venerdì 11 dicembre 2015

La Stampa 11.12.15
La Leopolda in mezzo al guado
di Marcello Sorgi


In un Paese vischioso come l’Italia, ci sono situazioni che tendono a ripetersi, indipendentemente dai momenti storici e dai protagonisti che li attraversano. Così anche Renzi, alla vigilia della Leopolda che dovrebbe sancire un primo bilancio dell’attività di governo, si trova a metà del guado della sua parabola di leader: il traguardo è lì, si vede a occhio nudo; le energie per raggiungerlo non mancano; gli ostacoli da superare sono noti e sono sempre gli stessi; ma qualche segno di logoramento, insieme ai primi capelli bianchi, affiora anche sul volto del giovane premier.
A dire la verità, Renzi può ben dire di aver fatto, non solo metà, ma due terzi del percorso da una sponda all’altra. In un anno e mezzo di governo è riuscito a far approvare da un Parlamento ingovernabile la riforma elettorale, quella del lavoro, la legge sulla responsabilità dei giudici, la riforma della scuola, ed è a un passo dall’ottenere il varo anche della riforma istituzionale (riduzione, quasi cancellazione del bicameralismo) e di quella della Rai. Può inoltre vantarsi di aver tenuto fede alla parola d’ordine della rottamazione, pensionando quasi tutta la classe dirigente della Seconda Repubblica e rinnovando i vertici delle aziende di Stato dell’epoca berlusconiana; nonché di aver superato con grande disinvoltura il passaggio difficile delle dimissioni di Giorgio Napolitano - un punto di equilibrio giudicato indispensabile nell’infinita transizione italiana - e dell’elezione del suo successore al Quirinale, Sergio Mattarella. E ancora, di essere riuscito a imporre un’inversione di tendenza a un quadro economico addormentato sulla recessione e da anni rassegnato alla marcia indietro. Certo, la crescita non è ancora vigorosa, e lo dimostrano le dispute sullo 0,7 o 0,8 o 0,9; ma è indubitabile che, di fronte alle cifre, il più abbia sostituito il meno. Anche questo è un passo avanti.
Se solo si riflette sulla quantità e sulla qualità dei problemi risolti e sul tempo esiguo che Renzi ha avuto a disposizione per affrontarli, bisogna convenire che non esistono precedenti nella recente storia repubblicana di una stagione politica così innovatrice e di un periodo riformatore talmente fecondo. Una specie di capovolgimento, rispetto all’ultimo ventennio immobile e perduto nello scontro sterile tra un centrodestra e un centrosinistra capaci solo di farsi la guerra. Perché allora di fronte a un bilancio, parziale quanto si vuole, ma indubitabilmente positivo, sul premier e sul suo governo, periodicamente, torna ad allungarsi l’ombra del dubbio? Essenzialmente per due ragioni, che la Leopolda, intesa come assemblea della nuova classe dirigente, farebbe bene a discutere e ad approfondire seriamente.
La prima è la situazione internazionale, già gravata dalle difficoltà dell’Europa alle prese con l’ondata epocale dei migranti, e tutt’insieme travolta anche dall’emergenza terrorismo, dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi e l’escalation dei venti di guerra anti-Isis in Siria. In uno scenario arroventato dalle continue minacce dei terroristi islamici, che hanno inserito la Roma del Giubileo tra i loro principali obiettivi, Renzi, a differenza di altri partner e leader come Hollande, Cameron, e a modo suo anche la Merkel, ha scelto un atteggiamento più prudente, allineandosi con la scelta americana di non correre subito verso una nuova guerra e prendendo le distanze dalla fretta di Putin di far mettere gli scarponi sul terreno ai soldati russi, per stroncare sul nascere la minaccia del Califfo e dello Stato islamico. Una posizione articolata e ragionata, che ha offerto alla Francia la disponibilità ad alleggerire il suo impegno militare in altri scenari, come il Libano, in cui l’Italia è già presente, accompagnandola, davanti a tutti gli altri Paesi impegnati sul teatro della guerra antiterrorismo, con l’offerta di un ruolo-guida italiano, non appena sarà possibile, nella vicina e dissestata Libia post-Gheddafi, da cui continuano a partire i barconi carichi di migranti.
Discutibile o meno - e non è un mistero che in più di una cancelleria amica sia stata giudicata troppo prudente, o troppo orientata a contingenze come l’inizio del Giubileo, o esigenze di politica interna, come l’evitare di offrire il destro al Movimento 5 stelle e alla sinistra radicale per alzare bandiere pacifiste - questa posizione rischia di non poter essere mantenuta a lungo, per il progressivo venir meno, specie dopo la strage in California, delle resistenze Usa all’ipotesi di una vera guerra, e per il deteriorarsi della situazione in Libia, dove le armate del Califfo sono alle porte della Sirte, e dove a questo punto si prefigura, più che un ruolo da cuscinetto per equilibrare le tensioni tra le varie fazioni interne, un nuovo fronte dello scontro militare con l’Isis, a cui francesi e inglesi, e gli stessi americani, si stanno ormai preparando. L’ora delle decisioni si avvicina, dunque, anche per il governo Renzi.
La seconda ragione, o se si preferisce il secondo pezzo del guado da completare, riguarda il Pd. Renzi, di fronte alla gravità delle questioni internazionali, aveva chiesto all’ultima direzione che ha preceduto la Leopolda, di soprassedere, non fosse che per sensibilità, alla quotidiana messa in scena delle lotte intestine, delle risse per le candidature alle comunali, del corpo a corpo tra le correnti. Incredibilmente, non è stato possibile. La questione di un partito avvelenato e ridotto a un verminaio di agguati e trappole interne è risalita come un rigurgito, lungo l’esofago della politica italiana, ed ha allagato di pozzanghere - da Torino a Milano, da Bologna a Roma e Napoli - il cammino del premier e del suo governo. Così a poco a poco Renzi ha dovuto rinunciare a celebrare la sua Leopolda lontano da questi miasmi, e deve adesso decidere cosa fare: perché se si tiene a distanza dal Pd, di cui per inciso rimane il segretario, l’intossicazione del partito non potrà che peggiorare. E se invece si decide a metterci le mani, o trova una strategia per rimetterlo a posto, o rischia di perdere le prossime elezioni.