domenica 20 dicembre 2015

La Stampa 20.12.15
Il fango e l’ombrello Cantone
di Giovanni Orsina


L’Italia delle retoriche anticasta e del populismo giustizialista è governata ormai dal principio della colpa oggettiva: non ti condanna quel che fai, ma quel che sei. Se il governo a cui appartieni decide su un caso nel quale, fra molti altri, è coinvolto anche tuo padre, tu sei colpevole e ti devi dimettere. E figurarsi poi se in quel caso son coinvolti banchieri e risparmiatori, e tuo padre è un banchiere, e un risparmiatore si è tolto la vita. Poco importa che il conflitto di interessi sia risibile: se la figlia del vicepresidente d’una banca di provincia non può fare il ministro, chi potrà più andare al governo?
Oliver Twist, verrebbe da rispondere se ci fosse da scherzare – e verrebbe poi da aggiungere che già Heidi sarebbe esclusa: non sia mai che abbassi l’Iva sul cacio pecorino per favorire il Vecchio dell’Alpe. E poco importa soprattutto che, almeno finora, non siano emersi elementi concreti tali da far pensare che agli amministratori delle banche fallite sia stato riservato un trattamento di favore. Come detto: non quel che fai, ma quel che sei.
Sul fiume limaccioso di retorica giustizialista che per l’ennesima volta ha attraversato l’Italia in questi ultimi giorni, a ogni modo, galleggiano due osservazioni sulle quali vale la pena fermarsi un istante. La prima è di Roberto Saviano, e l’ha ripresa l’altroieri alla Camera il pentastellato Di Battista: figurarsi se una cosa del genere fosse accaduta a un governo Berlusconi. La seconda è la critica a Renzi, ai renziani e al ministro Boschi per la prontezza con la quale in altre occasioni, e di fronte a situazioni non troppo più gravi, si sono schierati col «partito delle dimissioni».
Le due notazioni, innanzitutto, dimostrano entrambe quanto incontrollabile, imprevedibile, ecumenico sia il ventilatore che sparge ovunque il fango anticasta. Una volta che lo si sia acceso (e in Italia è acceso da più di vent’anni, ormai), spegnerlo diventa pressoché impossibile. E sul lungo periodo la speranza che stia sempre girato da un’altra parte – verso i miei avversari, non verso di me – è necessariamente destinata a dimostrarsi vana.
Le due osservazioni, poi, riportano l’attenzione la prima sul comportamento che ha tenuto in quest’occasione quello che forse dovremmo cominciare a chiamare il non-più-partito Forza Italia, apparentemente non-più-guidato da Silvio Berlusconi; la seconda sulla linea politica del governo. La battaglia contro il giustizialismo Berlusconi l’ha fatta male, e l’ha perduta. Per quanto la si possa non condividere, e soprattutto si possano non condividere i motivi per i quali lui l’ha fatta, tuttavia, non si può negare che un qualche quarto di nobiltà quella battaglia l’avesse. Ed è desolante vedere adesso il non-più-partito dividersi e farsi ricattare dalla Lega proprio sul terreno del garantismo, uno dei migliori sui quali si sia mai mosso. Desolante – ma al contempo pure dimostrazione retrospettiva di quanto la presenza berlusconiana su quel terreno fosse politicamente strumentale e culturalmente fragile.
Stessi termini – fragilità culturale, strumentalità politica – sembra proprio che possano essere utilizzati anche per Renzi. Se è vero che spegnere il ventilatore giustizialista è impossibile, è vero pure che si potrebbe quanto meno cercare di rallentarne i giri. È una strategia che richiederebbe coraggio e lungimiranza. Ma è una strategia che non sembra proprio essere quella del presidente del Consiglio – intento piuttosto a perseguire l’opzione tattica della sopravvivenza politica, ossia a riparare se stesso e i suoi dagli schizzi di fango, e ossessivo fra l’altro nell’affidarsi sempre allo stesso «ombrello», l’ormai ubiqua Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Una scelta tattica però, questa di Renzi, che proprio con il caso Boschi, per la prima volta, ha mostrato tutti i suoi limiti.