stipendio.
Dopo essersi dedicata a distruggere l’industria e la produzione agricola nazionale, che per Hugo Chávez era in mano ai “nemici di classe” e andavano annientati, la rivoluzione bolivariana sta disintegrando i piccoli commerci privati. Passeggiando per Altamira, uno dei quartieri della media borghesia locale, si scoprono strade vuote e negozi chiusi. Più di un’attività commerciale su due è fallita. Non c’è più il gelataio e nemmeno la famosa bottega di “Delicatessen”, tonno, acciughe e salmone. Accanto al barbiere ha già chiuso il ristorante e cento metri più su anche la tintoria. Da tempo, tutto quello che si consuma in Venezuela è importato. E, con il petrolio, l’unica risorsa del Paese, sotto i 40 dollari, lo Stato non ha più i fondi sufficienti per rifornire il mercato. Il deficit di bilancio cresce e gli unici Paesi che prestano soldi a Maduro sono la Russia e la Cina, firmando contratti sulle future forniture di petrolio. Le farmacie sono senza medicine. Nemmeno un’aspirina. Mancano i ricambi per riparare le auto.
La voce, il volto e i video degli ultimi comizi di Chávez sono ovunque. Il leader della rivoluzione, morto più di due anni fa all’Avana, continua a ossessionare i venezuelani con i suoi deliri di guerra di classe. Resuscitato per la campagna elettorale delle elezioni parlamentari di domenica prossima. Per governo e opposizione l’appuntamento di domenica è un plebiscito: a favore o contro la rivoluzione. Per Maduro, neo leader chavista indicato dal caudillo morente come successore, che due anni fa vinse per un soffio le presidenziali, i sondaggi sono tragici. Ma comunque vada per l’opposizione la strada verso un cambiamento al potere è ancora molto lunga. Se domenica conquistano il Parlamento, gli avversari delle avanguardie socialiste proporranno un referendum per revocare il presidente.
D’altra parte, con la sconfitta della Kirchner in Argentina e le difficoltà di Dilma, l’avventura bolivariana a Caracas è sempre più isolata. Perfino Raúl Castro sembra ormai un socio riluttante.
Rimane l’opzione del terrore e la minaccia, spesso ripetuta e neppure troppo aleatoria, di scegliere la via dell’autogolpe. Con la formazione, se la sconfitta sarà consistente, di una giunta civico-militare e la chiusura del Parlamento a quel punto nemico.