martedì 15 dicembre 2015

il manifesto 15.12.15
I sette vizi capitali dei capi-partito sui tre nuovi giudici costituzionali
di Franco Monaco


L’impasse sui tre giudici della Consulta è sempre più umiliante e imbarazzante. Mi sia lecito fare qualche appunto a margine.
Primo: si spiega perfettamente l’ulteriore discredito — come se ve ne fosse bisogno — gettato sul parlamento dalla sua ingiustificabile inadempienza. Essa investe l’istituzione, ma anche tutti e singoli i parlamentari. Si deve tuttavia sapere che essi (intendo i singoli parlamentari) sono totalmente esclusi da tali decisioni, gestite nella forma più verticistica dai capi partito. Nonostante le mie rimostranze, mai, dico mai, quantomeno il gruppo parlamentare cui appartengo ci ha dato modo di discutere non dico i nomi (che pure non dovrebbe essere vietato), ma quantomeno metodo e profilo di essi. Dunque, risponda chi più precisamente deve risponderne, ovvero i vertici dei partiti.
Secondo: mi si è obiettato che, in passato, si è sempre fatto così (ieri il bigliettino allungato in aula, ora l’sms all’ultimo minuto). Non è esattamente così e tuttavia non è un buon argomento. Anche per due novità specifiche che riguardano l’elezione attuale:
la circostanza che questa volta si tratta di eleggerne ben tre e dunque di concorrere significativamente a disegnare il profilo complessivo della futura Corte;
proprio in queste settimane, la Camera sta varando una riforma costituzionale di grande portata che, comunque la si giudichi, disegna una democrazia maggioritaria (specie se la si considera associata all’Italicum) e che, conseguentemente, prescriverebbe di marcare vieppiù la terzietà degli organi di garanzia. Mai come ora.
Conseguenza? Terzo rilievo: a maggior ragione ci si dovrebbe orientare su figure di alto profilo e a tutti gli effetti indipendenti. Non figure controverse (erano necessarie 20 votazioni per comprendere che Violante, a torto o a ragione, rappresentava un nome divisivo e dunque un ostacolo a quella larga intesa prescritta dal quorum?).
Quarto: giusto per farsi carico di questa esigenza di terzietà e sapendo quanto sia facile cadere in tentazione da parte dei partiti, sarebbe utile ancorarsi a una sorta di convenzione: no al passaggio diretto, senza soluzione di continuità, dal parlamento o dal governo agli organi di garanzia. Per essere esplicito: no a Sisto oggi (che peraltro fatica a raccogliere anche i voti di Fi).
Come sarebbe stato meglio evitare ieri, in questo caso per il Csm, l’elezione di due ex colleghi che menziono per onestà intellettuale proprio perché amici che stimo: Legnini e Balduzzi. Piuttosto che Leone e Casellati, a suo tempo molto esposti politicamente nella stagione da dimenticare (o da ricordare!) delle leggi ad personam.
Quinto: tra le motivazioni dell’impasse, si dice, vi sarebbero ragioni di puntiglio rappresentate come ragioni di principio e cioè la tesi secondo la quale non devono essere gli altri gruppi a scegliere il «nostro». Tesi da confutate in radice: il criterio più convincente e più coerente con la suddetta «terzietà» è semmai che i principali gruppi convergano su tutti e tre i nomi. Non è impossibile. In passato ci si è riusciti.
Nessuno può sedersi al tavolo dicendo: Tizio o morte. Sennò effettivamente non se ne esce. L’imparzialità non è la somma delle partigianerie.
Sesto rilievo: la discussione non possono essere confinate nel perimetro della maggioranza di governo. Stando alla tradizione e alle consuetudini parlamentari, gli attuali tre grandi raggruppamenti dovrebbero poter esprimere candidati (naturalmente con il suddetto profilo). In concreto, non si capisce perché non lo possa fare il gruppo 5 stelle, tanto più se si considera che, nel caso concreto, esso ha proposto un metodo di trasparente confronto e, quanto al merito, un candidato da tutti giudicato all’altezza.
Settimo: il Pd propone Barbera. Anche sul suo nome si può discutere. Non è un mistero che, anche in settori del Pd, gli si rimprovera di avere ispirato le riforme di stampo maggioritario e segnatamente il ddl Boschi che a taluni non piacciono. È un argomento. Ma, complice la mia stima per la persona e lo studioso, mi sentirei di fare tre osservazioni: egli teorizzava il «modello Westminster» ben prima della stagione renziana; è costituzionalista di vaglia, ha tutti i titoli per la Consulta, come ha riconosciuto anche Zagrebelsky, che pure ha posizioni politico-costituzionali assai lontane dalle sue; per come lo conosco, sono sicuro che, una volta eletto, egli di sicuro non si farebbe dettare i comportamenti dal governo. Da vecchio cattolico, credo nella «grazia di stato».
* L’autore è deputato Pd