domenica 20 dicembre 2015

Repubblica 20.12.15
Istanbul
Tra lotta e repressione la rivoluzione turca spiegata con l’arte
Al Maxxi di Roma un percorso sul presente del Paese
di Lea Mattarella


ROMA Se state pensando a Istanbul di Orhan Pamuk, a quella bella e struggente malinconia da tramonto sul Bosforo, a una città in cui si passa, e si guarda la vita da uno stesso palazzo, toglietevela dalla testa. Entrare al Maxxi significa trovarsi in un luogo in cui tutto si trasforma in maniera frenetica, senza sosta, rifiutando ogni tipo di ordine. L’intento dichiarato dai curatori della mostra Istanbul. Passione, Gioia, Furore,
Hou Hanru, Ceren Erdem, Elena Motisi e Donatella Saroli era quello di portare il visitatore all’interno del pulsare incessante di una megalopoli. E indubbiamente ci sono riusciti. Fino al 30 aprile, più di 100 opere di 45 tra artisti e architetti conducono in un’autentica e imprevedibile immersione in immagini, movimento, parole, musica, odori, spazi da abitare e da spiare, oggetti con cui interagire, progetti realizzati, sognati oppure distrutti e contrastati, suoni. Di alcuni di questi, come l’assordante sirena che strilla senza darti tregua al primo piano, se ne sarebbe volentieri fatto a meno. Ma è la metropoli, bellezza. E per raccontarla l’esposizione sceglie una divisione in sezioni che terminano sempre con un punto di domanda: Un giardino di rose? Pronti per il cambiamento? Possiamo combattere? Dobbiamo lavorare sodo? Domani davvero? E allora, benvenuti in un universo colorato, rumoroso, vitale e pieno di interrogativi. Per visitarlo prendetevi molto tempo. Ci sono film che durano a lungo e video che raccontano storie impossibili da lasciare a metà. Come la narrazione di Zeyno Pekünlü che racconta i fatti di Gezi Park visti dalla parte dei manifestanti, attraverso parole chiave di cui ti sembra quasi di scoprire il contenuto per la prima volta: attesa, vittoria, paura… Ed ecco la protesta che prende corpo rivelando la passione, i ruoli, le domande, la quotidianità, il rischio di chi l’ha vissuta in prima persona. Sappiamo che tutto è nato perché Erdogan e il suo governo volevano modificare l’assetto di Piazza Taksim con la costruzione di un grande centro commerciale in stile ottomano. Appena giunti i bulldozer e abbattuti i primi alberi, i cittadini hanno cercato di impedire quello che consideravano un inutile scempio del verde, riunendosi in un raduno pacifico che finirà per durare interi giorni, diventando il motore di un dissenso capace di contagiare il paese. Com’è finita lo sappiamo. Gezi Park è la Tienanmen turca. Cose che succedono in paesi in cui le manifestazioni del disaccordo sono bollate come episodi di terrorismo per giustificare la violenza della loro repressione.
Da lì, da quegli episodi del 2013, prende l’avvio la mostra, privilegiando opere realizzate negli ultimi anni che parlano di rivolta. O rivelano segni e contraddizioni di una metropoli che si muove in un equilibrio a volte pericolosamente incerto tra Oriente e Occidente, tra islamizzazione e modernizzazione, tra crescita e sviluppo selvaggio, con la difficoltà di dover gestire anche la recente immigrazione siriana. Molti lavori raccontano la difficoltà di chi è costretto a lasciare la casa, il proprio quartiere per trasformazioni edilizie che espellono i ceti meno abbienti, costringendoli a veri e propri esodi da una parte all’altra della città. Di questo parlano i corti di Nejla Osseiran che inquadrano le conseguenze delle trasformazioni di due quartieri storici come Sulukule e Tokludede che hanno visto la migrazione dei vecchi abitanti in zone lontane anche 40 chilometri. Guardi le loro facce, le vecchie baracche che li ospitavano e senti sulla pelle il significato di ogni sradicamento. Anche il video di Halil Altindere si concentra su Sulukule, dove da sei secoli abitava la comunità Rom, e a ritmo hip hop, ci pone di fronte alla rabbia dei giovani delle periferie che, anche con le manette ai polsi o i proiettili della polizia in corpo, si ostinano a cantare la loro collera. Ahmet Ögüt con le sue sculture tiene in mano la bandiera di chi resiste, realizzando modellini delle nail houses, abitazioni che i cittadini si rifiutano di abbandonare e che rimangono come piccole isole di opposizione circondate da lavori in corso. Lo scrittore Aravind Adiga ha raccontato in un romanzo, L’ultimo uomo della torre, la caparbietà di chi non se ne vuole andare. È un grande plastico, ma tutto di latta, il lavoro che Antonio Cosentino ha creato con i recipienti di olio, vino, carburante.
Tra queste sale si parla anche di condizione femminile, di diritti negati, ma anche di chiacchiere e confidenze che liberano e aprono la mente. Lo fanno le fotografie di Nilbar Güres attente a restituire l’atmosfera di riunioni di migranti in rosa, o i suoi foulard annodati a creare quella che appare una percorribile anche se pericolosa via di fuga. Anche Günes Terkol, nata nel 1981, dichiara la sua volontà di emancipazione a colpi di stoffa: con questa tesse, insieme a compagne di avventura e attiviste femministe, colorate storie di battaglie di piazza in striscioni con figure femminili che sventolano bandiere. E si serve del ricamo per raccontare ciò che appartiene invece al lato intimo e quotidiano delle donne. Illumina la scena l’arcobaleno di Sarkis, allestito davanti alle foto delle scale di Istanbul colorate dai manifestanti con le tinte delle battaglie omosessuali (oggi distrutte, come documenta Mario Rizzi in mostra). Non lontano ecco la fusione di tre pezzi di piombo di Sener Özmen, dedicati al Medio Oriente, al mondo e alla lingua curda, quella del suo popolo, che sembrano essere vittime del malocchio. Non vi perdete i lavori di Extrastruggle: qui, tra neve e animazione, la rivolta si fa poesia.