La Stampa 9.12.15
il triplice fallimento dell’Unione
di Emanuele Felice
Può essere facile mettere insieme gli attacchi terroristici di Parigi e la vittoria di Le Pen. Ma sarebbe sbagliato. Con l’affermazione del Front National quelle stragi c’entrano solo in piccola parte. L’ascesa dell’estrema destra francese ha radici europee.
Si spiega con il fallimento – triplice: economico, culturale e politico – dell’Unione negli ultimi due decenni, cioè all’incirca da quando è stato introdotto l’euro. È dalla traballante architettura europea che origina la forza dei lepenisti ed è proprio su quell’edificio che essa rischia di avere l’impatto maggiore, facendolo tremare fino addirittura a sfasciarlo.
Per il triplice fallimento dell’Unione, le vecchie classi dirigenti nazionali, e quelle francesi forse più di altre, hanno gravi responsabilità. E ce l’hanno soprattutto quelle storicamente legate alla sinistra, a ciò che un tempo si chiamava il movimento operaio e la cui base elettorale si sta infatti spostando, gradualmente ma sempre più convintamente, verso i partiti nazionali e neo-protezionisti. Nel recente e impervio cammino di integrazione europea i francesi sono stati fra i più gelosi sostenitori delle prerogative nazionali, molto più di quanto non abbiano fatto i tedeschi – e molto più di noi italiani, che invece su questo ci siamo sempre mostrati meritoriamente europeisti. In quanto ai socialisti, nel 2012 Hollande divenne presidente con un programma molto ambizioso sul piano sociale: spesa pubblica per contrastare la crisi, da finanziare con una tassazione dei redditi fortemente progressiva. Era la classica ricetta della sinistra. Quella ricetta rovinò miseramente, semplicemente perché risultò controproducente innalzare le tasse in via unilaterale, se non lo facevano anche gli altri. Ricordate il caso di Gérard Depardieu che chiese la cittadinanza belga? Ecco, appunto. È il tema dell’unione fiscale: giunti a questo stadio, dopo l’unione monetaria e la libera circolazione di capitali e persone, rappresenta l’unica soluzione concreta affinché una politica redistributiva possa essere ancora concepibile – naturalmente a livello europeo. In alternativa, bisognerebbe tornare alla moneta nazionale e magari a qualche forma di protezionismo. O l’uno o l’altro. Ma chi dovrebbe richiederla una politica redistributiva, se non le forze che tradizionalmente rappresentano i ceti meno abbienti – Hollande, anziché Sarkozy? I socialisti francesi non hanno saputo promuovere l’unica prospettiva strategica per loro sostenibile, quella dell’unione fiscale; ragion per cui si sono ritrovati impotenti, finendo per tradire i loro stessi elettori. Non stupisce che molti si siano spostati sulla seconda alternativa, il ritorno allo Stato-nazione.
Ciò detto, sarà utile fissare con chiarezza un altro punto fondamentale: le formazioni antisistema crescono in tutta Europa, ma con un’importante differenza fra i paesi che hanno aderito alla moneta unica e quelli che ne sono rimasti fuori. Nell’area euro, l’appeal elettorale di queste formazioni è inversamente proporzionale all’andamento dell’economia: segno che le motivazioni materiali c’entrano, eccome, nelle scelte degli elettori; ma forse anche auspicio che quel consenso potrebbe presto ridimensionarsi, in conseguenza di una politica più lungimirante da parte delle istituzioni europee. In parte ciò sta già avvenendo, ce ne accorgeremo con le elezioni generali spagnole del 20 dicembre. Il recupero è in corso da quando Draghi sta facendo tutto il possibile per allentare la stretta deflattiva: l’economia respira, la retorica anti-euro si attenua (anche in Italia, persino in Francia). L’emergenza profughi e la guerra ai terroristi complicano le cose, certo, perché favoriscono le reazioni di pancia e spostano il confronto su un terreno diverso. Ma d’altra parte le cose potrebbero facilitarsi se anche le diverse classi dirigenti nazionali capissero che devono assolvere al loro compito con lungimiranza e azioni comuni: ad esempio, mettendosi d’accordo rapidamente su un grande piano europeo di investimenti, in settori chiave e per natura transnazionali (perché richiedono ingenti investimenti), come le grandi infrastrutture, le biotecnologie e le nuove fonti di energia; e sulle politiche per la sicurezza.
Nei paesi dell’Unione esterni all’euro (Regno Unito, Polonia, Ungheria), che non a caso e per diversi motivi avvertono meno l’identità europea, ragioni culturali sembrano invece almeno altrettanto importanti per spiegare l’ascesa dell’estrema destra: in Polonia, ad esempio, la vittoria degli ultra-nazionalisti è avvenuta in un periodo di eccezionale prosperità per quel paese, con una tempistica del tutto indipendente dal ciclo economico. Questo secondo aspetto è più preoccupante, deve far riflettere sul fatto che proporre una maggiore integrazione anche per i paesi esterni all’Euro è oggi velleitario: piuttosto bisogna pensare seriamente a un’Europa a due velocità, in cui quanti hanno già realizzato l’unione monetaria procedano celermente anche sulla strada di quella fiscale e della sicurezza, mentre agli altri viene lasciato più tempo per elaborare – se mai lo vorranno – un sentimento di appartenenza sovrannazionale e la condivisione di regole comuni.