sabato 12 dicembre 2015

La Stampa 12.12.15
Tra nebbie e biennali
Felice Casorati, come si forma un artista
Al Museo degli Eremitani di Padova gli anni giovanili seguendo il padre militare e il confronto con Boccioni
di Marco Vallora


Un luogo comune, sviante e superficiale, che ci auguriamo questa bellissima mostra, importante anche sotto il profilo filologico, aiuti a sfatare, è quello che Casorati sia un pittore automaticamente «torinese». Non è vero ed ecco qui le illuminanti prove indiziarie. È vero sì, che nasce a Novara, nel 1883, ma non passa (e approda) a Torino, che molti, molti anni dopo (e che riluttanza!). Segue il destino del padre militare e dunque le tappe sono, in ordine: Reggio Emilia, innocua per la sua formazione, Sassari e poi Padova, decisiva e nutritiva invece, come qui si evince. Ove giunge nel 1895, illudendosi di diventare musicista, dove studia e si laurea in giurisprudenza, per compiacere il padre, ma è qui che si scopre pittore, assorbendo la vivace cultura locale. Ma poi soprattutto sporgendosi verso la stimolante compagine «mobile» delle vivissime Biennali cosmopolite-veneziane, e delle Secessioni stile Ca’ Pesaro. Parallelamente, seguendo le orme del padre prefetto, anche Boccioni, che nasce a Reggio Calabria segue un altro percorso: Forlì, Genova, non Catania, perché decide di staccarsi dalla famiglia ed anche lui di fermarsi a Padova, dal 1897. Non che i due si guardino con grande simpatia: Boccioni, che come Casorati aveva la stessa abitudine, «spunta», con probabile ammirazione, un ritratto del «rivale», a una Biennale, ma non aggiunge altro. Casorati, che con la sua metafisica intemporale e assai «ritorno all’ordine», detesta il chiassoso Futurismo, ostenta semmai di preferirgli Prampolini, con cui collaborerà insieme, in molte giurie.
La buona idea di Virginia Baradel, studiosa di entrambi, è stata, per esempio, quella di metterli a confronto contrappuntistico, per dimostrare analogie e differenze, già indagate da Mimita Lamberti. Documentando, per esempio, la distanza di Casorati (pittore di macchia e d’impasti spesso pastosi, od improvvisamente glabri, magri di tempera gessosa) in contrasto con il piovigginoso divisionismo, filamentato e «francese», di Boccioni, allievo di Balla. Casorati è invece, altro luogo comune ma forse vero, maestro soltanto di sé stesso. Mentre quest’articolata rassegna tenta di evocare il brodo di coltura e cultura da cui comunque egli fiorisce, con stenta fertilità. Un’impresa impervia, perché nonostante la proficua scoperta d’inediti, il materiale d’epoca è scarso, avendo il perennemente scontento Casorati molto distrutto, di quel suo primo periodo, da lui ingiustamente svalutato. E poi c’è sempre da tener conto della miopia masochistica e stolta di istituzioni che non prestano opere, che invece avrebbero ricevuto qui un lustro di ritorno, anche scientifico, visto la serietà della ricerca e del catalogo Skira, ricco d’utili novità. Giustissima, per esempio, la presenza sorprendente d’un maestro «comunque», come l’eccentrico Giovanni Vianello (si veda per esempio il Prato della Valle di sera che annega Padova in una nebbia orientale, o quella punteggiata Festa del Redentore che si sposa con certi teleri di Galileo Chini): artista affermato, che permette a Casorati d’incontrare nel suo studio il visionario rovighese, di stigmate israelitiche, Mario Cavaglieri, anche lui in mostra. Senza contare poi la contiguità con un geniale «cartellonista», quasi spiritico, un poco in stile Viani, quale Ugo Valeri. Poi ci sarà la poco amata sosta napoletana (lui frigido, nordico, che non ama tutta quell’accecante luce mediterranea).
Ed infatti, sbagliando due volte la grafia, il poeta-critico torinese Thovez scrive di lui: «Casorato si innalza per un corteo di vecchie, accuratamente espressive, d’un comico freugheliano», che ovviamente sta per «breugheliano». Perché, per l’artista delle nebbie fiamminghe padovane, che ironicamente si proietta in quello zuzzurullone baudleriano, quasi autobiografico, del Bellisai la città partenopea non sarà tanto il ventre fangoso delle sordide viuzze assassine, o dei monelli cenciosi, ch’egli detesta, ma è la visita quotidiana al Museo di Capodimonte, ove scopre il fatale corteo dei Ciechi di Breughel. Ed allora la sua pittura, Le vecchie comari o Persone o Bambine nel prato, diventerà così: di concentrati gruppi campestri, ipnotizzati e spagnoleggianti, oppure ancora per un’ennesima volta nordici. Accorpati quasi secondo un montaggio cinematografico, di «tipi», che incarnano un’espressione, un’interiorità macilenta e melanconica, un’intensità introiettata. Perché è ovvio che alle Biennali, il prensile, non ha guardato solo il solito, ripetuto Klimt o il primo Kandinskji (lui stesso lo ammette) ma anche Slujters, Toorop, Zorn, e persino il Kokoschka dei Ragazzi sognanti. In particolare nella sua regale grafica lunare, bagnata dalla luce intermittente di Vie lattee, che figlieranno le sterili Parche dell’amica Carol Rama.