Il Sole 12.11.15
Una nuova Yalta per il Medio Oriente
di Ugo Tramballi
Guardare oltre. Non è facile, è un esercizio complesso immaginare oggi un futuro per l’altra sponda del Mediterraneo. Pensare a quali scelte politiche, quali opportunità economiche, perfino quali confini dovrà avere la regione più caotica del mondo, quando la follia si fermerà. Perché questo prima o poi accadrà, per quanto ora possa sembrare inimmaginabile.
Ma il processo è incominciato, anche se l’Isis continua a controllare il suo territorio fra Iraq e Siria, si espande nella sua enclave libica. E intanto diventa sempre più minaccioso il fronte “esterno”, fatto di cani sciolti e terroristi dormienti nelle nostre metropoli. Ma pur con molta fatica, interessi contrastanti e a volte ancora reconditi, la diplomazia lavora sempre più intensamente in cerca di vie d’uscita.
Da ieri è Roma il centro del confronto. Prima con i Dialoghi mediterranei, organizzati dal ministero degli Esteri e dall’Ispi, l’Istituto di studi per la politica internazionale di Milano: “Oltre il caos, un’agenda positiva”, è il titolo ambizioso. E poi, domenica, alla Farnesina per un vertice dedicato alla Libia, al quale partecipano tutti i ministri degli Esteri interessati: Usa, Russia, europei e arabi.
Quello che serve al Medio Oriente è una Yalta, per cercare similitudini storiche suggestive ma non così impossibili. Nella Yalta originale americani e russi non erano d’accordo su nulla se non nell’arrivare fino a Berlino e sconfiggere il nazismo. In un certo senso i russi e gli americani di oggi non sono diversi, anche se le ideologie sono scomparse. Come a Berlino 70 anni fa, il governo che vorrebbero vedere a Damasco non è lo stesso. Hanno idee differenti su come dovrà essere il futuro Medio Oriente nel suo insieme. Ma sono entrambi d’accordo che non sia ormai possibile un nuovo assetto senza prima sconfiggere l’Isis e sradicare – almeno territorialmente – la sua presenza.
Era questo che il segretario della Difesa Ashton Carter diceva due giorni fa alla commissione Difesa del Campidoglio. I bombardamenti aerei sono efficaci fino a un certo punto: impediscono allo Stato islamico di organizzare offensive su larga scala e conquistare nuovi territori. Ma nel frattempo si radica sempre di più nei territori che controlla. Solo un’offensiva militare terrestre può raggiungere l’obiettivo finale. Ma se lo facessero gli occidentali, sarebbe solo “un’altra guerra americana”. Una partecipazione russa non cambierebbe la percezione degli arabi, dei turchi, degli iraniani. Perché nell’ipotetica Yalta mediorientale, loro non possono essere che protagonisti di pari livello. Russi, americani, europei, eventualmente i cinesi i cui interessi regionali sono sempre meno solamente energetico-economici e sempre più economico-politici, sono partners, facilitatori.
È stato duro l’ammonimento del vice cancelliere tedesco all’Arabia Saudita. Senza temere di mettere a rischio i cospicui affari che la Germania fa con Riyadh, Sigmar Gabriel ha esortato i sauditi s smettere di finanziare e armare i movimenti estremisti religiosi della regione, e invece partecipino con trasparenza alla lotta contro l’Isis. Un’ambiguità dalla quale si devono liberare qatarini, turchi, iraniani. Perché spetta ai protagonisti della regione sconfiggere militarmente l’Isis e, su questa vittoria, costruire finalmente un sistema mediorientale di sicurezza collettiva.
Sconfiggere militarmente l’Isis è un evidente “interesse strategico” comune, come ha detto ieri Matteo Renzi al Dialogo mediterraneo. È una ragione più che sufficiente per formare una vera alleanza. Il resto, la politica e la diplomazia, verrà immediatamente dopo.