lunedì 14 dicembre 2015

Repubblica 14.12.15
L’ennesima occasione mancata
Alla fine la sesta Leopolda sarà ricordata soprattutto come un’occasione mancata per ridefinire e magari correggere un progetto politico di respiro.
di Stefano Folli


ANDIAMOCI a prendere il futuro»: la frase a effetto con cui il premier ha chiuso il suo discorso è uno slogan senza tempo, ma senza dubbio più adatto al “renzismo” della prima ora, quando c’era una carovana da mettere in moto. Oggi, dopo quasi due anni di governo, sembra lievemente stonato, quasi un modo per buttarsi alle spalle in qualche modo tutto ciò che contraddice il momento dell’auto-celebrazione. I militanti naturalmente tornano a casa soddisfatti. Il senso di appartenenza a un “clan” è stato rafforzato dalle giornate fiorentine. E del resto tali appuntamenti annuali servono soprattutto a questo: a consolidarsi nelle certezze, a immedesimarsi nel leader, a illudersi che gli inciampi e gli ostacoli siano frutto degli intrighi di “sciacalli” e “gufi”. Sotto questo aspetto le varie Leopolde funzionano come un mini-congresso del partito del premier, quella specie di sindacato di controllo che agisce all’interno della cornice formale chiamata Partito democratico. E il parallelo convegno romano della minoranza - peraltro oscurato dalla kermesse renziana - non fa che confermare questa immagine.
Il problema è che gli interventi pubblici del presidente del Consiglio e segretario del Pd non possono limitarsi a rinforzare nel loro credo quanti sono già convinti. Invece è quello che è accaduto, specie nella giornata conclusiva in cui la nota dominante era l’orgoglio. Orgoglio misto a stizza e a una punta d’arroganza nel replicare ai critici, a chi come Saviano ha evocato il conflitto d’interessi dentro il governo sulla questione delle banche: vale a dire il peggior rischio d’incaglio politico che l’esecutivo ha incontrato finora nel corso del suo cammino.
A qualcuno Renzi ha ricordato il Craxi maturo e ringhiante contro i suoi avversari che ammaliava la base socialista ma poi risolveva tutto nel gioco di palazzo, ossia nella logica della “governabilità” elevata quasi a mito: una promessa di potere su cui investire, destinata ai fedeli vecchi e nuovi prima che a chiunque altro. Ma oggi il premier agisce in uno spazio assai diverso da quello in cui il leader socialista agiva nel sistema bloccato della Prima Repubblica. E infatti la linea emersa a Firenze è del tutto auto-referenziale, non ci sono altri nomi e protagonisti se non in negativo. E se la difesa di Maria Elena Boschi è senza incrinature, la vistosa assenza della ministra (salvo per i venti minuti del suo intervento) è apparsa come lo specchio di un non-detto, di una difficoltà politica rimossa perché non ammissibile. Qualcosa che appartiene al terreno in apparenza amico della comunicazione con il popolo italiano.
Renzi oggi è un personaggio che non ha rivali dentro il Pd e che si pone verso l’esterno come l’unico argine al populismo anti-sistema dei Cinque Stelle e della Lega. Una condizione che Craxi, per restare nel paragone, non ebbe mai occasione nemmeno di concepire. Eppure alla Leopolda si è vista la fatica di dare uno sbocco a una costruzione politica che resta al fondo fragile, esposta ai rischi degli scandali e delle inchieste giudiziarie. Un paradossale contrappasso per chi cominciò la sua ascesa non esitando a usare la mannaia del giustizialismo e anche del moralismo contro gli avversari, a cominciare da quelli del suo stesso partito.
Oggi invece abbiamo l’insofferenza verso la stampa, l’elenco dei giornali sgraditi, le polemiche sui titoli fuorvianti. Si dice: i quotidiani criticano, ma chi è colpito ha diritto di risentirsi. Invece non è così quando si tratta del presidente del Consiglio, cioè del rappresentante del potere politico, il quale dovrebbe conoscere la differenza di ruoli e sapere qual è il rapporto che in una democrazia matura si stabilisce fra il capo dell’esecutivo e i rappresentanti dell’informazione, anche la più scomoda.
Per questo e altri motivi la Leopolda è un’occasione persa. Un esercizio un po’ provinciale, concluso nel giorno in cui la Francia si dimostrava all’altezza della sua storia nazionale e respingeva senza misericordia l’offensiva del Fronte Nazionale. Che rimane un soggetto politico primario e guai a sottovalutarlo, ma le cui ambizioni sono state frantumate da un sistema elettorale concepito per sconfiggere gli estremisti. In Italia abbiamo invece un modello mai sperimentato e che si teme possa provocare l’effetto opposto: la convergenza al secondo turno di tutte le liste e gli elettori contrari al governo. Deve essere per questo che Renzi si è detto sicuro di superare il 40 per cento al primo turno: senza precisare tuttavia da dove ricavi tale sicurezza.
Ed è ancora per questo che la Leopolda ha offerto una sola novità: l’abbandono di una formula di scarsa fortuna (il “partito della nazione”) in favore di un’altra definizione che potremmo riassumere come il “partito del referendum”. Infatti il premier punta tutte le sue carte sul referendum costituzionale di ottobre, pronto a farne un plebiscito personale preparatorio delle successive elezioni politiche. Più che mai il progetto politico del “renzismo” è Renzi stesso.