Repubblica 22.12.15
La politica dell’altrove
In questi anni di crescita del populismo è nata solo una coltivazione delle paure
Saltano le culture politiche quel calco di pensiero che ha dato forma al
Novecento
di Ezio Mauro
COME in Italia, la Spagna ha portato alle elezioni politiche due forze nate nella ribellione ai partiti tradizionali che faticano a rappresentare i cittadini e alle istituzioni che imbarcano acqua da tutte le parti, soprattutto davanti all’onda lunga della crisi. Una ribellione anti-sistema, dunque, con il risultato di uno stallo: il nuovo entra in Parlamento — scrive il
País — , il vecchio non se ne va. Nessuno ha vinto in Spagna, mentre i due protagonisti della sfida del Novecento, socialisti e popolari, hanno sicuramente perso. Non vincono nemmeno i ribelli, che però da oggi sono una potenziale bomba a orologeria insediata nel cuore dello Stato, col 20,7 di Podemos e il 13,9 di Ciudadanos. Insieme, la bolla antipolitica si gonfia fino al 34,6, e teoricamente sarebbe il primo partito della democrazia iberica se in politica fosse possibile unire non solo i sentimenti ma anche e soprattutto i risentimenti, vera cifra dell’epoca.
NATURALMENTE le storie di questi movimenti generati dal caos della crisi, quindi dal mix classico tra la ribellione e la disperazione, sono ognuna diversa dall’altra, proprio perché non tengono conto della storia e non sono figli della tradizione. Ma proprio l’evidenza spagnola obbliga a fare una riflessione generale sulla democrazia rappresentativa europea, e il suo stato di salute. Intanto diciamo che come in Italia la Lega e i Cinquestelle, Ciudadanos e Podemos occupano uno spazio nominale rispettivamente a destra e a sinistra dello schieramento parlamentare, ma tendono ad essere trasversali, post-ideologici, acchiappatutto e disinteressati alle classificazioni tradizionali. In realtà la vera differenza con i vecchi partiti è che questi soggetti elettorali non nascono da un pensiero politico ma dalla contingenza, non da un percorso della storia ma dal contemporaneo. In questo senso, sono figli della realtà, prodotti istantanei, politica che crea una teoria di sé mentre opera, fuori da tutti i riferimenti classici. Tutto questo determina una totale disinvoltura culturale, perché i movimenti non hanno vincoli cui rispondere né lasciti da onorare o eredità da acquisire. Sono tecnicamente vergini, primigeni, mutanti avanguardie di una nuova specie. Non è la loro radicalità d’opposizione la vera caratteristica nuova: è la presunzione di alterità, la convinzione di essere un esercito invasore cui è proibito ogni dialogo con gli indigeni, pena la compromissione e la perdita della diversità. Tutto pur di affermare la forza della diversità: persino l’ignoranza, esibita come una garanzia di naiveté, una suprema estraneità alle istituzioni che sono da espugnare, non da governare.
Nati da questa rottura drammatica della modernità che è la fine del politico, come categoria che ha dominato il secolo scorso, i nuovi movimenti sono in questo senso monodimensionali. Nascono per soppiantare un sistema e non per concorrere a una politica, dunque hanno necessità di fare di ogni erba politica un fascio da bruciare sul fuoco di un’indignazione continua, che devono tenere sempre acceso. In questo modo, abbandonano la logica parlamentare che non prevede verità con la maiuscola, perché in un’assemblea rappresentativa dei cittadini esistono solo verità relative che si devono confrontare e combinare tra di loro. Ma è proprio la logica combinatoria (imposta dal risultato spagnolo) che è per forza di cose estranea a questa nuova cultura: conviene sotterrare i talenti in attesa del giorno del miracolo, piuttosto che spenderli in un mercato che si considera indegno e truccato. E conviene intanto infilzare la classe dirigente tutta insieme nello spiedo di un giudizio sommario e senza rimedio, per poter entrare o crescere in Parlamento incarnando nello stesso tempo la ribellione contro le élite, con quella che Croce chiamava una “feroce gioia” contro le istituzioni democratiche.
Mentre il País intitola oggi il suo editoriale “Benvenuti in Italia”, cioè nella terra dell’instabilità politica permanente e della frantumazione della rappresentanza, Andrea Bonanni ieri su “Repubblica” ha collegato la spinta spagnola anti-establishment al successo popolare in Francia di Marine Le Pen, ai nuovi reazionari arrivati al governo in Ungheria e in Polonia. Il termine “populisti” li accomuna nelle forti diversità, ma nello stesso tempo non basta ormai più. Certamente il populismo è la più moderna interpretazione di una politica ridotta ad una serie continua di sollecitazioni e di impulsi — più che di idee e valori — trasmessi da un leader trasformato in attore politico (performer) nei confronti di una base popolare a cui non chiede partecipazione, ma una delega periodica e una vibrazione di consenso continua. Lo scambio avviene sulla vecchia frontiera tra il cittadino e lo Stato moderno, quella frontiera dove si negoziano quote di libertà in cambio di quote di sicurezza. Per un paradosso drammatico, mentre nella fase che viviamo aumentano le paure legittime e anche quelle meno razionali, lo Stato nazionale fatica sempre più a garantire la sicurezza che gli viene richiesta. Il cittadino avverte che la crisi è senza governo; capisce che questo deficit è figlio di fenomeni globali che portano la situazione fuori controllo; si accorge che rivolgere le sue richieste allo Stato nazionale è un’abitudine novecentesca ormai fuori corso, perché il potere vero sta negli spazi transnazionali dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione. Dunque il potere fa ormai il fixing in un altrove irraggiungibile, che mette fuori gioco le sovranità, il governo tradizionale e il controllo cosiddetto democratico. Perché l’altrove non ha istituzioni, né costituzioni: vive senza.
