domenica 13 dicembre 2015

Il Sole 13.12.15
La sfida dei due Pd, ma la leadership anti-Renzi ancora non c’è
di Lina Palmerini


L’unica tregua è sul ministro Boschi a cui la minoranza non chiede le dimissioni per la vicenda delle banche, anzi, la difende. Su tutto il resto, sul partito, sul doppio ruolo segretario-premier, sulla legge elettorale, si parlano da parti opposte. Matteo Renzi dalla Leopolda, la minoranza da un teatro romano a Testaccio, e i due mondi del Pd sembrano destinati a non trovare mediazioni ma solo a preparare altri scontri.
Nessuno parla di scissione al teatro del Testaccio dove la minoranza arriva dopo aver già subito alcune perdite. Perché certo le uscite di Fassina o D’Attorre sono più una perdita per loro, che avrebbero dovuto tenere insieme tutti gli oppositori anti-renziani, che non per Renzi. Ed è proprio questo uno dei punti deboli di quest’area: la difficoltà di riuscire a mantenere compatto un dissenso che in molte occasioni si è disperso o assottigliato. È successo nelle votazioni finali sull’Italicum quando il Governo mise il voto di fiducia e i dissidenti furono una trentina su un gruppo di oltre 300, eletto tra l’altro, con Bersani che era segretario. E lo stesso è accaduto anche al Senato dove, alla fine, si è trovata una mediazione dopo settimane di dichiarazioni di guerra e uno sfilacciamento dell’opposizione interna. Insomma, le battaglie parlamentari non hanno, fin qui, tonificato questa minoranza.
E forse uno dei motivi sta nel fattore di debolezza più evidente: l’assenza di una leadership anti-Renzi forte. Oggi i leader di questa area sono stati o già sconfitti dal premier, come Gianni Cuperlo alle primarie del 2013, o non sembrano avere un forte appeal nemmeno all’interno, come Roberto Speranza. E infatti la caccia all’anti-leader è aperta e lo sanno tutti: si fanno i soliti nomi dal presidente della Regione Lazio Zingaretti a quello della Regione Toscana Rossi fino agli ultimi rumors su Giuliano Pisapia. Dunque, se davvero l’appuntamento di ieri a Testaccio doveva essere l’annuncio di una campagna che porta verso la sfida congressuale del 2017, gli mancava l’attore protagonista.
Per il resto i temi messi sul tavolo a Roma sono quelli che ci si aspettava. No al doppio ruolo di Renzi come segretario di partito e premier; no al partito della nazione perché guarda a destra; no a questa legge elettorale che va corretta per tornare a premiare la coalizione più che il partito. Un programma assolutamente antitetico rispetto al Pd renziano ma anche rispetto all’idea stessa in cui era nato il Pd delle origini. Quello di Veltroni che vedeva proprio nella coincidenza dei due ruoli un fattore di stabilità per i governi di centro-sinistra che sono sempre rimasti schiacciati dal fuoco amico. Inutile citare il Governo Prodi che nel ’98 fu sostituito da D’Alema.
E la regola del doppio ruolo, va detto, non la cambiò nemmeno Pierluigi Bersani nei suoi 4 anni da segretario del Pd. Perché? Certo, lui aveva promesso che mai avrebbe tenuto il ruolo di segretario se avesse vinto le elezioni e governato ma la contro-prova non l’abbiamo mai avuta. Abbiamo invece la certezza che quella regola non fu toccata quando c’era lui e governava il partito e i gruppi dirigenti. Si provò a modificarla, guarda caso, solo quando Bersani non c’era più e si stavano per fare le primarie in cui era chiaro che avrebbe vinto Renzi contro Cuperlo. Era segretario Guglielmo Epifani e a un’assemblea del Pd del settembre 2013 fu proposta la modifica dello Statuto sulla coincidenza del doppio ruolo. Non passò. Oggi tornano all’offensiva. Ma si sa che non ci si rassegna mai alle sconfitte.