Repubblica 10.12.15
Bosnia, reportage dal paese divenuto cimitero senza fine
di Stefania Parmeggiani
Vent’anni dopo gli accordi di Dayton in libreria il racconto di W. L. Tochman sui luoghi della guerra nella ex Jugoslavia
Sono passati esattamente vent’anni dagli accordi di Dayton, quelli che misero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Oggi il Paese è spezzato in due e secondo alcuni la violenza è ancora lì, che cova sotto la cenere. Nelle strade non ci sono più giornalisti, ma basta uscire dalle città per incontrare gli antropologi forensi. Arrivati all’indomani del conflitto su incarico del Tribunale internazionale dell’Aja, non hanno ancora fatto le valige. Pulizia etnica, campi di concentramento, esecuzioni di massa, fosse comuni, riesumazioni, identificazioni. Il loro lavoro è essenziale: sono gli unici che possono dare una risposta definitiva alle famiglie di chi è stato inghiottito dalla guerra.
Nel reportage letterario Come se mangiassi pietre, pubblicato in Italia da Keller editore con la traduzione di Marzena Borejczuk, il giornalista Wojciech L. Tochman, direttore dell’Istituto Polacco di Reportage, accompagna la dottoressa Ewa Klonowski nella ricerca della verità. Al momento del loro incontro – siamo nel 2003 – questa donna dai capelli bianchi e dagli occhi asciutti aveva già portato alla luce i resti di duemila persone. Li aveva ripescati dai pozzi, tirati fuori dalle grotte, estratti da una discarica o da una accozzaglia di ossa suine.
Attraverso di lei Tochman racconta il dolore che non finisce mai e le enormi difficoltà del lavoro forense: gli ultranazionalisti serbi dopo la guerra hanno dissotterrato i corpi per riseppellirli altrove e sottrarsi così alla giustizia internazionale. Fa anche qualcosa di più: racconta quello che succede quando le armi non sparano e ci restituisce una riflessione universale sopra la perdita, la vergogna e anche il perdono. Seguendo l’esempio di Ryszard Kapuscinski, esce dai confini della cronaca per indagare i fatti con gli strumenti della letteratura.
La sua lingua è fredda e tagliente, descrive i luoghi dei massacri, le città abbandonate dai musulmani e quelle occupate dai serbi senza alcun sensazionalismo. Il racconto si muove tra due poli: quello che è successo durante la guerra e i suoi effetti sulle persone e sull’economia. Tochman visita anche la Repubblica Srpska e mostra come il conflitto sia stato devastante per tutti.
Il suo reportage si conclude a Potocari dove nel luglio del 1995 i civili in fuga da Srebrenica avevano cercato rifugio nella base dei caschi blu olandesi. Dopo tre anni i serbi avevano rotto l’assedio e si erano riversati tra le case. Quella volta gli olandesi non mossero un dito per aiutare gli abitanti, i serbi trascinarono via almeno ottomila tra uomini e ragazzi più alti di un metro e mezzo. Il giornalista si siede sull’erba insieme ai sopravvissuti e ascolta il Rei-ul-Ulema, la suprema autorità religiosa dei musulmani bosniaci, invocare Allah. Sta assistendo a uno dei funerali collettivi che da allora ogni luglio dà sepoltura alle vittime identificate nell’anno precedente. Il cimitero – un rettangolo lungo un chilometro e largo trecento metri – nel 2003 non era ancora completo. Non lo è neanche oggi: solo 6.200 vittime sono state identificate. Dalle fosse comuni continuano a venire riesumati cadaveri.
IL LIBRO Come se mangiassi pietre di W. L. Tochman ( Keller, trad. di Marzena Borejczuk euro 14,50)