Ma se quell’altrove è irraggiungibile, allora la politica è una pura operazione mimetica del reale, perché la posta in gioco è fittizia. E dunque il sistema diventa prima lontano, poi indifferente, quindi estraneo al cittadino, che entra anche lui in un “altrove”: diserta il voto o si rifugia nel voto più semplice di rifiuto del sistema. Rifiuta lo Stato e il meccanismo democratico che gli dà forma, ritenendo che questa sia l’ultima ribellione possibile, o addirittura la più forte, quella finale. Senza accorgersi che nel momento in cui lui si pone fuori dalla rete della vicenda pubblica rifiutando di farne parte, quando l’esercizio dei suoi diritti è esclusivamente individuale e non si combina con gli altri, anche lui conta per uno, e non interessa più allo Stato se non come unità da computare sterilmente nei sondaggi, e da ammassare nel voto residuo, al netto delle astensioni.
È qui, in questo crinale tra l’esserci e il non esserci, che si gonfia il sentimento dell’antipolitica. Un sentimento più che un pensiero. In questi anni di crescita del populismo non è infatti nato un pensiero economico alternativo al liberismo che ci ha portati dentro la crisi, una moderna interpretazione dell’Occidente che gli consenta di difendersi e contrapporsi all’Is e alle sue minacce omicide, una nuova teoria dell’accoglienza e della sicurezza che permetta di rispondere alle domande di umanità che arrivano dall’ondata dei migranti rispondendo nello stesso tempo alle paure e alla richiesta di protezione che vengono dalle fasce più deboli della nostra popolazione: i più anziani, i più soli, quelli che vivono nelle grande periferia del Paese. No: è nata solo una coltivazione delle paure, irrigate e concimate da slogan strumentali, in quella semplificazione che è la vera forma espressiva del populismo e non reggerebbe mai ad una prova di governo, ma è perfetta per raggiungere le solitudini impaurite d’inizio secolo, chiuse a doppia mandata nel grande tinello italiano. Un pensiero contratto a slogan che non serve a contrastare la paura ma a confermarla quasi fisicamente, promettendo barriere, muri, esclusioni, frontiere.
Tutto ciò non accadrebbe se la politica svolgesse il suo compito. Ma nel momento in cui ai partiti mancano storie, tradizioni e valori (tutto ciò che fa muovere le bandiere: che infatti restano flosce come sulla luna), ogni cosa diventa istantanea e istintiva, spesso anche isterica, l’atto politico non c’è più, soppiantato dal gesto politico che si consuma mentre si compie, nell’esemplarità artificiale di una performance ridotta a spettacolo pirotecnico, di cui dopo il botto resta solo la cenere. Il vuoto della politica, o peggio, genera solitudine repubblicana a cui si crede di rispondere con secessioni private, come se fosse possibile cercare risposte individuali a problemi collettivi. La politica ufficiale vive su una platea di attenzione e di interlocuzione ogni giorno sempre più ridotta, consumata, ristretta e si rivolge dunque ad una parte fortemente minoritaria di popolazione mentre il resto si perde e si disperde, diventando irraggiungibile e soprattutto rinunciando ad essere rappresentata. Questa è la vera novità dell’epoca: in una fase di esplosione della rappresentanza formale (James Fishkin ha calcolato addirittura in 101 i “rappresentanti” da lui eletti, dal presidente degli Stati Uniti allo sceriffo, ai consiglieri della scuola) molti cittadini si spogliano coscientemente della cittadinanza attiva rinunciando ad essere rappresentati, dunque a pretendere fedeltà al mandato e a stabilire un vincolo preciso tra eletto ed elettore. È vero che la crisi della politica c’è stata anche in altri momenti, e Tangentopoli ad esempio ha addirittura cancellato partiti centenari, e costituenti. Oggi saltano però anche le culture politiche che hanno determinato la fisionomia parlamentare dell’ultimo secolo e la forma stessa delle istituzioni, il calco di pensiero che ha dato forma alla parte pubblica del Novecento. La risposta può essere trovata solo nell’efficacia della politica, che deve tornare a giustificare se stessa, dimostrando di saper governare i fenomeni, garantendo i cittadini nella sicurezza e nel cambiamento; e nella ricerca di un fondamento culturale per l’agire politico, che renda i partiti distinguibili in nome di valori, e non confusi in quella prassi indistinta che si riassume nel nuovo mantra secondo cui “destra e sinistra sono ormai superate”: e naturalmente chi lo dice è già compiutamente di destra. Bisogna sostituire una storia credibile, in cui ci si possa riconoscere, alle opposte propagande. Bisogna dire la verità al Paese. Solo così si può contendere ai populisti il popolo, e si può passare dal popolo ai cittadini.