Repubblica 29.12.15
L’artista dissidente
Perché il mondo non urla quando Pechino cancella i diritti
di Ai Weiwei
NELL’APRILE del 2011 fui sequestrato dalla polizia segreta cinese all’aeroporto di Pechino e detenuto per ottantun giorni in un luogo segreto. Al mio rilascio il governo mi accusò di evasione fiscale, benché durante la prigionia gli agenti mi avessero chiesto soprattutto delle mie attività politiche. Volevano che pagassi 2,4 milioni di dollari tra tasse e more, e quando domandai il motivo di quell’estorsione, mi fu risposto: «Se non ti sanzioniamo non ci darai mai pace».
Decisi di non dare loro pace e di presentare ricorso. Contattai Pu Zhiqiang, uno dei pochi, coraggiosi avvocati disposti a difendere gli attivisti politici che avevano subito abusi da parte del regime autoritario cinese. Zhiqiang accettò di rappresentarmi. La sua grande preparazione e la chiarezza del suo pensiero mi colpirono. In tribunale Zhiqiang era arguto, convincente e intrepido. Negli anni Zhiqiang ha difeso molti giornalisti e attivisti dei diritti civili. Il suo operato, insieme al suo coraggio e alle sue enormi competenze, lo hanno reso un obiettivo di persecuzione politica. La leadership considera la sua crescente influenza alla stregua di una minaccia.
Dopo aver trascorso anni in carcere, il 14 dicembre Zhiqiang è stato rimandato a giudizio dalla Seconda corte intermedia di Pechino per aver «attaccato briga, provocato problemi e incitato all’odio razziale» sulla base di quanto da lui pubblicato su un microblog nel quale criticava le politiche del Partito comunista. Ora il governo lo ha dichiarato colpevole, infliggendogli tre anni di arresti domiciliari. Il verdetto per Zhiqiang si traduce nell’automatica revoca della licenza di avvocato e di quella piattaforma che gli consentiva di dare voce a chi non ne ha. Pur avendo ottenuto una condanna meno severa del previsto (grazie forse alla pressione internazionale), una volta tornato in libertà Zhiqiang non potrà certo condurre un’esistenza normale: ogni suo spostamento sarà monitorato dalla polizia che, nel caso in cui egli riprendesse le sue attività politiche nei prossimi tre anni, potrà arrestarlo in qualsiasi momento.
Nel giugno del 2011, quando fui rimesso in libertà, le autorità mi tolsero il passaporto e mi proibirono di pubblicare articoli su internet e parlare con la stampa. Sugli edifici e i pali dell’elettricità che circondavano il mio studio furono installate delle telecamere di sorveglianza, mentre agenti di polizia stazionavano in pianta stabile nei paraggi. Per lasciare la mia abitazione dovevo chiedere il permesso, e quando mi veniva concesso venivo pedinato. Zhiqiang subirà un trattamento analogo. La Cina risente di una grave carenza di avvocati indipendenti che siano anche sufficientemente coraggiosi da battersi in nome del valore universale dei diritti civili. Zhiqiang rappresenta un caso a parte. Nel 1989, quando ancora studiava giurisprudenza a Pechino, Zhiqiang prese parte a uno sciopero della fame indetto in piazza Tienanmen a favore della democrazia. La sera in cui i carri armati del governo fecero il loro ingresso in città, lui e una studentessa di medicina furono tra gli ultimi a lasciare la piazza, e mentre tentavano di raggiungere i rispettivi dormitori si persero tra alcune stradine secondarie. Una circostanza fortuita, che risparmiò loro di imbattersi nei soldati che si aggiravano per le vie principali sparando a caso contro i manifestanti. Quella studentessa in seguito è diventata sua moglie.
Zhiqiang non ha mai smesso di chiedere al governo di riconoscere il massacro del 1989. A maggio dello scorso anno la polizia lo ha arrestato dopo che egli aveva preso parte a un raduno privato organizzato per commemorare il venticinquesimo anniversario della sommossa studentesca di Tienanmen. Né io né i suoi amici immaginavamo che sarebbe stato trattenuto così a lungo in carcere, in attesa di processo. In quell’occasione gli inquirenti interrogarono lui e i suoi colleghi e passarono al setaccio la contabilità del suo studio legale nella speranza di poterlo accusare di qualche reato di natura fiscale, come già avevano fatto con me e con molti altri attivisti. E quando quel tentativo fallì, pensarono di prendere di mira il suo microblog.
Benché Zhiqiang sia unico, il suo caso non lo è. Dal momento del suo arresto sono state perse le tracce di molti rappresentanti legali di attivisti dei diritti umani. Nessuno, al di fuori del “sistema” sa dove si trovino o in che modo vengano trattati. Le famiglie non possono far loro visita e i loro figli non possono lasciare il paese. È lecito presumere che in un futuro non molto lontano saranno sottoposti a dei processi simili a quello di Zhiqiang, e che, come nel suo caso, saranno emessi verdetti di colpevolezza.
Mentre il mondo intero decanta il potere economico della Cina, nessuno dovrebbe dimenticare che l’ascesa di questo paese avviene a scapito della libertà e dei diritti civili. Molte persone, dentro e fuori della Cina, si sono purtroppo rassegnate al fatto che il sistema giudiziario sia sottoposto al potere del Partito comunista. Io invece respingo questa indifferenza e questo torpore. Mi rifiuto di credere che in Cina siamo obbligati ad accettare ciò che ci viene dato. Il nutrito gruppo di sostenitori cinesi e occidentali che ha sfidato la polizia per manifestare di fronte al tribunale nel quale si celebrava il processo a Zhiqiang è per me motivo di speranza. Se a dispetto di una potente macchina statale tutti noi potessimo trovare il coraggio sufficiente per urlare a squarciagola ciò che pensiamo, alla fine potremo portare il cambiamento.
( © 2015 New York Times News Service Traduzione di Marzia Porta)