martedì 8 dicembre 2015

La Stampa 8.12.15
Venezuela, così finisce una rivoluzione
di Mimmo Candito


Domenica è finita un’altra «rivoluzione». In realtà, in un continente, l’America Latina, che di rivoluzioni ne ha tentate molte, e quasi tutte, alla fine, vestite soltanto della retorica che la lingua spagnola concede volentieri ai propri racconti, dando il nome di «Revolución» anche a certi golpe maldestri di militari ambiziosi, nemmeno quella bolivariana è stata una rivoluzione storica, nonostante che Chávez rivoluzione la chiamasse per poterle dare la storia che le mancava. Comunque, con il voto di domenica, anche questa ora finisce, come tutte le rivoluzioni, quelle vere e quelle presunte.
Certo, una continua ancora, e Raúl Castro, che oggi la indossa con il beneplacito della generosità della storia (ma soprattutto con l’accordo firmato da Kennedy e Kruscev nell’ottobre del ’62, appena a un passo dalla guerra atomica, accordo che garantiva l’astensione di Washington da ogni tentativo futuro di rovesciare il regime dei «barbudos»), Raúl si è affrettato a mandare un telegramma di affettuosa solidarietà a Maduro, conduttore di autobus fattosi rivoluzionario di complemento, e sconfitto ora dalla propria inadeguatezza a essere un rivoluzionario autentico, di quelli che davvero la storia la cambiano e non si perdono, invece, nei pasticci di gestioni corrotte e incapaci, carenti comunque di quella dimensione carismatica che una Revolución non può non avere.
Raúl gli doveva il telegramma per quei 60.000 barili di petrolio che partivano per l’Avana a prezzo politico e davano ossigeno alla sua Revolución. E molto debbono a Chávez e al Venezuela bolivariano ancora tanti altri governi, non solo latinoamericani, che con il petrolio generoso della holding Pdsva potevano reggere politiche sociali di difficile sostentamento in bilanci statali molto asfittici. Aveva infatti ragione Maduro quando ieri diceva che a sconfiggerlo è stata «la guerra economica del capitalismo imperialista», certamente infastidito da questo socialismo sudamericano.
Ma aveva ragione se, parlando di «guerra economica», intendeva dire della forza delle leggi spietate del mercato e dei poteri che le condizionano, ma aveva torto, e torto marcio, se con quella giustificazione pretendeva di spiegare invece la corruzione dilagante e tollerata fin dal Palacio Miraflores, la sua incapacità a regolare i bilanci dopo la caduta del prezzo internazionale del petrolio, le mille deficienze nella gestione del mercato interno, del controllo della moneta, delle relazioni con una dinamica delle classi sociali che con lui puntava a una esclusione piuttosto che alla integrazione.
Un’inflazione al 270% e fino al 600%, la più alta al mondo, una moneta offerta ufficialmente al cambio di 6,3 bolivares (fino a 13) per un dollaro mentre al mercato nero viene venduta a 1.000 bolivares per un dollaro, e gli scaffali dei supermercati vuoti per un Paese costretto a importare fino al 60% dei suoi beni di consumo: Maduro si è scontrato con una condizione di crisi che lentamente, ma inesorabilmente, ha escluso il Venezuela dal mercato finanziario internazionale, debilitando la sostenibilità di politiche sociali basate sulla persistenza d’un prezzo del petrolio a 100 dollari a barile, quando ormai era sceso a poco più di 40 dollari, e ha creduto che – rinserrandosi dietro la prepotenza delle sue squadre bolivariane e la spregiudicatezza d’un potere che controllava ogni altro potere – riuscisse a reggere la decadenza del suo «socialismo». Si é sbagliato.
In America Latina c’è ancora il sogno dell’utopia senza armi, ma finisce sempre come il colonnello Aureliano Buendía di García Márquez.