giovedì 3 dicembre 2015

Repubblica 3.12.15
Il gioco pericoloso dei due presidenti
di Andrea Bonanni


BRUXELLES LE ACCUSE di Putin a Erdogan, le foto che proverebbero come la Turchia sia il principale beneficiario del petrolio del Califfato, le insinuazioni su una lobby del contrabbando ai piani alti di Ankara segnano un salto di qualità nello scontro tra i due presidenti-padroni.
Enon per la prima volta danno forma al tentativo del Cremlino di appellarsi direttamente all’opinione pubblica occidentale scavalcando le scelte politiche dei suoi governi. Ma soprattutto ci danno la misura di quanto siano cambiati, mentre l’Europa e l’Occidente dormivano, gli equilibri e le modalità stesse della politica internazionale. E di quanto, per conseguenza, si stiano rivelando inadeguate le istituzioni che ci eravamo dati per gestirla.
Russia e Turchia sono due grandi Paesi che solo recentemente hanno adottato una struttura di governo almeno formalmente democratica, in omaggio alla prevalenza dei valori occidentali dopo la fine della guerra fredda. Però la transizione si è compiuta a metà. I loro leader godono di ampio sostegno popolare e parlamentare. Ma le istituzioni di garanzia non sono sufficientemente indipendenti. I giornalisti finscono in prigione o all’obitorio. Gli oppositori vengono eliminati in circostanze poco chiare. I poteri economici sono troppo contigui al potere politico in commistioni spesso ambigue. In entrambi i Paesi la parte evoluta della società civile e urbanizzata è minoritaria e le sue aspirazioni sono schiacciate “democraticamente” da una maggioranza culturalmente arretrata che emana dalle enormi province dei due ex imperi.
Tutto ciò farebbe parte della normale e spesso dolorosa evoluzione che ogni società deve maturare nel suo lento tragitto verso una democrazia compiuta. Se non che russi e turchi si sono venuti a trovare su sponde opposte nella guerra civile siriana, che sta devastando tutto il Medio Oriente e lacerando il mondo islamico, mentre le democrazie compiute stanno a sostanzialmente guardare.
Erdogan, che un tempo si diceva amico del dittatore Assad (ma si diceva amico anche di Putin), ora vuole cacciarlo da Damasco. Il presidente turco si fa difensore dei correligionari sunniti contro sciiti e alawiti. Vuole impedire che la Siria finisca nell’orbita iraniana, come rischia di accadere all’Iraq. Teme e detesta i curdi che combattono contro Daesh. Vorrebbe creare una “fascia di sicurezza” lungo le proprie frontiere ma in territorio siriano per stroncare sul nascere la formazione di uno stato curdo tra Iraq e Siria. Soprattutto vuole impedire una coalizione anti-Califfato estesa alla Russia che finisca per confermare Assad alla guida del Paese. Insomma, ritiene di avere forti interessi in Siria e, soprattutto, il diritto di difenderli con le unghie e con i denti.
Putin vuole salvare a tutti costi il regime dell’alleato Assad perché gli garantisce un piede nel Mediterraneo. La Russia, fin dai tempi dell’Afghanistan, teme il fondamentalismo sunnita, che potrebbe dilagare in Asia centrale, mentre ritiene che l’Islam sciita sia più pragmatico, gestibile e soprattutto disponibile ad un’intesa. Inoltre l’apertura di un fronte siriano, dove ormai è diventato protagonista, offre a Putin un prezioso capitale politico da spendere con l’Occidente sul fronte ucraino, dove la sua posizione è sicuramente meno difendibile.
Partendo da posizioni così diametralmente opposte, i due presidenti- padroni si sono gettati nella mischia con una logica di pura potenza nazionale, perché quella è la sola logica che, a casa loro, procura consensi. Non è detto che questo gioco pericoloso finisca male. Alla fine, dopo aver fatto volare un po’ di stracci, Mosca e Ankara potrebbero anche ritrovare un’intesa. Quello che interessa a entrambi è sostanzialmente affermare il proprio ruolo autonomo e sovrano a scapito di un Occidente un tempo egemone ma che sembra aver perduto ogni capacità e anche ogni volontà di leadership.
In Iraq l’espansione del Califfato arrivato alle porte di Bagdad è stata fermata dalle milizie sciite agli ordini di Teheran. In Siria dai guerrieri Hezbollah, sempre agli ordini di Teheran, e ora dai missili e dai bombardieri russi che appoggiano l’esercito di Assad. La coalizione anti Daesh messa su dagli americani non è riuscita a ottenere risultati significativi sul terreno. Gli europei vi si sono aggiunti alla spicciolata, senza un briciolo di coordinamento e senza un’ombra di disegno strategico. Abbiamo già pagato 3,6 miliardi per aiutare i profughi siriani e ne spenderemo altri tre per evitare che vengano da noi. Ma in un anno ne sono arrivati già più di un milione, mettendo a rischio la nostra fragile coesione europea.
La Nato, un tempo baluardo dell’Occidente, è rimasta in Afghanistan ma è assente in Siria come è assente in Libia dove la guerra è alle porte di casa. Non ha saputo ritagliarsi un ruolo nella lotta al terrorismo jihadista. Hollande, con i morti di Parigi sulle braccia, ha preferito fare appello all’Europa piuttosto che rivolgersi all’Alleanza atlantica. Tutto quello che la coalizione occidentale ha saputo fare è allargarsi al Montenegro, aumentando l’irritazione di Mosca, salvo poi convocare una seduta del Consiglio Nato-Russia, che non si riunisce da diciotto mesi. Un anno e mezzo di mancato dialogo, mentre il mondo stava cambiando.
Se questa è la leadership dell’Occidente democratico, non c’è da stupirsi che le mezze democrazie, come la Russia e la Turchia, prendano l’iniziativa in una crisi dove finora hanno agito solo dittature sanguinarie, come quella di Assad, o teocrazie ancora più mostruose, come il Califfato di Daesh. Ma le istituzioni di quello che un tempo si definiva orgogliosamente il Mondo libero, dalla Nato all’Unione europea, dovrebbero cominciare a chiedersi se riusciranno a sopravvivere alla propria impotenza. E, soprattutto, se ne valga davvero la pena.